L’immagine cristiana dell’uomo
Autore: Benedetto XVI e Livio Melina
A me sembra che si debba innanzitutto riflettere sull’antropologia cristiana come tale e analizzare a questo riguardo la tesi dell’antropocentrismo proposta a suo tempo da Metz, che si rifaceva a Rahner e von Balthasar: “Tutta la teologia in ultima analisi è antropologia”, aveva detto a suo tempo Rahner, motivando questo con il divenire uomo di Dio in Gesù Cristo; per, cui, una volta che Dio stesso è divenuto uomo, non lo si può più considerare da parte nostra a prescindere da questo. Addirittura sono di recente comparse teorie filosofiche secondo le quali l’essere uomo di Dio è inconcepibile già solo dal punto di vista concettuale, cosa che il cristiano nega in base alla sua fede: Dio stesso ha mostrato la possibilità di quello che a noi sembra impossibile e in questo modo ha messo nuovamente in luce la sua grandezza e la grandezza dell’uomo.
Per quel che lo riguarda come tale, l’uomo in base alla Bibbia è definito sopra ogni altra cosa come immagine di Dio (cosa che, per così dire, è un’anticipazione del divenire uomo di Dio). L’essenza di un’immagine consiste nel fatto che essa non è a sé stante, ma rimanda a ciò che è ritratto, ovvero a colui che è ritratto. In questo senso “essere immagine” è un “essere in relazione”. Il concetto di relatio assurge in questo modo a definizione fondamentale dell’uomo. Questo combacia in modo sorprendente con l’idea fondamentale di Dio che, in quanto Trinità, è un intreccio di relazioni e non una sostanza a sé stante. A sua volta, questo combacia in modo non meno sorprendente con le acquisizioni della fisica moderna, per la quale non esiste alcuna sostanza in senso proprio, ma tutto è soltanto relazione.
Se il concetto di relatio come immagine di Dio intende in primo luogo l’uomo in una relazione che va oltre sé stesso, ad un secondo livello è comunque vero e significativo anche che l’uomo è creato come maschio e femmina, e dunque che anche nella sfera umana esiste come essere relazionale.
Si arriva così al matrimonio e alla famiglia, che non sono forme sociali casuali, ma scaturiscono invece, in ultima analisi, dalla natura stessa dell’uomo. A questo punto è quindi possibile sviluppare una teologia, una filosofia e una sociologia del matrimonio e della famiglia che può e deve abbracciare questioni che, per un verso, sono molto concrete ma che, al contempo, sono radicate nella profondità dell’uomo pensato trinitariamente.
2.
Nel suo Libro di esercizi spirituali papa Giovanni Paolo II racconta come nel cattolicesimo polacco ci si preparasse all’irruzione dei russi e, con loro, a quella dell’ateismo marxista. Si supponeva che per attaccare la fede nel Dio creatore si sarebbero serviti soprattutto dell’interpretazione materialista dell’origine e dell’essere del mondo. Ben presto tuttavia si vide che il problema vero e proprio non era questo, ma in ultima analisi il punto era chi sarebbe stato in grado di offrire la migliore immagine dell’uomo. In questo senso mi viene in mente che anche nella disputa tra l’imperatore Manuele il Paleologo (1391) e il persiano, dopo tutte le scaramucce iniziali, si dice che in fin dei conti il punto è chi sia in grado di offrire il nomos migliore (l’immagine migliore dell’uomo). Il musulmano sostiene che il cristianesimo ha un’immagine irreale dell’uomo, con delle pretese che non possono essere adempiute e che proprio per questo esso sarebbe condannato al fallimento. Al contrario, l’imperatore afferma che l’islam, con il suo apparente realismo, esige troppo poco dall’uomo. Questo avrebbe per conseguenza che l’uomo cadrebbe ancora più in basso di quanto già non preveda la sottostima del profeta. L’uomo percepirebbe questo e vorrebbe orientarsi proprio verso ciò che è grande.
In effetti il marxismo non ha risolto in modo soddisfacente la questione dell’immagine dell’uomo. Tanto più sussiste oggi, nel cosiddetto mondo.
In effetti il marxismo non ha risolto in modo soddisfacente la questione dell’immagine dell’uomo. Tanto più sussiste oggi, nel cosiddetto mondo occidentale, il pericolo di imporre ovunque un’antropologia che definisca l’uomo a partire unicamente dai suoi fini materiali privandolo così ultimamente della sua dignità. Le reazioni e il clamore suscitato dagli abusi sessuali da parte di chierici rientrano in fin dei conti in questa disputa sull’immagine dell’uomo: il cristianesimo non sarebbe in grado di condurre gli uomini in alto, ma con le sue pretese irrealistiche, in fondo, li distruggerebbe. La questione della giusta immagine dell’uomo si pone dunque come la questione pratica fondamentale nello scontro fra cristianesimo e anticristo.
