20 minuti

L'ultima cena e L'Eucarestia come Ringraziamento

Partecipi del dono di Cristo

Autore: Autori Cristiani

Nel dettare questa meditazione vorrei lasciarmi guidare dalla consapevolezza che per rinnovare la nostra adesione a Cristo dobbiamo accettare la penitenza per i propri peccati e l’invito di Cristo ad una radicale conversione di vita. Non si tratta di una mera finzione. È piuttosto l’invito ad assumere la conversione come dimensione essenziale della vita credente, dimensione che gli esercizi spirituali vogliono sottolineare con particolare efficacia.
La domanda che ci poniamo, nella meditazione di questo pomeriggio, potrebbe essere formulata così: come integrare il vangelo della passione nella nostra vita cristiana e, più in generale, nella vita consacrata? E come farlo in questo tempo particolare degli esercizi nel quale siamo immersi? Tempo nel quale veniamo sollecitati a un intenso cammino di conversione, ma nel quale permane, in ogni caso, tutta la fatica di rientrare in se stessi?
Anche questo pomeriggio vogliamo sostare nel cenacolo per contemplare il significato dell’eucaristia (cf Mt 26,26-29), particolarmente cara alla spiritualità del vostro fondatore.
Non intendo riprendere tutti gli elementi del brano per farne oggetto di meditazione.
Proverò, piuttosto, ad offrire alcune chiavi di lettura a partire dalle quali ciascuno di noi potrà poi rileggere e meditare personalmente l’intero capitolo 26 del vangelo di Matteo o, se lo vorrà, l’intero racconto della passione di Gesù.
Mi paiono, tra l’altro, chiavi di lettura, non solo supportate dal testo, ma capaci, soprattutto, di interrogare lo stile della nostra vita e quindi, di riflesso, lo stile di vita delle nostre comunità. Perché tutto si risolve, in fondo, in una questione di stile. La vita cristiana è sempre supportata da uno stile, che vuole essere lo stile di Cristo: quello della prossimità, della kenosi, della perdita di sé.
Ci chiederemo, dunque, anzitutto come Gesù si pone dinnanzi alla sua passione (è la prima chiave di lettura) e – secondariamente (seconda chiave) – come reagisce l’uomo di fronte al dono eucaristico del Cristo. Ed è proprio dal confronto tra questi due elementi del racconto (chiamateli pure, se volete, due stili) che mi sembra possa scaturire per noi un vero e proprio itinerario penitenziale.

