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Libro delle Fondazioni - Capitolo 27

Autore: Santa Teresa d'Avila

CAPITOLO 27

In cui si tratta della fondazione del monastero di Caravaca, sotto il patronato del glorioso san Giuseppe. Vi si pose il santissimo Sacramento il 1° gennaio dell’anno 1576.

1. Mentre ero a San Giuseppe di Avila, pronta a partire per la fondazione di Beas, di cui si è parlato, e non mancava altro che preparare i carri che dovevano trasportarci, arrivò un corriere personale inviato da una signora di Caravaca, chiamata donna Catalina: dopo aver ascoltato la predica di un padre della Compagnia di Gesù, tre ragazze erano andate a casa sua, risolute a non uscirne finché non si fosse fondato un monastero nella loro città. Evidentemente era una cosa già convenuta con questa signora, avendole poi lei aiutate nella fondazione. Appartenevano alle più distinte famiglie di Caravaca: il padre di una di esse era Rodrigo de Moya, gran servo di Dio e uomo di rara prudenza. Tutt’e tre avevano beni a sufficienza per aspirare a mettere in atto una tale iniziativa. Erano al corrente di quanto il Signore aveva fatto nella fondazione di questi nostri monasteri, perché le avevano informate i padri della Compagnia di Gesù, che hanno sempre favorito e aiutato la nostra opera.

2. Di fronte alla fervente aspirazione di quelle anime, che invocavano da così lontano l’Ordine di nostra Signora, mi sentii presa da devozione e animata dal desiderio di aiutare il loro lodevole intento. Saputo che Caravaca era vicina a Beas, aumentai il numero delle religiose che dovevano accompagnarmi con il proposito di recarmi là, appena fatta la fondazione di Beas, perché – giudicando dalle lettere ricevute – mi sembrava che sarebbe stato facile venire a un accordo. Ma, avendo il Signore deciso altrimenti, i miei disegni andarono in fumo. Come ho detto infatti nella fondazione di Siviglia, l’autorizzazione del Consiglio degli Ordini era formulata in tal modo che, sebbene io fossi decisa a partire per Caravaca, dovetti rinunciarvi.

3. È anche vero che, essendomi informata a Beas dove si trovasse questa città ed avendo saputo che era assai fuori mano e che la strada per andare dall’una all’altra località era così cattiva che sarebbe stato ben gravoso recarvisi per far visita alla religiose, senza poi dire che i superiori ne sarebbero stati scontenti, avevo ben poca voglia d’intraprendere quella fondazione. Ma, siccome avevo dato buone speranze, pregai il padre Giuliano d’Avila e Antonio Gaytán di andar lì a vedere come stessero le cose e, se lo ritenessero opportuno, di annullare le trattative. Essi trovarono che l’affare si era molto raffreddato, non da parte delle aspiranti, ma di donna Catalina che ne era stata l’anima, tenendo le giovani in un’abitazione separata come fosse già un ritiro.

4. Le postulanti, essendo irremovibili nel loro proposito, specialmente quelle due che sarebbero effettivamente diventate religiose, riuscirono a conquistarsi così bene il favore del padre Giuliano d’Avila e di Antonio Gaytán, che essi, prima di partire, stipularono il contratto e le lasciarono piene di gioia. A loro volta, i nostri coadiutori ritornarono così soddisfatti, sia delle postulanti, sia del paese, che non finivano di dirlo, come anche non finivano di dire che le strade erano pessime. Io, vedendo che l’affare era concluso e che l’autorizzazione tardava a giungere, mandai di nuovo là il buon Antonio Gaytán, il quale per amor mio accettava volentieri qualsiasi fatica. Inoltre, tanto lui quanto il padre Giuliano avevano a cuore questa fondazione e, in verità, di essa si può ringraziare loro, perché se non fossero andati lì e non avessero sistemato tutto, io avrei messo ben poco.