Il punto centrale dello scontro, a mio parere, sarà la questione della libertà. La filosofia dell’illuminismo si è imposta con l’idea di libertà. Le parole di Schiller: “L’uomo è creato libero, è libero, foss’anche nato in catene” portano in sé, con la contrapposizione di “creato” e “nato”, un motivo di fondo cristiano. Oggi il riferimento ideale al Creatore ha perso ogni peso. Al posto di esso sta semplicemente il fatto che da sé stesso e per sé stesso l’uomo è totalmente libero e deve essere compreso e spiegato a partire dall’idea di libertà. In questo senso libertà significa totale indeterminatezza priva di contenuto e di direttive. Si è venuta così a creare una curiosa situazione, per cui da un lato, le scienze naturali affermano di avere coperto la completa determinatezza dell’uomo, che naturalmente viene accettata da tutti coloro che credono nella scienza. Al contempo, però, e in completa contraddizione con questo, si continua ad affermare e a praticare la tesi radicale della libertà dell’uomo.
Al contrario, per il cristiano, la libertà dell’uomo è libertà creata. Questo significa che egli porta in sé una finalità che coincide con la sua natura, vale a dire con il suo essere immagine di Dio. La libertà esiste proprio per rendere l’uomo simile a Dio. Perciò la libertà è sempre libertà condivisa nel vivere insieme al resto dell’umanità, e mai il semplice e individualistico “tutto è possibile” e “tutto è lecito”.
Penso che sia in questo contesto, allora, che debba essere affrontata anche la questione della sessualità umana e della sua umanizzazione. L’intero ambito di problematiche relative alla sessualità umana si colloca qui.
3.
Infine va posta la domanda di quale sia concretamente per il cristiano l’immagine dell’uomo. Nel mio vecchio messale ho l’immaginetta ricordo di un mio compagno di studi che un anno prima della sua ordinazione sacerdotale morì a causa di un collasso cardiaco. In questa immaginetta sono riportate alcune parole – tipiche per noi giovani di allora — tratte da una delle sue lettere: «Sul leggio di fronte a me sta l’immagine del cavaliere di Bamberga…», scriveva, accennando ad alcuni tratti caratteristici di quel cavaliere nei quali vedeva delineata la giusta immagine dell’uomo in generale. In effetti, per la nostra generazione, il cavaliere di Bamberga era espressione dell’immagine cristiana dell’uomo. E una figura del pieno medioevo di classica bellezza e dignità che si trova nella cattedrale di Bamberga. Numerose sono le ipotesi su chi possa raffigurare. In ogni caso nel cavaliere traspare un’immagine di dignità e purezza umane, che non può non impressionare. L’immagine di un uomo che ha vinto in sé stesso le forze del male e che senza affettazione è pronto a battersi per il bene. Si potrebbe dire che in questa figura si vede che cosa significa essere fatti a immagine di Dio. Il nostro entusiasmo per questo cavaliere sconosciuto si basava anche sul contrasto che riscontravamo tra quell’immagine e il “San Luigi di gesso” o altre figure kitsch che ci venivano presentate d’ufficio come esemplari. Le figure di gesso, molto diffuse a cavallo tra XIX e XX secolo, per noi rappresentavano una forma ripugnante di pietà e di uomo in generale.
La Chiesa, dopo il crollo dell’epoca dell’Illuminismo, nel XIX secolo era giunta a una nuova vitalità, che si manifestò nella fondazione di un gran numero di Ordini e in un gran numero di santi. Oggi che sperimentiamo la scomparsa di queste comunità religiose, restiamo ammirati davanti a quel grande momento di slancio spirituale che conteneva soprattutto un volgersi ai poveri e ai sofferenti. Al contempo erano sorte nuove forme di pietà: la devozione al Sacro Cuore di Gesù, l’adorazione eucaristica, nuove forme di devozione mariana (l’Immacolata, e così via). Chiese neoromaniche e neogotiche riccamente adornate di statue diedero forma e immagine a questa nuova devozione. Oggi possiamo di nuovo comprendere la grandezza e la purezza che in tale estetica si esprimeva. Ma alla fine della Prima guerra mondiale, con l’atroce durezza che l’aveva caratterizzata, essa era divenuta interiormente inconcepibile. Vi si vedeva ormai solo un rimpicciolimento dell’umano, la fuga dalla realtà nel suo complesso e dunque anche il cattivo gusto e l’umana insufficienza di una parte della pietà del secolo XIX. Si voleva uscire dal ghetto nel quale la Chiesa si era parzialmente rinchiusa: obiettivo era “l’abbattimento dei bastioni” di cui parlava Hans Urs von Balthasar. Quando Romano Guardini affermava che “l’epoca moderna è finita e ce ne rallegriamo”, con “epoca moderna” intendeva una forma di quella pietà nella quale i cattolici nel XIX secolo si erano rinchiusi come in una sorta di fortezza. Ora si voleva stare di nuovo apertamente nel mondo nel suo complesso, con i suoi dolori e le sue gioie, e così facendo vivere nuovamente la fede cristiana nella sua vastità e apertura, libertà e bellezza.