1. Nell’eucaristia Gesù dona «se stesso» (e non semplicemente «qualcosa»)

Nella notte in cui fu tradito – riferiscono i vangeli – Gesù prese il pane e, dopo aver pronunciato su di esso la preghiera di benedizione, lo spezzò e lo diede ai suoi discepoli dicendo: «Questo è il mio corpo» (Mt 26,26; Mc 14,22; Lc 22,19). Allo stesso modo prese il calice del vino, pronunciò la preghiera di benedizione, lo diede ai suoi discepoli e disse: «Questo è il mio sangue dell’alleanza» (Mt 26,28; cf Mc 14,24).
Sappiamo, dalla tradizione che con questi gesti Gesù intese anzitutto annunciare la sua morte. La sua vita, di lì a poco, sarebbe stata spezzata sul legno di una croce e il suo sangue sarebbe stato versato nella morte. Pane e vino – in quanto sono pane spezzato e vino versato – diventano quindi segno visibile della morte. Essi anticipano, nel linguaggio dei segni, il destino al quale Gesù è indirizzato. Gesù celebra l’eucaristia con la consapevolezza che la sua fine è vicina.
Nell’ultima cena, però, Gesù non intende solo annunciare ai suoi discepoli che la sua fine è vicina e che egli è ormai incamminato verso la croce. Piuttosto, ha la chiara intenzione di affidare alla Chiesa un nuovo rito con il quale perpetuerà la sua presenza. Un rito attraverso il quale egli donerà alla sua Chiesa, non semplicemente «qualcosa», ma «se stesso». Nell’eucaristia il Signore Gesù non ci dona qualcosa di distinto da sé, ma proprio se stesso. Il concilio di Trento ha contribuito a precisare che nell’eucaristia Cristo ci dà se stesso con il suo corpo, il suo sangue, la sua anima, la sua divinità. Vale a dire se stesso nella pienezza della sua persona. Non c’è nulla di sé che egli non ci doni nel sacramento dell’eucaristia. Chi ama, infatti, vorrebbe donare alla persona amata, non semplicemente qualcosa (un mazzo di fiori, un bacio, un abbraccio), ma addirittura se stesso. Chi ama si rende conto che qualsiasi altro dono che non sia se stesso, la sua persona, la totalità della propria vita è sempre tropo poco.
Capiamo perché San Tommaso d’Aquino – il grande dottore eucaristico – definiva l’eucaristia il sacramento dei sacramenti, il più grande dei sacramenti. L’eucaristia è il più grande dono della misericordia di Dio che si vuole consegnare all’uomo per renderlo come sé.
Per questo – tra lo stupore di tutto il creato – Dio continua a trasformare il pane e il vino perché possano essere segno e sacramento del suo amore. E poiché egli non ci vuole schiacciare con il peso della sua divinità, ma vuole che tutti ci sentiamo a nostro agio con lui, si rende presente, non nello splendore della sua gloria, ma in un elemento comunissimo come è il pane. Egli – per dirla ancora una volta con Tommaso – si nasconde in un piccolo frammento di materia: Adoro te devote, latens Deitas, quae sub his figuris vere latitas (Ti adoro profondamente, divinità nascosta, che ti nascondi veramente in questi segni).
La grandezza dell’Eucaristia – che supera ogni altra manifestazione al mondo – non consiste nelle nostre realizzazioni e nel nostro fare, ma in ciò che precede il nostro stesso fare. Consiste nel fatto che, nella preghiera e nell’azione comunitaria, è Lui, il Signore, ad agire personalmente. È lui che fa di noi la sua Chiesa, convocandoci al banchetto nel quale condivide se stesso. Nell’eucaristia – come accade per tutti i sacramenti – l’agire della Chiesa si identifica totalmente con quello di Cristo. Egli agisce in noi e noi veniamo trasformati in lui. Per questo, ogni volta che accogliamo l’invito al suo banchetto siamo invitati a uscire da noi stessi. Non ci fermiamo alle creazioni della nostra mente e delle nostre mani – per quanto grandi possano essere –, ma riceviamo un dono che non possiamo inventare: un dono che possiamo solo accogliere. Nell’umiltà e nello stupore.
Affidandoci il memoriale della sua Pasqua, il Signore Gesù ha voluto dirci che anche nella passione egli non è stato vittima inconsapevole degli eventi, ma ne è stato, al contrario, il vero attore. Non ha evitato miracolosamente la morte, ma – svuotandosi – l’ha attraversata dall’interno, e così ha trasformato anche quel tragico evento di rifiuto in un supremo atto di amore e in sorgente di salvezza per tutti, ebrei e pagani.

