Libro delle Fondazioni - Capitolo 30
Autore: Santa Teresa d'Avila
CAPITOLO 30
Ha inizio la fondazione del monastero della Santissima Trinità nella città di Soria, avvenuta l’anno 1581. Vi si celebrò la prima Messa il giorno del nostro padre sant’Eliseo.
1. Mentre ero a Palencia, occupata nella fondazione di cui ho parlato, mi portarono una lettera del vescovo di Osma, che era quel dottor Velázquez, con il quale avevo procurato di mettermi in contatto, quand’era canonico teologo nella chiesa cattedrale di Toledo. Tormentata ancora da alcuni timori e sapendolo uomo di straordinaria dottrina, oltre che gran servo di Dio, l’avevo pregato insistentemente di prendersi cura della mia anima e di confessarmi. Malgrado le sue numerose occupazioni, avendoglielo io chiesto per amor di Dio, accondiscese così volentieri che ne rimasi stupita. Mi confessò e diresse tutto il tempo che rimasi a Toledo, che fu lungo. Gli aprii la mia anima con assoluta franchezza, come sono solita fare. Ne trassi così gran profitto che da allora cominciai a non avere più tanti timori. È vero che vi contribuì un’altra ragione, che qui non è il caso di dire. Certo è che mi fece un gran bene, perché mi rassicurava con i testi della sacra Scrittura, che è quanto più giova a tranquillizzarmi, se ho la certezza, come l’avevo nei suoi riguardi, di trattare con chi li conosce bene. Del resto, univa alla scienza una vita santa..
2. Mi scriveva questa lettera da Soria, dove allora si trovava. Mi diceva che una signora del luogo, sua penitente, gli aveva parlato dell’eventuale fondazione di un monastero di nostre religiose. Egli era consenziente, ragion per cui si era interessato perché andassi lì a fondarlo. Mi pregava di fargli mantenere la parola data e, se il progetto mi sembrava conveniente, di dargliene notizia, perché in tal caso mi avrebbe mandato a prendere. Me ne rallegrai molto in quanto, prescindendo dall’utilità della fondazione, di cui ero convinta, desideravo fargli sapere certe cose della mia anima. D’altra parte, mi faceva piacere vederlo perché, avendomi fatto tanto bene, nutrivo per lui molto affetto.
3. La dama fondatrice anzidetta si chiama donna Beatriz de Beamonte y Navarra, perché discende dai re di Navarra ed è figlia di don Francisco de Beamonte, d’illustre e nobile famiglia. Rimasta vedova dopo alcuni anni di matrimonio, senza figli e con molti beni, aveva deciso da molto tempo di fondare un monastero di religiose. Quando ne parlò con il vescovo ed egli la informò di quest’Ordine delle scalze di nostra Signora, le piacque tanto che gli fece gran premura per la realizzazione del progetto.
4. È una donna dal carattere dolce, generosa, penitente; insomma, una gran serva di Dio. A Soria aveva una bella casa, solida e in buonissima posizione. Disse che ce l’avrebbe data con tutto quello che fosse stato necessario per la fondazione. E ce la diede, infatti, con una rendita di cinquecento ducati al venticinque per mille. Il vescovo si offrì di farci dono di una chiesa assai bella, tutta a volta, che apparteneva ad una parrocchia vicina, della quale ci siamo potute servire mediante la costruzione di un passaggio. Lo potette fare agevolmente perché era povera, e a Soria le chiese sono molte: così trasferì altrove la parrocchia. Di tutto questo mi dava notizia nella sua lettera. Ne parlai con il padre provinciale che si trovava allora a Palencia. Fu del parere, con tutti i nostri amici che, essendo finita la fondazione di Palencia, dovessi inviare un espresso al vescovo perché mandasse a prendermi. Io mi rallegrai molto di questa decisione per i motivi esposti precedentemente.
5. Cominciai a far venire le religiose che dovevo condurre a Soria con me. Ne scelsi sette, perché quella signora voleva che fossero piuttosto molte che poche, oltre a una conversa, la mia compagna e me. Venne a prenderci una persona particolarmente adatta allo scopo, con una diligenza, perché io avevo scritto che sarei stata accompagnata da due padri scalzi. Conducevo con me il padre Nicola di Gesù Maria, uomo di grande perfezione e prudenza, nativo di Genova. Quando prese l’abito aveva, se non mi sbaglio, più di quarant’anni, per lo meno li ha ora, e la sua vestizione è avvenuta da poco tempo. Ma, in così poco tempo ha fatto tali progressi che è evidente come nostro Signore l’abbia scelto a sostegno del nostro Ordine riformato durante le peripezie delle grandi persecuzioni sofferte. Ha lavorato molto, infatti, per noi, perché gli altri religiosi da cui ci sarebbe potuto venire un aiuto erano chi in esilio chi in prigione. Di lui, invece, siccome non ricopriva alcuna carica, essendo entrato – come ho detto – da poco nell’Ordine, i nostri nemici non facevano gran conto, oppure fu, questa, opera di Dio, perché avessi il suo appoggio.