Nei seminari, le due forme di cattolicità che in questo modo andarono sviluppandosi in parte si scontrarono duramente. C’erano i seminaristi, i figli della campagna, che nei seminari minori erano cresciuti nella pietà classica, i quali l’amavano profondamente e la vivevano. E c’era la “Jugendbewegung”, il Movimento liturgico, e così via, che a tutto quello si opponevano energicamente e che volevano edificare un modo di essere cristiani nuovo e fresco. Il cristiano del presente non doveva vivere un’esistenza meschina, timorosa, che si chiudeva al mondo, ma stare apertamente in mezzo al dramma del proprio tempo per ricondurre in questo modo il mondo a Cristo.
In Germania, a dare un’espressione ampiamente condivisa a questa concezione fu Alfons Auer, teologo morale prima a Wurzburg e poi a Tubinga. Egli anticipò il nocciolo della visione di Gaudium et spes, la Costituzione conciliare sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, che è espresso esemplarmente nelle parole iniziali del testo: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi […] sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo». Nel mondo, che sarebbe appunto anche il suo mondo, il cristiano sarebbe intrepido e lieto. Che il cristiano non si distingua da questo mondo, ma semplicemente appartenga ad esso, fu accettato gioiosamente ovunque e sempre più determinò lo stile di vita dei cristiani.
Ma taciti dubbi furono peraltro continuamente espressi sulla base della lettera delle Sacre Scritture; ad esempio, di quel passo della Prima lettera di Giovanni dove è scritto: «Non amate il mondo, né le cose del mondo! Se uno ama il mondo, l’amore del Padre non è in lui; perché tutto quello che nel mondo – la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi la superbia della vita – non viene dal Padre, ma viene dal mondo» (1 Gv 2,15s).
All’atmosfera potente, che non solo propugnava un’apertura al mondo ma anche la non distinzione da esso, Hans Urs von Balthasar si oppose con quella chiarezza che aveva ricevuto in dono. Cominciò a farsi strada anche la grande voce del Cardinal Newman. Durante la Seconda guerra mondiale, Ida Friederike Gòrres aveva scritto un libro sul grande cardinale inglese pubblicato solo nel 2004 e che il comune sentire teologico di fatto ancora non ha assimilato. Newman — che nella coscienza comune è prevalentemente ritenuto un pensatore che si colloca al di fuori della classica tradizione cattolica del XIX secolo — qui viene presentato molto più ampiamente che altrove nella sua lotta contro lo spirito della modernità, e così anch’egli appare come antagonista di una pura e semplice approvazione del mondo di oggi.
L’atmosfera, che dopo il Vaticano II si diffuse ampiamente nella cristianità cattolica, fu inizialmente concepita in modo unilaterale come demolizione dei muri, come “abbattimento dei bastioni”, cosicché in alcuni ambienti si temette addirittura la fine del cattolicesimo, ovvero la si attese con gioia. La ferma determinazione di Paolo VI e l’altrettanto chiara, ma gioiosamente aperta, determinazione di Giovanni Paolo II poterono nuovamente assicurare alla Chiesa – umanamente parlando – il suo proprio spazio nella storia successiva. Quando Giovanni Paolo II, che proveniva da un Paese dominato dal marxismo, venne eletto papa, vi furono certamente ambienti che credettero che un papa che proveniva da un Paese socialista dovesse necessariamente essere un papa socialista e perciò che avrebbe portato la conciliazione nel mondo come reductio ad unum di cristianesimo e marxismo. Tutta la stoltezza di questa posizione divenne peraltro ben presto evidente non appena si vide che proprio un papa che proveniva da un mondo socialista conosceva perfettamente l’ingiustizia di esso e poté così contribuire alla svolta sorprendente che si ebbe nel 1989 con la fine del governo marxista in Russia.