5. Gli chiesi di far porre la ruota e le grate nella casa che doveva servire per la presa di possesso e in cui dovevano stare le monache fino a che si fosse trovata un’abitazione conveniente. Così egli si trattenne là molti giorni. Fu Rodrigo de Moya, che – come ho detto – era padre di una di queste ragazze, a cederci assai volentieri parte della sua casa. E per sistemare questa faccenda, ripeto, a Gaytán occorsero vari giorni.

6. Ottenuta l’autorizzazione, mentre ero già in partenza per Caravaca, seppi che, in base a quanto vi era scritto, la casa sarebbe stata alle dipendenze dei Commendatori, cui le monache dovevano obbedienza, condizione che non potevo accettare, trattandosi di un monastero di nostra Signora del Carmine. Fu necessario, pertanto, chiedere una nuova autorizzazione, altrimenti neanche questo monastero, come già quello di Beas, si sarebbe fondato. Ma avendo scritto al re, lo stesso di ora, don Filippo, egli mi usò la grande benevolenza di ordinare che mi si inviasse l’autorizzazione nella forma desiderata. Disposto com’è a favorire i religiosi di cui conosce la fedeltà alla loro professione, avendo conosciuto il genere di vita che si conduce in questi monasteri nei quali si osserva la Regola primitiva, non ci ha mai fatto mancare il suo appoggio. Per questo vi raccomando vivamente, figlie mie, di pregare sempre in particolare per lui, come ora facciamo.

7. Poiché, dunque, bisognava chiedere una nuova autorizzazione, me ne andai alla volta di Siviglia per ordine del padre provinciale che, come ho detto, era allora, come anche ora, il maestro fra Girolamo Graziano della Madre di Dio. Pertanto quelle povere figlie rimasero chiuse fino al primo gennaio dell’anno seguente, e il messaggio che mi avevano inviato ad Avila datava dal febbraio. L’autorizzazione arrivò assai presto, ma siccome io ero così lontana e impelagata in tante difficoltà, non potevo occuparmene e ne avevo gran pena, perché mi scrivevano spesso con accenti di profondo dolore: non si poteva, quindi, lasciarle ancora in quella situazione.

8. Essendomi impossibile andare io personalmente, sia perché troppo lontana, sia perché la fondazione di cui mi occupavo non era ancora ultimata, il padre maestro fra Girolamo Graziano, il quale – come si è detto – era visitatore apostolico, decise che le religiose destinate a quella fondazione, rimaste frattanto a San Giuseppe di Malagón, andassero lì anche senza di me. Provvidi a dar loro come priora una consorella della cui capacità di assolvere perfettamente questo compito avevo piena fiducia, perché era assai migliore di me. Così partirono, fornite di tutto il necessario e accompagnate da due dei nostri padri scalzi, essendosene andati già da vari giorni il padre Giuliano d’Avila e Antonio Gaytán, che avevano fatto ritorno ai loro paesi; trovandosi essi così lontani, non volli richiamarli, tanto più che il tempo era pessimo, perché si era alla fine di dicembre.

9. Giunte lì, furono ricevute con grande gioia dalla gente del luogo, specialmente dalle giovani che stavano rinchiuse. Il giorno del nome di Gesù dell’anno 1576 fu posto il santissimo Sacramento e il monastero fu fondato. Subito le due postulanti presero l’abito. La terza era molto affetta da malinconia: probabilmente le nuoceva la clausura; che mai avrebbe fatto sottoponendosi a una Regola di tanto rigore e di tanta penitenza come la nostra? Decise quindi di tornare a casa sua e vivere con una sorella.

10. Considerate ora, figlie mie, i giudizi di Dio e l’obbligo che abbiamo di servirlo noi, a cui egli ha dato la grazia di perseverare fino alla professione e di restare per sempre nella sua casa come figlie della Vergine. Sua Maestà si servì dei desideri e dei beni di questa giovane donna per la fondazione del monastero. E quando ella avrebbe dovuto godere di quello che aveva tanto desiderato, le mancò il coraggio e soggiacque al suo malinconico umore, su cui spesso facciamo ricadere la colpa delle nostre imperfezioni e della nostra incostanza.

