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Libro delle Fondazioni - Capitolo 31 - Parte 2

Autore: Santa Teresa d'Avila

28. Questo impegno mi costò più d’ogni altra cosa, perché nutrivo timori circa la vedova, la quale, essendo ricca e di famiglia ragguardevole, ci avrebbe al suo primo capriccio costrette ad andar via. Ma il padre provinciale, che era più accorto di me, volle che si facesse quanto richiedevano, affinché vi potessimo entrare al più presto. Non ci davano altro che due stanze e una cucina. Ma l’amministratore dell’ospedale, Hernando de Matanza, gran servo di Dio, ce ne assegnò altre due perché ci servissero come parlatorio. Ci faceva molta carità, come la fa a tutti, specialmente ai poveri. Altrettanto generosa assistenza ci prodigò Francisco de Cuevas, direttore capo del servizio postale cittadino, che godeva di molta autorità nell’ospedale. Egli, in tutte le occasioni che gli si sono offerte, non ha mai tralasciato di favorirci.

29. Ho riferito i nomi di questi nostri primi benefattori perché è giusto che le religiose presenti e future li ricordino nelle loro preghiere. Tale ricordo si deve soprattutto ai fondatori, anche se la mia prima intenzione non fu quella di dare questo titolo a Catalina de Tolosa, anzi neppure mi passò per la mente. L’ha resa meritevole di questo titolo la sua santa vita di fronte a nostro Signore, il quale dispose le cose in modo che non si può negarglielo. Oltre, infatti, a pagare la casa, quando non sapevamo come fare, è impossibile dire quanta sofferenza le abbiano procurato tutti gli intralci dell’arcivescovo. Il solo pensiero che la fondazione non riuscisse l’affliggeva molto; inoltre, non si stancava mai di aiutarci.

30. L’ospedale era molto lontano dalla sua casa, eppure veniva a trovarci quasi ogni giorno con grande affetto e ci mandava tutto quello di cui avevamo bisogno, nonostante le incessanti critiche di cui era oggetto, tali che, se non avesse avuto il coraggio che ha, l’avrebbero indotta a lasciar perdere tutto. Ero angosciata nel vedere quello che soffriva, perché, se anche il più delle volte ella non lo lasciava trapelare, altre volte non poteva dissimularlo, specialmente quando la toccavano nella coscienza. È così retta che, per quante occasioni di risentimento le abbiano dato varie persone, non ho mai udito da lei una parola che fosse offesa a Dio. Le dicevano che sarebbe andata all’inferno e che era incomprensibile come potesse fare quel che faceva, avendo figli. Eppure si regolava in tutto secondo il parere di uomini dotti, né io, anche se ella avesse voluto agire altrimenti, avrei consentito, per nessuna cosa al mondo, che facesse ciò che non le era lecito, a costo di rinunciare alla fondazione di mille monasteri, nonché di uno. Ma siccome le trattative erano segrete, non mi meraviglio di quel che si pensava. Ella rispondeva con la saggezza di cui è ampiamente dotata. Si comportava in modo tale che era evidente come Dio le insegnasse a sapersi destreggiare per accontentare gli uni e sopportare gli altri e le desse il coraggio di resistere a tutto. quanto più coraggio, di fronte a grandi cose, hanno i servi di Dio che non le persone nobili, forti solo del loro casato! Del resto, a questa donna non manca nobiltà di sangue, discendendo ella da antenati illustri.