6. È così prudente che potette alloggiare a Madrid nel convento dei calzati, con tale dissimulazione che non diede mai a vedere di occuparsi dei nostri affari. Così i padri non gli vietavano di stare lì con loro. Ci scrivevamo spesso, perché io mi trovavo allora nel monastero di San Giuseppe di Avila per decidere il da farsi: e questo gli era di conforto. Da qui si può vedere a quali estremi fosse ridotta la Riforma se, per mancanza di uomini capaci, come si dice, si faceva tanto conto di me. In tutto questo periodo ebbi modo di conoscere la sua perfezione e discrezione: è uno dei religiosi del nostro Ordine che amo molto nel Signore e di cui ho grande stima. Egli, dunque, con un fratello converso, ci accompagnò.
7. Il viaggio non fu molto faticoso perché l’inviato del vescovo ci provvedeva abbondantemente di tutto e ci aiutava a trovare confortevoli alloggi. Entrati, poi, nella diocesi di Osma, bastava dire l’interesse personale del vescovo nei nostri riguardi, perché ci facessero la migliore accoglienza, tanto grande è l’affetto che hanno per lui. Il tempo era buono; avanzavamo a piccole tappe; così questo viaggio ci costò ben poca fatica; ci fu piuttosto piacevole: fu, infatti, grandissima la mia gioia nel sentire le lodi che si facevano della santità del vescovo. Arrivammo a Burgo il mercoledì precedente l’ottava del santissimo Sacramento. Ci comunicammo lì il giovedì, che era il giorno dell’ottava. Pranzammo anche a Burgo, perché in giornata non si poteva arrivare a Soria e, in mancanza d’altro alloggio, passammo quella notte in una chiesa, ove non ci trovammo a disagio. Il giorno seguente vi ascoltammo la Messa e poi riprendemmo il cammino per Soria, dove arrivammo alle cinque della sera. Il vescovo era affacciato a una finestra della sua casa, dalla quale, quando passammo di lì, ci impartì la sua benedizione. Ciò mi fu di grandissima gioia, perché la benedizione di un vescovo e di un santo è sempre un’ottima cosa.
8. La signora che era la nostra fondatrice stava aspettandoci sulla porta di casa sua, cioè dove si doveva fondare il monastero. Non vedevamo l’ora di entrarvi, a causa della grande folla. Non si trattava di un fatto nuovo perché, dovunque andiamo, la gente, avida com’è di novità, fa una tale ressa intorno a noi che, senza il velo calato sul viso, la cosa ci sarebbe assai penosa. Ma, grazie ai nostri veli, l’inconveniente si fa meno molesto. La signora aveva fatto preparare per l’occasione una grande sala, dove si sarebbe celebrata la Messa perché, per recarci in quella di cui ci faceva dono il vescovo, bisognava attendere la costruzione del passaggio. Subito, il giorno seguente, che era la festa del nostro padre sant’Eliseo, la Messa fu celebrata.
9. La nostra fondatrice aveva provveduto con molta generosità a ogni nostra necessità. Ci lasciò in un appartamento dove restammo ben raccolte fino a che non fu terminata la costruzione del passaggio, cioè fino alla Trasfigurazione. Quel giorno si celebrò nella chiesa la prima Messa con molta solennità e gran concorso di gente. La predica fu tenuta da un padre della Compagnia; il vescovo era già partito per Burgo, poiché non c’è giorno e ora che egli non dedichi al lavoro. Allora, per giunta, stava male, avendo perduto l’uso di un occhio. Ebbi lì questa penosa notizia: mi affliggeva infatti profondamente la perdita di un organo così utile al servizio di nostro Signore. Ma sono misteri di Dio! Probabilmente egli volle con ciò dare la possibilità di acquistare maggior merito a questo suo servo, il quale, in effetti, continuò a lavorare come prima e a provare la sua conformità al volere divino. Mi diceva di non soffrirne più che se tale disgrazia fosse toccata ad un suo vicino, e come, a volte, perfino pensasse che neppure il perdere la vista anche dell’altro occhio lo avrebbe fatto soffrire, perché si sarebbe ritirato in un romitorio per dedicarsi, libero da ogni altro obbligo, al servizio di Dio. Questa era stata sempre la sua vocazione anche prima d’essere vescovo e di tanto in tanto me ne parlava. Fu anche sul punto di decidersi a lasciare tutto e ritirarsi in solitudine.