11. Piaccia a Sua Maestà di concederci l’abbondanza della sua grazia, con la quale nulla potrà sbarrarci la strada per impedirci di progredire sempre nel suo servizio, e accordare a tutte difesa e protezione, affinché non vada distrutta, per la nostra miseria, un’opera che ha avuto inizi tanto felici, e per la quale egli ha voluto servirsi di donne così miserabili come noi. Vi chiedo in suo nome, sorelle e figlie mie, di supplicarne sempre nostro Signore. Inoltre, ognuna di quelle che ci succederanno pensi che in lei comincia a rifiorire questa prima Regola dell’Ordine della Vergine nostra Signora e che in nessun modo si deve permettere alcun rilassamento. Badate che le cose più piccole aprono la porta a quelle assai grandi e che, insensibilmente, il mondo potrebbe farsi strada in voi. Ricordatevi a prezzo di quale povertà e di quali difficoltà si è conseguito il bene di cui voi oggi godete in tutta pace; inoltre, se ci riflettete bene, vedrete che queste case, per la maggior parte, non sono state fondate dagli uomini, ma dalla mano potente di Dio, e che Sua Maestà si compiace molto di far progredire sempre le sue opere, se non manchiamo di corrispondergli. Come pensate che una donna misera come me, soggetta ad altri, senza avere neanche un soldo né alcuno che la favorisse di qualche soccorso, potesse essere capace d’intraprendere cose tanto difficili? Questo mio fratello che poi contribuì alla fondazione di Siviglia e che possedeva qualcosa, ma soprattutto coraggio e cuore per darmi un po’ d’aiuto, allora stava nelle Indie.

12. Guardate, guardate, figlie mie, il segno della mano di Dio. non sarà stato certo l’esser io di sangue nobile a procurarmi questo onore. Sotto qualunque aspetto vogliate considerare la cosa, riconoscerete che è opera sua. Non è giusto, quindi, da parte nostra, menomarla in nulla, dovesse pur costarci la vita, l’onore, il riposo, tanto più che qui troviamo tutti i beni riuniti. La vita, infatti, è vivere in modo da non temere la morte né qualunque evento del mondo, godere di questa continua allegria che è ora in tutte voi, e di questa prosperità, a cui nessuna è pari, che consiste nel non aver paura della povertà, anzi, desiderarla. E c’è forse qualcosa a cui si possa paragonare la pace interiore ed esteriore che vi accompagna sempre? È in vostro potere vivere e morire in essa, come vi dimostra la morte di quelle fra noi che abbiamo visto spirare nelle nostre case. Se infatti pregherete sempre Dio di far progredire quest’opera e diffiderete di voi stesse, egli non vi negherà la sua misericordia. Se riporrete in lui la vostra fiducia e avrete un animo coraggioso – perché Sua Maestà ama proprio questo –, non abbiate a temere che vi manchi alcunché. Non rifiutate mai di accogliere quelle che verranno a chiedervi di entrare fra voi – qualora siate soddisfatte dei loro desideri e delle loro attitudini, e vediate che non vengono per sistemarsi, ma per servire Dio con maggior perfezione – per il fatto che non posseggono beni di fortuna. Basta che siano ricche di virtù, giacché Dio provvederà per altra via a darvi il doppio di quello che con la loro dote avreste potuto procurarvi.

13. A questo riguardo ho molta esperienza. Sua Maestà sa bene che – da quanto posso ricordare – non ho mai rifiutato di accogliere, per mancanza di dote, alcuna postulante che riguardo a tutto il resto mi lasciasse soddisfatta: ne fanno testimonianza le molte religiose che sono state ricevute solo per amor di Dio. E vi posso assicurare che, accogliendo chi portava molto al monastero, la mia gioia era assai inferiore a quella che provavo quando accettavo postulanti unicamente per l’amore di Dio. Anzi, le postulanti ricche m’ispiravano paura, mentre quelle povere mi allargavano il cuore e mi procuravano un tale piacere che piangevo di gioia. È la pura verità.