31. Tornando dunque a quel che dicevo, il padre provinciale, quando ci ebbe sistemate dove, stando in clausura, potevamo ascoltare la Messa, trovò il coraggio di partire per Valladolid, città in cui doveva predicare, sia pure molto afflitto di non scorgere nell’arcivescovo alcun indizio che lasciasse sperare nella concessione dell’autorizzazione. Benché io lo inducessi a nutrire fiducia, non riusciva a darmi ascolto. Certo, aveva buone ragioni per diffidare, ragioni che qui non è il caso di dire. Se egli, inoltre, aveva poca speranza, i suoi amici ne avevano ancor meno e contribuivano a scoraggiarlo. Io mi sentii sollevata alla sua partenza, perché – come ho detto – la mia maggior pena era data dalla sua. Ci lasciò l’ordine di cercare la casa perché ne disponessimo in proprio, cosa assai difficile, non essendosene fino allora trovata una che potesse convenirci. I nostri amici, specialmente i due del padre provinciale, rimasero ancora più impegnati nei nostri riguardi, e stabilirono di comune accordo di non far più parola della cosa all’arcivescovo, finché non avessimo la casa. Quest’ultimo diceva sempre che desiderava più d’ogni altro questa fondazione, e credo che fosse sincero essendo così buon cristiano da non poter dire nulla contro la verità. Tuttavia le sue azioni non lo rivelavano perché pretendeva cose apparentemente impossibili nei confronti delle nostre risorse. Era questa la trama ordita dal demonio perché la fondazione non si facesse; ma, o Signore, com’è evidente la vostra potenza! Servendovi, infatti, degli stessi mezzi con cui il demonio cercava d’impedire quest’opera, avete trovato il modo per farla meglio riuscire. Siate per sempre benedetto!

32. Dalla vigilia di San Mattia, in cui entrammo nell’ospedale, fino alla vigilia di San Giuseppe, passammo tutto il tempo in trattative per l’una o l’altra casa. C’erano sempre tanti inconvenienti, che nessuna di quelle poste in vendita ci offriva la possibilità di acquistarla. Infine mi parlarono della casa di un gentiluomo – che era in vendita da vari giorni – e, nonostante la ricerca di un alloggio da parte di tanti Ordini, piacque a Dio che a nessuno di essi tale casa sembrasse adatta. Ora sono tutti stupiti del loro rifiuto e qualcuno ne è anche assai pentito. A me ne era stato parlato bene da due persone, ma erano tante quelle che ne dicevano male, che ero ormai lontana dal pensarci, persuasa che non ci convenisse.

33. Anche il licenziato Aguiar, amico del nostro padre provinciale, si adoperava con grande zelo per trovarci una casa. Un giorno mi informò d’averne viste varie, ma che non ce n’era una adatta in tutta la città, né realmente pareva possibile trovarla, in base alle notizie che mi venivano date. Mi ricordai, allora, di questa che era stata, come ho detto, già esclusa da noi e pensai che, malgrado fosse così scadente come mi dicevano, poteva servirci in quel frangente, visto che poi si poteva sempre vendere. Chiesi, quindi, al licenziato Aguiar di farmi il piacere d’andarla a vedere.

34. Non gli parve una cattiva idea; non l’aveva mai vista e volle subito andarvi nonostante che la giornata fosse assai burrascosa e fredda. L’occupava un inquilino, il quale aveva poca voglia di vederla vendere e non volle fargliela visitare. Ma, per la sua posizione e per quello che di essa aveva potuto scorgere, ne rimase assai soddisfatto. Ci decidemmo, così, a trattarne subito l’acquisto. Il proprietario in quel momento era assente, ma aveva dato la procura per effettuarne la vendita a un sacerdote, gran servo di Dio, al quale Sua Maestà ispirò il desiderio di aderire alla nostra richiesta e trattare con noi con tutta la benevolenza possibile.

35. Restammo d’accordo che andassi a vederla. Ne rimasi soddisfatta a tal punto che, quand’anche ci avessero chiesto il doppio di quanto sapevo avevano chiesto per darcela, mi sarebbe sembrato di ottenerla a buon mercato. Non era, del resto, una valutazione esagerata, perché due anni prima ne era stato offerto proprio il doppio al padrone e non aveva voluto venderla. Il giorno dopo vennero lì senza indugio il sacerdote e il licenziato, il quale, vedendo il prezzo di cui l’altro si contentava, avrebbe voluto subito stringere i tempi. Ma alcuni amici che avevo informato della cosa mi avevano detto che a quel prezzo pagavo cinquecento ducati più del suo valore. Lo dissi al licenziato, il quale, però, riteneva che l’avremmo pagata a buon prezzo, dando quello che ci si chiedeva; a me sembrava lo stesso; da parte mia non avrei avuto esitazioni, giudicandola come regalata, ma, trattandosi di denari dell’Ordine, mi sorgevano scrupoli. Questa riunione avveniva la vigilia della festa del nostro glorioso san Giuseppe, prima della Messa. Io dissi a quei signori che, finita la Messa, ci saremmo riuniti di nuovo per prendere una decisione.