10. Non riuscivo ad abituarmi a quest’idea, perché mi sembrava che egli avrebbe giovato molto alla causa della nostra Chiesa e mi auguravo di vedergli conferire la carica di cui oggi è insignito. Tuttavia, il giorno in cui fu eletto vescovo, avendomelo egli fatto sapere subito, sentii un gran tuffo al cuore, sembrandomi di vederlo gravato da un peso enorme. Poiché non riuscivo a farmi forza né a ritrovare la pace, andai in coro a raccomandarlo a nostro Signore. Sua Maestà mi tranquillizzò subito dicendomi che ciò sarebbe stato a sua maggior gloria, come risulta sempre più evidente. Nonostante l’infermità dell’occhio e altre malattie da cui è affetto, di cui alcune assai penose, con l’aggiunta del continuo lavoro, digiuna quattro giorni alla settimana e fa altre penitenze; il suo nutrimento non conosce cibi prelibati. Quando si reca in visita pastorale, lo fa sempre a piedi, cosa che riesce insopportabile ai suoi dipendenti, i quali se ne sono lamentati con me. Occorre loro una gran virtù, altrimenti devono rinunziare a vivere nella sua casa. Non si fida molto di lasciare ai vicari affari importanti – credo neanche gli altri affari –, ma vuole che tutto passi per le sue mani. Durante i primi anni del suo episcopato soffrì le più feroci e calunniose persecuzioni. Ne ero sbigottita, conoscendo la sua integrità e la sua rettitudine nel rendere giustizia. Quando fui lì, però, andavano già scemando, benché i suoi nemici siano arrivati a denigrarlo fino a Corte e dovunque abbiano pensato di potergli nuocere. Ma siccome ormai ogni giorno di più la sua virtù è nota in tutta la diocesi, le loro accuse trovano poco credito. Egli inoltre ha sopportato tutto con tanta perfezione da confonderli, beneficando coloro che sapeva intenti a nuocergli. Infine, per molte che siano le sue occupazioni, non tralascia di trovare il tempo per l’orazione.
11. Sembra che mi sia fissata a dir bene di questo santo, eppure ho detto poco, ma servirà a far conoscere chi sia l’ideatore del monastero della Santissima Trinità di Soria e a offrire motivo di consolazione alle religiose che verranno in seguito ad abitarlo, perché quelle che vi stanno ora sono bene al corrente di tutto. Anche se egli non ci ha lasciato una rendita, ci ha dato una chiesa, ed è stato lui – ripeto – a impegnare nella fondazione quella signora che, come ho detto, è molto pia, virtuosa e penitente.
12. Preso ormai possesso della chiesa e sistemato tutto quello che occorreva per la clausura, fu necessario che ritornassi a San Giuseppe di Avila. Così partii immediatamente, con un caldo tremendo, per una strada pessima a percorrersi con i carri. Venne con me un prebendato di Palencia, di nome Ribera, che mi era stato di grandissimo aiuto nella costruzione del passaggio e in tutto il resto. Il padre Nicola di Gesù Maria era andato via subito dopo la conclusione del contratto relativo alla fondazione essendo indispensabile la sua presenza altrove. Questo Ribera, che era stato chiamato da un affare a Soria mentre noi andavamo lì, ci aveva accompagnato, e da allora Dio gli ispirò così gran desiderio di esserci utile che si può raccomandarlo a Sua Maestà fra i benefattori dell’Ordine.
13. Non volli che nessun altro venisse con la mia compagna e con me, perché egli è tanto premuroso che mi bastava lui solo. Nei viaggi, meno rumore c’è, più sono contenta. In questo ritorno però pagai tutto il piacere di cui avevo goduto nell’andata. Quantunque infatti chi ci accompagnava conoscesse la strada per Segovia, ignorava quella praticabile da un carro. Eravamo condotte per anfratti dove spesso dovevamo scendere, mentre il carro sembrava venisse portato quasi di peso per grandi dirupi. Se ricorrevamo alle guide, ci accompagnavano fin dove sapevano che la strada era buona e ci lasciavano un po’ prima che cominciasse quella cattiva, dicendo di aver da fare. Prima di trovare un alloggio, andando così, alla cieca, bisognava camminare molte ore al sole e col rischio, spesso, che il carro si rovesciasse. Io mi affliggevo per il nostro compagno di viaggio. Spesso infatti, dopo aver ricevuto l’assicurazione che andavamo bene, bisognava ritornare indietro. Ma la virtù in lui aveva così profonde radici che non mi pare di averlo mai visto contrariato, tanto da esserne rimasta assai stupita e da lodarne il Signore. È proprio vero che dove la virtù è ben radicata, le occasioni di mancarvi non fanno presa. Ringrazio Dio di averci voluto finalmente tirar fuori da quella strada.
14. Arrivammo a San Giuseppe di Segovia la vigilia di San Bartolomeo; tutte le nostre religiose stavano in gran pena per il nostro ritardo che, a causa delle pessime strade, era considerevole. Ci coprirono di attenzioni, giacché mai Dio mi manda una sofferenza senza ricompensarmene subito. Mi riposai lì otto giorni, e anche di più. Ma devo dire che la fondazione di Soria si è fatta con tanta facilità che non bisogna badare a questo contrattempo, perché cosa da nulla. Ritornai da lì soddisfatta sembrandomi, quello, un paese dove spero che la presenza di un monastero, per la misericordia divina, sarà di grande gloria per il Signore, come già si comincia a vedere. Sia egli per sempre benedetto e lodato per tutti i secoli dei secoli! Amen. Deo gratias!