14. Se, dunque, con questo modo d’agire ci è andata così bene quando ancora dovevamo comprare le case e fare tutto il resto, ora che abbiamo dimore in cui vivere sicure, perché dovremmo comportarci diversamente? Credete a me, figlie mie: dove pensereste di guadagnare, perdereste. Quando le novizie hanno beni e sono libere da qualsiasi obbligo, invece di darli ad altri, che forse non ne hanno bisogno, è giusto che ve li diano in elemosina, perché confesso che mi sembrerebbe una mancanza d’amore se non lo facessero. Ma abbiate sempre cura che chi entrerà fra voi disponga di quanto possiede secondo quello che le consiglieranno uomini dotti come rispondente a maggior gloria di Dio: sarebbe infatti molto male pretendere beni da chiunque d’esse, senza aver di mira questo fine. Guadagniamo molto di più dal fatto che ella compia il suo dovere verso Dio – intendo dire con maggiore perfezione – che da quanto ci può portare in casa. Tutte noi, pertanto, non dobbiamo aspirare ad altro. Il Signore ci preservi da ambizioni diverse da quella di servire Sua Maestà in tutto e per tutto!

15. Per quanto miserabile e dappoco, vi dirò una cosa a onore e gloria di Dio, e per darvi la gioia di sapere in che modo si sono fatti questi monasteri: se, nelle trattative per le fondazioni o in ogni altra cosa che le riguardasse, avessi dovuto, per riuscirvi, deviare alquanto da questa purezza d’intenzione, in nessun modo avrei voluto continuare. Difatti nulla ho compiuto – ripeto, in tali fondazioni – che mi paresse scostarsi, sia pure d’un punto, dalla volontà del Signore (seguendo i consigli dei miei confessori, i quali, come sapete, sono stati sempre, da quando mi occupo di queste cose, uomini assai dotti ed eccellenti servi di Dio), né – per quel che ricordo – ho mai pensato di comportarmi diversamente.

16. Può darsi che m’inganni, che abbia commesso molti errori senza rendermene conto e che le mie imperfezioni siano innumerevoli. Lo sa nostro Signore, che è il vero giudice; io dico quello che ho potuto capire da me. E, d’altronde, so perfettamente che tali disposizioni non venivano da me, ma dal fatto che Dio voleva la realizzazione di quest’opera e, riguardandola come cosa sua, mi accordava il suo favore e mi elargiva tale grazia. Lo dico, figlie mie, nell’intento di farvi conoscere quanto maggiori siano i vostri obblighi verso di lui e farvi sapere che finora questi monasteri sono stati fondati senza pregiudizio di alcuno. Sia benedetto colui che ha fatto tutto ciò, suscitando la carità delle persone che ci hanno aiutato! Piaccia a Sua Maestà proteggerci sempre e concederci la grazia di non mostrarci ingrate verso tanti favori ricevuti! Amen. *

17. Avete dunque visto, figlie mie, che abbiamo dovuto sopportare non poche fatiche, benché credo che quelle da me riferite siano il minor numero. Difatti, se avessi dovuto raccontarvele minutamente, avrei finito con lo stancarvi molto, raccontandovi, per esempio, le sofferenze sopportate nei viaggi a causa delle piogge, delle nevi, degli errori d’itinerario e, soprattutto, spesso con l’aggiunta della mia assai malferma salute, che era un inconveniente continuo. Una volta fra le altre – non so se l’ho già detto –, durante la prima giornata di viaggio da Malagón a Beas, avevo la febbre e tanti mali messi insieme, che, considerando il cammino che ancora ci restava da percorrere e lo stato in cui ero ridotta, mi ricordai del nostro padre Elia, quando fuggì da Gezabele, e dissi: «Signore, come potrò avere la forza di sopportare tutto questo? Pensateci voi!». È certo che Sua Maestà, vedendo la mia debolezza, mi tolse di colpo la febbre e ogni altro dolore, tanto che, quando in seguito me ne resi conto, pensai che tale grazia fosse dovuta ai meriti di un sacerdote gran servo di Dio ch’era capitato lì. E ciò poteva ben essere. Fatto sta che i miei mali, interni ed esterni, sparirono d’improvviso. E quando mi sentivo bene in salute, sopportavo allegramente le fatiche fisiche.