36. Il licenziato, che è molto avveduto, si rese chiaramente conto che se la cosa si fosse divulgata, o avremmo dovuto pagare di più o rinunziare all’acquisto. Si adoperò, perciò, ad evitare perdite di tempo e si fece promettere dal sacerdote che sarebbe tornato lì dopo la Messa. Noi andammo a raccomandare la cosa al Signore, il quale mi disse: È il denaro a farti esitare? Compresi, così, che quella casa ci conveniva. Le consorelle avevano pregato molto san Giuseppe di farci avere una casa per il giorno della sua festa e, pur non potendosi sperare che ciò avvenisse così presto, furono esaudite. Tutti mi chiesero con insistenza di concludere l’affare, e lo si fece subito, perché il licenziato trovò alla porta un notaio che parve inviato lì per disposizione del Signore. Lo condusse da me, mi disse che bisognava concludere e chiamò un testimone. Chiusa allora la porta della sala affinché non trapelasse nulla al di fuori (poiché era questa la sua paura), la vendita fu conclusa con tutte le formalità necessarie, la vigilia della festa – ripeto – del glorioso san Giuseppe, per la lodevole sollecitudine e l’accortezza di questo buon amico.

37. Nessuno avrebbe immaginato che la casa sarebbe stata venduta a così buon prezzo. Perciò, appena la notizia dell’acquisto cominciò a divulgarsi, vennero fuori da ogni parte compratori affermando che il sacerdote l’aveva data per nulla e che bisognava rescindere il contratto, trattandosi di un evidente inganno. Quel buon sacerdote non ebbe poco da soffrire. Avvisarono subito i proprietari della casa che – come ho detto – erano un illustre gentiluomo e sua moglie, anch’ella di ottima famiglia. Ma essi si rallegrarono tanto di vedere la loro casa diventare un monastero, che diedero tutto per ben fatto, benché ormai non potessero agire altrimenti. Il giorno dopo si stesero gli atti notarili e si pagò il terzo della casa, senza discostarsi d’un punto dalle richieste del sacerdote. Alcune particolari imposizioni non convenute prima rendevano onerose le clausole del contratto, ma per compiacerlo accondiscendemmo.

38. Potrà sembrare fuori luogo il fatto che m’indugi tanto a raccontare l’acquisto di tale casa. Ma, in verità, quelli che seguirono l’affare nei minimi particolari non videro in esso nulla meno di un miracolo, sia per l’esiguità del prezzo, sia per quella specie d’accecamento che aveva impedito a tutti i religiosi, dopo averla vista, di comprarla. E, come se la casa, prima, non fosse mai esistita a Burgos, quelli che la vedevano ne restavano stupiti: biasimavano coloro che non l’avevano voluta e li chiamavano pazzi. Era stata rifiutata da una comunità di religiose in cerca di una casa: anzi, da due comunità, una di recente fondazione l’altra venuta da fuori in seguito all’incendio della propria dimora. Inoltre, poco prima, anche una persona ricca, intesa a fondare un monastero, dopo averla vista, l’aveva lasciata perdere: tutti ne sono ora assai pentiti.

39. Il gran parlare che se ne fece in città fu tale che costatammo quanto avesse avuto ragione il licenziato di voler mantenere segrete le trattative e di darsi ogni premura per la conclusione di esse. Possiamo in verità dire che, dopo Dio, dobbiamo a lui la casa. Un sapiente accorgimento è d’immenso aiuto a tutto. Tale fu quello del licenziato. Dio gl’ispirò così benevola disposizione verso di noi da essere lo strumento di cui la Provvidenza si servì per porre fine a quest’opera. Si dedicò più d’un mese ad aiutarci, suggerendo espedienti per sistemare convenientemente la casa senza troppa spesa. Sembrava proprio che il Signore l’avesse riservata a sé, perché quasi tutto vi si trovava già fatto. Tant’è vero che, appena la vidi e la trovai in ogni particolare come se fosse stata costruita così per noi, pensando alla rapidità con cui era stata ultimata, mi sembrava di sognare. Nostro Signore ci ha ben ricompensato di quello che avevamo sofferto, portandoci in un tale luogo di delizie, perché davvero non si può darne altro giudizio, così per il giardino, come per il panorama e le acque. Sia egli per sempre benedetto! Amen.