2. All’inizio il ringraziamento

La prima cosa da osservare è che prima di andare incontro alla morte Gesù pronuncia la benedizione (Mt 26,26). Si dice anche, in altri contesti, che egli «fa eucaristia», ossia «ringrazia». Il che non è per nulla scontato, se si considera che il contesto nel quale avviene l’ultima cena è un contesto ostile. Si tratta di una di quelle situazioni nelle quali a noi, con buona probabilità, non sarebbe venuto in mente di ringraziare. Perciò abbiamo sempre qualcosa da imparare dall’esempio di Gesù che, andando incontro alla propria passione, benedice e rende grazie.
Anche in un’altra situazione ostile – come quella che aveva preceduto la moltiplicazione dei pani – Gesù aveva ringraziato il Padre. La situazione in cui Gesù espresse il suo rendimento di grazie non era una situazione di abbondanza, ma di grave mancanza. C’erano cinquemila uomini da sfamare in luogo deserto, senza contare le donne e i bambini (cf Mt 14,21). Oltretutto, per sfamare quella folla vi erano a disposizione solo cinque pani e due pesci (cf Mt 14,17). Le circostanze, anche in questo caso, non suggerivano certamente il rendimento di grazie.
Nell’Esodo la situazione di carestia – alla quale il popolo era andato incontro – aveva provocato preoccupazioni, lamentele e persino ribellioni (cf Es 12,2-3; 17,2-3; Nm 11,4-5).
Mosè non ringraziava Dio, ma – in preda all’angoscia – diceva: «Che farò io per questo popolo? Ancora un poco e mi lapideranno» (Es 17,4). Gesù, invece, prende pochi pani e due pesci, alza gli occhi al cielo, benedice il Padre e lo ringrazia (cf Mt 14,19). Non si lamenta per ciò che non ha, ma ringrazia per ciò che riceve. È proprio questo contatto riconoscente con il Padre che sblocca la situazione e permette di operare il miracolo. Con
la sua gratitudine Gesù apre la strada alla bontà divina, la quale dà a tutti pane in abbondanza. «Tutti mangiarono a sazietà e portarono via i pezzi avanzati: dodici ceste piene» (Mt 14,20).
Se invece di lamentarci per ciò che non abbiamo imparassimo a ringraziare il Signore per ciò che egli ci dona la nostra situazione sarebbe trasformata e, con la grazia di Dio, potremmo fare cose meravigliose.
C’è, però, un altro episodio drammatico nel quale Gesù – in maniera sorprendente – ringrazia. È l’episodio che si svolge davanti alla tomba aperta di Lazzaro (Gv 11,41-42). In questo caso il rendimento di grazie è ancora più sorprendente. Mentre nel caso della moltiplicazione dei pani si trattava di evitare un pericolo – la morte di fame dei presenti –; qui la situazione è perfino più drammatica, dal momento che il pericolo non può più essere evitato. Lazzaro è morto e i segni della morte sono sotto gli occhi di tutti. Eppure, anche in queste circostanza dolorosa, nella quale l’unico atteggiamento umanamente giustificabile è quello della disperazione, Gesù ringrazia: «Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato.
Io sapevo che mi dai sempre ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato. Detto questo gridò a gran voce: “Lazzaro, vieni fuori!”. Il morto uscì» (Gv 11,41-43).
Gesù, in breve, prima di andare incontro alla morte, prima di moltiplicare i pani, prima di ridare la vita a Lazzaro, alza gli occhi al cielo, benedice il Padre suo e lo ringrazia (cf Mc 6,41; 14,19; Lc 9,16; Gv 6,11). Non si lamenta per ciò che non ha, ma ringrazia per ciò che riceve e così continua nel tempo quel ringraziamento eterno con il quale, nella comunione della Trinità, si restituisce incessantemente al Padre che lo ha generato.
C’è però un aspetto in tutto questo, che forse non abbiamo ancora considerato in maniera sufficiente. Anche nella letteratura biblica ci sono molti salmi nei quali l’orante, come ha fatto Gesù, ringrazia Dio per il suo intervento e i suoi benefici. In genere, però, questo accade dopo che Dio è intervenuto liberando l’uomo dalla malattia, dalla morte, o da un’altra situazione di pericolo (cf Sal 22; Sal 66; Sal 107).
Nel caso di Gesù, invece, il fatto straordinario è che il ringraziamento è posto all’inizio di tutto. Prima della moltiplicazione dei pani, prima della risurrezione di Lazzaro, prima addirittura della passione. Non c’è prima la morte, la liberazione ad opera di Dio e poi il ringraziamento. Nel sacrificio di Gesù il rendimento di grazie appare, piuttosto, come l’elemento primo e fondamentale: è presente all’inizio e definisce l’orientamento di tutto l’evento.
È questo anche il senso delle nostre eucaristie: noi – che viviamo talvolta nella disperazione e nella fatica – ci inseriamo nel ringraziamento di Gesù perché siamo certi che con la forza di questo cibo spirituale anche noi, un giorno, vinceremo la morte ed entreremo nella vita. Anche nelle nostre eucaristie il ringraziamento non sta alla fine, ma all’inizio, prima delle parole dell’istituzione e della memoria della passione. La liturgia infatti – sapienza orante della Chiesa – ci fa dire nel prefazio, prima del memoriale della morte: «è veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza rendere grazie sempre e in ogni luogo».
Così il Signore Gesù insegna anche a noi che non esistono ingiustizie o torti ai quali non si possa rispondere con la misericordia, il perdono e perfino – paradosso della fede – con il ringraziamento. Anche la prova più dura – se vissuta nella preghiera e nel ringraziamento – può trasformarsi, a dispetto di ogni logica mondana, in un gesto di amore e in fonte di benedizione. Non tocca a noi, infatti, chiederci come e in che misura il nostro servizio nella Chiesa porterà frutto.
Occorre piuttosto chiedersi, anche di fronte alla prova: «quale occasione mi dona, il Signore, attraverso questa prova?». Ho il coraggio di ringraziare anticipatamente, sapendo che la Provvidenza di Dio non verrà meno e che la sua grazia, in fondo, ci basta?