Tuttavia divenne sempre più evidente che il tramonto dei regimi marxisti è lungi dall’aver significato la vittoria spirituale del cristianesimo. La mondanità radicale si rivela invece sempre più essere l’autentica visione dominante che sottrae vieppiù al cristianesimo lo spazio per vivere. Sin dall’inizio la modernità comincia con l’appello alla libertà dell’uomo: sin dall’accentuazione da parte di Lutero della libertà del cristiano e sin dall’umanesimo di Erasmo da Rotterdam. Ma solo nel momento storico sconvolto da due guerre mondiali, con il marxismo e il liberalismo che andavano drammaticamente estremizzandosi, si misero in moto due nuovi movimenti che condussero l’idea di libertà a un radicalismo prima di allora inimmaginabile. Infatti, ormai si nega che l’uomo, quale essere libero, sia in qualche modo legato ad una natura che determini lo spazio della sua libertà. L’uomo ormai non ha più una natura ma fa sé stesso. Non esiste più una natura dell’uomo: è egli stesso a decidere cosa egli sia, maschio o femmina. E l’uomo stesso a produrre l’uomo e a decidere così sul destino di un essere che non proviene più dalle mani di un Dio creatore, ma dal laboratorio delle invenzioni umane. L’abolizione del Creatore come abolizione dell’uomo diviene dunque l’autentica minaccia per la fede. Questo è il grande compito che oggi si presenta alla teologia. Essa lo potrà assolvere solo se l’esempio di vita dei cristiani sarà più forte della potenza delle negazioni che ci circondano e che promettono una falsa libertà.
In questo modo, a partire da un altro avvio, siamo giunti di nuovo al punto in cui la questione si era inizialmente presentata. La consapevolezza dell’impossibilità di risolvere a livello puramente teorico un problema di quest’ordine di grandezza non ci dispensa certo dal cercare di prospettarne una soluzione anche a livello di pensiero.
Natura e libertà sembrano in un primo momento contrapporsi in modo inconciliabile: e tuttavia la natura dell’uomo è pensata, cioè è creazione, e come tale non è semplicemente realtà priva di spirito, ma porta essa stessa il Logos in sé. I Padri – in particolare Atanasio di Alessandria – hanno concepito la creazione come coesistenza di sapientia increata e sapientia creata. Qui tocchiamo il mistero di Gesù Cristo, che unisce in sé sapienza creata e increata e, come sapienza incarnata, ci chiama a essere insieme con lui.
In questo modo, però, la natura — che è data all’uomo — diviene una cosa sola con la storia di libertà dell’uomo e porta in sé due momenti fondamentali.
Da un lato ci viene detto che l’essere umano, l’uomo Adamo, ha cominciato male la storia fin dall’inizio, cosicché all’essere uomo, all’umanità di ognuno la storia dà ora in dote un dato originario sbagliato. Il “peccato originale” significa che ogni singola azione è immessa in anticipo su una traccia sbagliata.
A ciò si aggiunge ora però la figura di Gesù Cristo, del nuovo Adamo, che ha pagato in anticipo il riscatto per tutti noi, ponendo così un nuovo inizio nella storia. Questo significa che la “natura” dell’uomo per un verso malata, bisognosa di correzione (spoliata et vulnerata). Questo la pone contrasto con lo spirito, con la libertà, come di continuo sperimentiamo. Ma termini generali essa è anche già redenta. E questo in un duplice senso, perché in generale già è stato fatto abbastanza per tutti i peccati e perché al contempo questa correzione può sempre essere ridonata a ognuno nel sacramento del perdono. Da un lato, la storia dell’uomo è storia di colpe sempre nuove, dall’altro è sempre di nuovo pronta la guarigione. L’uomo è un essere che ha bisogno di guarigione, di perdono. Fa parte del nocciolo dell’immagine cristiana dell’uomo che questo perdono ci sia come realtà e non solamente come un bel sogno. Qui trova la sua giusta collocazione la dottrina dei sacramenti. Diviene chiara la necessità del Battesimo e della Penitenza, dell’Eucaristia e del Sacerdozio, come anche del sacramento del Matrimonio.
A partire da qui può essere allora affrontata concretamente la questione dell’immagine cristiana dell’uomo. E importante innanzitutto la constatazione espressa da san Francesco di Sales: non esiste la immagine cristiana dell’uomo, ma molte possibilità e strade nelle quali si presenta l’immagine dell’uomo: da Pietro a Paolo, da Francesco a Tommaso d’Aquino, da fratel Corrado al cardinale Newman, e così via. Dove è innegabilmente presente un certo accento che parla in favore di una predilezione per i “piccoli”.
Naturalmente sarebbe da considerare in questo contesto anche l’interazione fra Torah e Discorso della Montagna sulla quale ho detto qualcosa nel mio libro su Gesù.
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fonte: La verità dell’amore – Tracce per un cammino edizione Cantagalli (2024)
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