40. L’arcivescovo fu presto avvertito di tutto e si rallegrò molto di una conclusione così felice, ritenendo che la sua insistenza ne fosse stata la causa, e in questo aveva perfettamente ragione. Io gli scrissi che ero lieta di saperlo soddisfatto e che mi sarei affrettata a sistemare la casa, affinché egli potesse adempiere i nostri desideri. Fatto questo, mi sbrigai a trasferirmi lì, essendo stata avvertita che voleva ritardare il trasloco fino a quando non si fossero espletate non so quali formalità. Inoltre, benché dalla casa non fosse ancora andato via l’inquilino, che ci diede a sua volta non poco filo da torcere perché si riuscisse a metterlo fuori, prendemmo alloggio in un appartamento. Mi vennero subito a dire che l’arcivescovo era assai contrariato a causa di ciò. Feci del mio meglio per ammansirlo giacché, siccome è buono, anche se va in collera, l’inquietudine gli passa presto. S’irritò anche nel sapere che avevamo grate e ruota, ritenendo che io avessi voluto strafare di mia iniziativa. Gli scrissi che non era stata tale la mia intenzione, ma che tutte le case di raccoglimento ne disponevano e che, anzi, per non dare nell’occhio, non avevo neanche osato porre sulla porta una croce, il che era vero. Peraltro, nonostante tutta la benevolenza che ci attestava, non si riusciva ad ottenere la sua autorizzazione.

41. Venne a vedere la casa, ne rimase molto soddisfatto e si dimostrò assai gentile, ma non ancora intenzionato ad accordarmi l’autorizzazione, anche se ci diede maggiori speranze: si trattava di dover stipulare ancora non so quali scritture con Catalina de Tolosa. Si temeva molto che non l’avrebbe concessa, ma il dottor Manso che, come ho detto, è l’altro amico del padre provinciale e strettamente legato all’arcivescovo, non si lasciava sfuggire occasione per ricordargli la cosa e sollecitarlo insistentemente a darci l’autorizzazione. Gli dispiaceva molto vederci nella situazione in cui eravamo, perché anche in questa casa, nonostante vi fosse una cappella che serviva prima a celebrarvi la Messa per i proprietari, l’arcivescovo non ci volle mai permettere di fare altrettanto: dovevamo uscire i giorni festivi e le domeniche ad ascoltarla in una chiesa che, per fortuna, era vicina. Tale situazione durò dal nostro trasferimento in questa casa fino a che si fondò il monastero, cioè circa un mese. Tutti i teologi dicevano che era un motivo sufficiente per far celebrare la Messa lì e lo riteneva tale anche l’arcivescovo, che è molto dotto. Ma la ragione di tutto questo non sembra fosse altra che la volontà di nostro Signore di farci soffrire. Da parte mia, mi adattavo alla meglio, ma una consorella, quando si vedeva in istrada, tremava dalla pena che ne aveva.

42. Per la firma degli atti notarili vi furono molte difficoltà, perché ora si accontentavano dei garanti, ora volevano il denaro, e così via, seccature su seccature. La colpa di questo non era tanto dell’arcivescovo quanto di un suo vicario che ci fece una gran guerra. E se allora Dio non gli avesse fatto intraprendere un viaggio, in modo che il suo posto fu affidato ad un altro, non ne saremmo mai venute a capo. Oh! Quanto ebbe a patire allora Catalina de Tolosa! È cosa da non dirsi. Sopportava tutto con una pazienza che mi sbalordiva, e non si stancava di provvedere ai nostri bisogni. Diede tutto il mobilio necessario per arredare la nostra dimora, letti e molte altre cose di cui la sua casa era abbondantemente provvista: in poche parole, tutto quello che ci occorreva; preferiva mancare lei di qualche cosa, piuttosto che ne mancassimo noi. Altre fondatrici di nostri monasteri ci hanno dato beni più grandi, ma nessuna ha sofferto per noi la decima parte di quello che ha sofferto lei. Se non avesse avuto figli, ci avrebbe dato tutte le sostanze di cui poteva disporre. Desiderava tanto vedere compiuta quest’opera che le sembrava poco tutto quello che faceva a tal fine.