18. Quanto poi a dover tollerare tanti diversi caratteri in ogni località, non si durava poca fatica. E il lasciare le mie figlie e le mie sorelle per recarmi da una parte all’altra, vi assicuro che, amandole come le amo, non è stata piccola croce, specialmente quando pensavo di non doverle più rivedere e assistevo alla loro angoscia e alle loro lacrime. Benché siano staccate da tutto il resto, il Signore non ha concesso loro la grazia di esserlo anche da me, forse per darmi motivo di maggior tormento, perché neanch’io sono staccata da loro. Facevo tutti gli sforzi possibili per non darglielo a vedere e le rimproveravo. Ma serviva a poco, essendo grande l’amore che nutrono per me, amore della cui sincerità hanno dato molte prove.

19. Sapete anche che le fondazioni, se in principio si sono fatte col permesso del nostro reverendissimo padre generale, in seguito sono state realizzate addirittura per suo espresso ordine. Non solo, ma ad ogni nuova fondazione egli mi scriveva di provarne grandissima gioia; certo, il maggior conforto che avevo nelle mie tribolazioni era la sua soddisfazione. Mi sembrava, procurandogliela, di servire nostro Signore, in quanto era il mio superiore, ma, a prescindere da questo, io nutro per lui un grande affetto. Senonché, o perché piacesse a Sua Maestà di darmi ormai un po’ di riposo, o perché il demonio fosse infastidito di vedere la fondazione di tante case in cui si serviva nostro Signore, mi fu ingiunto di por fine alle fondazioni. Si è poi visto chiaramente che non fu una misura presa per volere del nostro padre generale, il quale pochi anni prima – avendolo io supplicato di non ordinarmi più altre fondazioni – mi aveva scritto che si rifiutava di farlo, perché desiderava che le fondazioni fossero tante quanti i capelli della mia testa. Prima che lasciassi Siviglia, dunque, in seguito ad un Capitolo generale, in cui c’era da pensare che si sarebbe considerato come un’utile prestazione l’incremento dato all’Ordine, mi fu notificato un decreto emanato nel Definitorio che non solo mi proibiva di fare altre fondazioni, ma altresì di uscire, sotto qualsiasi pretesto, dalla casa che avessi scelto come mia dimora. Era come impormi una specie di prigionia, perché non c’è nessuna religiosa che il provinciale non possa mandare da una parte all’altra, voglio dire da un monastero all’altro, per necessità tese al bene dell’Ordine. Il peggio era che il nostro padre generale si mostrava inquieto con me – ciò mi affliggeva profondamente – senza averne alcun motivo, ma solo dietro informazioni di persone faziose. Seppi, nello stesso tempo, d’essere imputata di due colpe molto gravi.

20. Per farvi costatare, sorelle, la misericordia di nostro Signore e come Sua Maestà non abbandoni chi desidera servirlo, vi dico che tale notizia non solo non mi rattristò, ma mi procurò tanta gioia che ero fuori di me. Di conseguenza, non mi stupisco di quel che faceva il re Davide, precedendo l’arca del Signore, perché anch’io non avrei voluto fare altro, essendo tale la mia felicità da non sapere come dissimularla. Ne ignoravo la ragione, in quanto nei riguardi di altre gravi mormorazioni e opposizioni cui ero stata fatta segno, non mi era mai accaduto nulla di simile. Eppure, almeno una delle due accuse che mi furono riferite era gravissima. Quanto al divieto di fare altre fondazioni, prescindendo dal dispiacere del reverendissimo padre generale, per me era un gran sollievo; desideravo spesso, infatti, poter finire i miei giorni in pace. Coloro che avevano preso tale provvedimento non immaginavano certo questo, ma credevano di avermi procurato il più grande dispiacere del mondo. Può anche darsi che avessero altre intenzioni e che fossero buone.