43. Quando vidi che le cose andavano per le lunghe, scrissi al vescovo di Palencia supplicandolo di tornare a sollecitare l’arcivescovo con una lettera. Egli era irritatissimo con lui, considerando come fatto a sé tutto quello che faceva a noi, mentre, con nostra meraviglia, l’arcivescovo era persuaso di non farci il minimo torto. Supplicai, dunque, il vescovo di Palencia di scrivergli dicendogli che, poiché avevamo una casa e ottemperavamo ai suoi ordini, ci concedesse finalmente l’autorizzazione. M’inviò una lettera aperta per l’arcivescovo di tal tenore che, se gliel’avessimo consegnata, avremmo rovinato tutto. Il dottor Manso, che era il mio confessore e il mio consigliere, mi disse, infatti, di non farlo. Benché di tono assai cortese, essa conteneva alcune verità che, considerato il carattere dell’arcivescovo, sarebbero bastate ad irritarlo, tanto più che era già incollerito per certe cose che il vescovo gli aveva mandato a dire, nonostante che fino allora fossero molto amici. E l’arcivescovo mi disse che se la morte di nostro Signore aveva reso amici quelli che prima non lo erano, io, invece, avevo reso nemici loro due. Gli risposi che da questo poteva vedere chi fossi. Ma, per quanto mi è dato giudicarne, avevo posto particolare attenzione perché non sorgessero screzi fra loro.

44. Ricorsi di nuovo al vescovo di Palencia per supplicarlo, con le migliori ragioni che seppi trovare, di scrivere all’arcivescovo un’altra lettera più amichevole, dicendogli che si trattava del servizio di Dio. Egli fece quanto gli chiesi, e non fu poco; vi acconsentì, visto che si trattava di rendere un servizio a Dio e di far piacere a me – cosa a cui non è mai venuto meno –, compiendo uno sforzo di volontà. Mi scrisse, però, che quanto aveva fatto per il nostro Ordine non era nulla in confronto a quello che gli era costato l’invio di quella lettera. Era scritta in modo tale, e il dottor Manso seppe presentarla così bene, che l’arcivescovo decise di darci l’autorizzazione. Si servì, per farcela avere, del buon Hernando de Matanza, che venne da noi pieno di gioia. Quel giorno le consorelle erano molto più afflitte di quanto non lo fossero mai state e la buona Catalina de Tolosa era in tale stato che non si riusciva a consolarla. Sembrava che nostro Signore volesse aumentare le nostre angosce proprio quando doveva riempirci di gioia. Perfino io, infatti, che non avevo mai perduto la fiducia, la notte prima mi sentivo assai scoraggiata. Sia eternamente benedetto il nome di Dio e sia egli lodato per tutti i secoli! Amen.

45. L’arcivescovo diede al dottor Manso il permesso di celebrare l’indomani la Messa e di porre il santissimo Sacramento. Fu dunque lui a celebrare la prima Messa. Quella solenne fu celebrata, con gran concorso di musicanti venuti di loro iniziativa, dal padre priore del convento di San Paolo, dell’Ordine dei domenicani, ai quali il nostro Ordine è stato sempre molto obbligato, come anche ai padri della Compagnia di Gesù. Tutti i nostri amici erano felici, e si può dire che fosse piena di gioia l’intera città, cui aveva fatto molta pena il vederci in quella situazione; l’operato dell’arcivescovo era giudicato così male che, a volte, mi affliggeva più il modo con cui se ne parlava che tutto il resto. La gioia della buona Catalina de Tolosa e delle consorelle era talmente grande che m’ispirava devozione e dicevo a Dio: «Signore, che altro vogliono queste vostre serve, se non di potervi servire e di vedersi raccolte in clausura per voi in una casa dalla quale non dovranno più uscire?».

46. Non si potrà mai capire, a meno d’averne fatto esperienza, la gioia che si prova in queste fondazioni quando ci si ritrova in clausura, dove non possono entrare le persone del mondo. Per molto, infatti, che le amiamo, tale affetto non è sufficiente a toglierci la grande felicità di vederci sole. Mi sembra che sia come quando si traggono dal fiume nella rete molti pesci, che non possono vivere se non vengono di nuovo gettati in acqua: avviene ugualmente delle anime abituate a stare nelle vive acque del loro Sposo, che – tolte da lì e tratte nelle reti delle cose del mondo – effettivamente non vivono più finché non si vedono di nuovo nel loro elemento. Ciò è quanto ho sempre notato in queste consorelle e di cui ho fatto io stessa esperienza. Le religiose che dovessero sentire in sé il desiderio di uscir fuori da qui per stare fra secolari o di trattare spesso con loro, temano di non aver mai incontrato quell’acqua viva di cui il Signore parlava alla samaritana e che lo Sposo si sia loro nascosto, ben a ragione, visto che esse non godono di stare con lui. Ho paura che ciò provenga da due motivi: o che non abbiano abbracciato la vita religiosa soltanto per lui, o che – dopo averla abbracciata – non abbiano capito quale straordinaria grazia Dio abbia concesso loro, scegliendole per sé e liberandole dallo star soggette ad un uomo, che spesso fa perdere ad esse la vita. Dio voglia, inoltre, che non sia così anche dell’anima!

47. Oh, mio Sposo, vero Dio e vero uomo! Com’è possibile tenere in poco conto la grazia di appartenervi? Rendiamogli lode, sorelle mie, per avercela concessa, e non cessiamo mai di magnificare un così gran Re e Signore che ci tiene preparato un regno senza fine in cambio di piccole sofferenze che domani cesseranno di esistere e che, d’altronde, sono alleviate da mille gioie. Sia egli per sempre benedetto! Amen. Amen.

48. Alcuni giorni dopo la fondazione del monastero, parve al padre provinciale e a me che nei riguardi della rendita assegnataci da Catalina de Tolosa ci fossero alcuni inconvenienti dai quali poteva provenire a noi il pericolo di una causa giudiziaria e a lei quello di qualche dispiacere. Preferimmo pertanto confidare in Dio anziché esporci al rischio di procurarle la benché minima sofferenza. Sia per questo, sia per varie altre ragioni, rinunziammo, alla presenza di un notaio, con il consenso del padre provinciale, alla donazione che ci aveva fatto, restituendogliene tutti gli atti legali. Ciò avvenne in gran segreto affinché l’arcivescovo non venisse a saperlo e non lo giudicasse un danno. In realtà, il peso di questa decisione era gravoso per la nostra casa. Quando infatti si sa che il monastero è senza rendite, non c’è motivo di temere, perché tutti lo aiutano, ma far credere che il nostro fosse provvisto di rendite era certo pericoloso. Nel nostro caso significava esporre le monache al rischio di mancare del necessario, almeno nei primi tempi, in quanto per il futuro Catalina de Tolosa vi aveva posto rimedio. Due sue figlie, infatti, che dovevano quell’anno professare nel nostro monastero di Palencia, nel momento di pronunciare i voti avevano rinunziato ai loro beni in favore della madre, ed ella aveva fatto annullare quell’opzione e volgere la rinuncia in favore del monastero di Burgos. A un’altra figlia che ha voluto prendere l’abito qui da noi lascerà la legittima, che le spetta da parte del padre e della madre, il che equivale alla rendita che ella ci aveva dato. L’unico inconveniente è che per ora la comunità non ne gode. Ma io ho sempre avuto la convinzione che le religiose non mancheranno di nulla perché il Signore, che procura elemosine ad altri monasteri senza rendite, saprà ispirare la carità anche a favore di questo, o vi provvederà in un altro modo. Tuttavia, siccome nessun altro monastero era stato eretto in queste condizioni, a volte supplicavo il Signore affinché, avendone voluto la fondazione, volesse anche disporre le cose in modo da rimediare a quella difficile circostanza, non facendo mancare le religiose del necessario. E non avevo voglia di partire da lì fino a quando non vi entrasse qualche novizia.