21. A volte mi davano anche gioia le grandi contrarietà e le critiche che ci sono state nel corso di queste fondazioni, sia da parte di persone bene intenzionate sia da parte di persone mosse da fini ben diversi. Ma non ricordo d’aver mai sperimentato, in nessuna delle prove sostenute, una così grande gioia come a causa di quel che ho detto. Eppure confesso che, in altro tempo, una sola delle tre gravi contrarietà che mi colpirono tutte insieme mi sarebbe stata di grande afflizione. Credo che la ragione principale della mia gioia fosse il pensiero che, se le creature mi pagavano in quel modo, il Creatore doveva essere contento di me. Sono convinta infatti che s’inganna molto chi fa consistere la sua felicità nei beni della terra o nelle lodi degli uomini: oltre allo scarso guadagno che se ne trae, gli uomini sono oggi d’un parere, domani d’un altro, ossia essi si volgono assai presto a dir male di quello che prima hanno approvato. Siate benedetto, mio Dio e mio Signore, voi che siete eternamente immutabile! Amen. Chi vi servirà fino in fondo vivrà senza fine nella vostra eternità.

22. Come ho detto all’inizio, ho cominciato a scrivere la storia di queste fondazioni per ordine del padre maestro Ripalda, della Compagnia di Gesù, allora rettore del collegio di Salamanca e mio confessore. Ne scrissi alcune l’anno 1573, mentre ero nel monastero del glorioso san Giuseppe di quella città. Poi, a causa delle mie numerose occupazioni, avevo interrotto il lavoro e non intendevo continuarlo, sia perché, spostandomi in luoghi diversi, non mi confessavo più da quel padre, sia inoltre per la gran fatica e le difficoltà che mi costa questo scritto. Tuttavia, avendolo sempre fatto per obbedienza, ritengo bene impiegata la fatica. Mentre ero decisa a non proseguire in esso, il padre maestro Girolamo Graziano della Madre di Dio, attualmente commissario apostolico, mi ordinò di portarlo a termine. E, nonostante le obiezioni che gli opponevo, poco rispettosa dell’ubbidienza, circa lo scarso tempo di cui disponevo e altre difficoltà che mi vennero in mente, essendo ciò per me una fatica gravosa, in aggiunta alle altre, mi confermò l’ordine di finire il libro, sia pure a poco a poco e come meglio potessi.

23. Gli ho ubbidito e accetterò volentieri tutte le soppressioni che persone competenti riterranno opportune: tolgano pure quello che è detto male; forse proprio quello che a me sembra il meglio, sarà il peggio. Ho finito oggi, vigilia di sant’Eugenio, 14 novembre 1576, nel monastero di San Giuseppe di Toledo, dove ora mi trovo per ordine del padre commissario apostolico, il padre maestro fra Girolamo Graziano della Madre di Dio, superiore attuale degli scalzi e delle scalze della Regola primitiva, oltre ad essere visitatore dei carmelitani mitigati di Andalusia, a gloria e onore di nostro Signore Gesù Cristo che regna e regnerà per sempre. Amen.

24. Chiedo, per amore di Dio, alle sorelle e ai fratelli che leggeranno questo libro, di raccomandarmi a nostro Signore, affinché abbia misericordia di me, mi liberi dalle pene del purgatorio e mi permetta di godere di lui in cielo, se avrò meritato di starvi. Poiché, me vivente, non lo dovrete vedere. Se, dopo la mia morte, si riterrà opportuno farvelo leggere, mi sia di qualche profitto almeno allora la fatica sostenuta nel comporlo, e il gran desiderio che ho avuto, scrivendolo, di riuscire a dire qualcosa che vi sia di conforto.