49. Mentre un giorno stavo pensando a questo, dopo la comunione, il Signore mi disse: Di che temi? È cosa ormai finita; puoi ben andartene, facendomi così intendere che il necessario alle religiose non sarebbe mancato. Fu tale la sicurezza ispiratami da queste parole che non sentii più alcuna preoccupazione, come se le lasciassi con un’ottima rendita. Preparai subito la mia partenza, perché mi pareva che ormai lì non facessi altro che godere di quella casa, tanto di mio gusto, mentre altrove, sia pure a costo di pene maggiori, potevo essere più utile. L’arcivescovo di Burgos e il vescovo di Palencia restarono grandi amici. Subito, infatti, l’arcivescovo ci dimostrò molta benevolenza e diede l’abito alla figlia di Catalina de Tolosa e a un’altra novizia che entrò poco dopo. Finora non ci sono mancati donativi da parte di varie persone, né certamente nostro Signore lascerà patire le sue spose, se lo servono come sono obbligate a fare. Sua Maestà ne dia loro la grazia per la sua grande misericordia e bontà.

[EPILOGO]

1. Credo opportuno riferire qui come il monastero di San Giuseppe di Avila, che fu il primo dei nostri monasteri – della cui fondazione ho scritto, non in questo, ma in un altro libro – passò dalla giurisdizione dell’Ordinario, sotto cui era stato posto, a quella dell’Ordine.

2. Quando si fondò, era vescovo di Avila don Alvaro de Mendoza, che ora lo è di Palencia, e per tutto il tempo che stette lì, le nostre religiose furono da lui ampiamente beneficate. Allorché il monastero fu posto sotto la sua autorità, nostro Signore mi disse che così conveniva fare, e in seguito lo si è visto chiaramente, perché in tutti i dissensi dell’Ordine e in molte altre difficoltà che si sono presentate, abbiamo ricevuto da lui ogni sorta di aiuti. Non permise mai che il visitatore delle religiose fosse un ecclesiastico né egli faceva in quel monastero più di quanto io lo pregavo di fare. In questo modo passarono diciassette anni, più o meno, perché non lo ricordo esattamente, né io aspiravo certo a un cambiamento di giurisdizione.

3. Dopo questo tempo, il vescovo di Avila fu trasferito alla sede di Palencia. Allora io mi trovavo nel monastero di Toledo, e nostro Signore mi disse che conveniva che le religiose di San Giuseppe si ponessero sotto la giurisdizione dell’Ordine e che mi adoperassi a tal fine, perché, se non l’avessi fatto, presto avrei visto il rilassamento di quella casa. Ricordandomi di aver udito da lui che era bene sottometterla all’Ordinario, credevo di vedere in ciò una contraddizione e non sapevo cosa fare. Ne parlai con il mio confessore, che era un gran teologo, attualmente vescovo di Osma. Mi disse che non si trattava di contraddizione, perché allora doveva esser necessaria quella risoluzione e ora quest’altra. L’evidenza di questa verità è apparsa, infatti, ben chiara da moltissime cose. Disse inoltre di ritenere preferibile che questo monastero fosse unito agli altri, anziché restare isolato.

4. Mi fece andare ad Avila per trattarne con il vescovo. Lo trovai di ben diverso parere: non era in nessun modo d’accordo a questo riguardo. Ma, quando gli addussi alcuni motivi circa il danno che poteva venire dall’attuale situazione alle religiose, per le quali nutre grandissimo affetto, cominciò a valutare le mie ragioni. E siccome è molto intelligente e Dio lo ispirava, trovò ragioni ancora più valide delle mie e si decise a farlo. Né servì a nulla che alcuni suoi preti gli esprimessero parere contrario.

5. Erano necessari i voti delle religiose. Ad alcune riusciva assai gravoso darlo, ma siccome mi volevano molto bene, si arresero alle mie ragioni, soprattutto in considerazione del fatto che, mancando il vescovo al quale l’Ordine era tanto obbligato e che io amavo molto, non mi avrebbero più avuta fra loro. Questo pensiero fu per esse determinante, e così si concluse un affare di assai grande importanza. Si è visto poi chiaramente da parte di tutte e di tutti a quale rovina sarebbe andato incontro il monastero se si fosse fatto il contrario. Sia benedetto il Signore, che veglia con tanta cura su ciò che riguarda le sue serve! Sia egli per sempre benedetto! Amen.