3. Il contesto immediato: il tradimento di Giuda e il rinnegamento di Pietro

Se questa è la reazione di Gesù di fronte alla sua passione, vale la pena – ora – provare a mettere in luce la reazione dell’uomo. Come reagiscono gli uomini di fronte al ringraziamento di Cristo? Che cosa comprendono della fiducia con la quale egli si prepara alla prova più dura, quella della morte?
Per comprendere la reazione dell’uomo di fronte alla passione di Gesù dobbiamo guardare contesto nel quale si inserisce il banchetto di Gesù con i suoi discepoli. Sia Marco che Matteo inquadrano il racconto dell’Ultima Cena tra il tradimento di Giuda e il rinnegamento di Pietro.
Gesù dona se stesso mentre Giuda concorda per trenta monete d’argento la consegna di Gesù e cerca il momento propizio per consegnarlo. Le trenta monete costituiscono il prezzo di risarcimento per la perdita di uno schiavo (cf Es 21,32). Proprio «uno dei dodici» (Mt 26,14), uno di coloro che lo avevano seguito in Galilea e ai quali aveva spiegato le parabole, trama alle spalle del maestro. In senso stretto possiamo dire che non c’era bisogno – a questo punto del vangelo – di ricordare che Giuda Iscariota era «uno dei dodici». Il lettore del vangelo lo sa. Se Matteo ricorda che Giuda fa parte del gruppo più ristretto dei dodici non è, evidentemente, per una ragione di carattere cronachistico, ma ha assume il valore di un monito.
Matteo vuole ricordarci che a volte il tradimento viene tramato anche all’interno della Chiesa. Anche nella comunità dei credenti – ma potremmo dire in ciascuno di noi – si insinua il traditore. La conoscenza e la sequela di Gesù non sono automaticamente garanzie di salvezza. Nel cuore del discorso della Montagna Gesù aveva detto ai suoi discepoli: «voi siete la luce del mondo» (Mt 5,14). Ossia – in virtù della chiamata che vi ha raggiunti e per il fatto stesso di essere stati costituiti nella sequela – voi siete, agli occhi del mondo, luce.
Già lì, per la verità, Matteo aveva messo in guardia contro il rischio di venire meno.
L’impegno per il regno porta con sé oltraggi e persecuzioni. Al discepolo non è risparmiato nulla ed egli deve prepararsi a grandi prove. Matteo sa che di fronte a questa situazione il vero pericolo è che il discepolo venga meno, che la luce si spenga, che la comunità perda quella significatività che per grazia le è stata donata.
Anche la scena che segue il banchetto di Gesù con i suoi discepoli è segnata dall’ostilità. Appena dopo il racconto dell’istituzione dell’eucaristia segue, in Matteo, la scena nella quale Gesù annuncia il rinnegamento di Pietro e la fuga di tutti i discepoli: «percuoterò il pastore e saranno disperse le pecore del gregge» (Mt 26,31), come aveva predetto Zaccaria. Sappiamo, dal prosieguo del vangelo, che di lì a poco Pietro rinnegherà per tre volte Gesù e che dinnanzi alla croce i discepoli fuggiranno. Anche se dovessi morire con te – aveva detto Pietro – non ti rinnegherò mai. E lo stesso avevano detto gli altri discepoli.
Il rinnegamento di Pietro assume, nel vangelo di Matteo, un significato ancor più drammatico che in Marco, per il fatto che Pietro – il primo degli apostoli, colui che, in un certo senso, porta su di sé la responsabilità di tutti – rinnegherà Gesù «davanti a tutti» (Mt 26,70). Si tratterà, quindi, non solo di un rinnegamento totale, ma anche pubblico. Egli nega ogni legame con Gesù, dunque l’essenza stessa del discepolato. Anzi, a ben guardare, il secondo rinnegamento di Pietro è accompagnato perfino dal giuramento (cf Mt 26,72). E così rinnega doppiamente il suo discepolato: da una parte, infatti, dichiara di non aver nessun legame con Gesù; dall’altra viene meno alla richiesta di Gesù che, nel discorso della Montagna, aveva detto: «non giurate […], né per il cielo, perché è il trono di Dio; né per la terra, perché è lo sgabello per i suoi piedi» (Mt 5,34-35). A Cesarea di Filippo lo aveva riconosciuto «Messia e Figlio di Dio» (cf Mt 16,16), qui – invece – nega nella maniera più assoluta ogni coinvolgimento con lui. Dichiara, non solo di non aver nessun legame con lui, ma di non conoscere nemmeno chi egli sia. Infine, nel terzo rinnegamento, il giuramento è accompagnato da imprecazioni. Siamo, dunque, di fronte ad un crescendo con il quale Pietro – il «primo» – rinnega il suo Signore.
A rinnegare il Signore sarà, da parte di Pietro, la paura. Più la paura della derisione, che non quella della condanna. Segno di viltà, dunque, più che di consapevole desiderio di prendere le distanze da Gesù. Sappiamo, del resto, come il pianto di Pietro significherà molto più che pentimento. Sarà un profondo segno di amore nei confronti di colui che –per viltà – aveva rinnegato non una, ma tre volte.
Il contesto immediato dell’eucaristia è quindi preceduto dall’incomprensione (il tradimento di Giuda) ed è seguito dall’annuncio della viltà dei discepoli (il triplice rinnegamento di Pietro). Il contrasto non può essere più forte: Gesù fa eucaristia mentre i suoi non lo comprendono. Anzi, egli dona liberamente se stesso proprio alla sua Chiesa, che non lo comprende, lo tradisce e ripetutamente lo rinnega. Il contesto dell’ultima cena rende dunque ancora più grande il dono dell’eucaristia.

4. Il contesto prossimo: L’intelligenza della donna che coglie la logica dello spreco

In questo quadro dalle tinte un po’fosche c’è però un elemento di luce che si staglia dallo sfondo e viene a dire che non tutti si lasciano vincere dall’ottusità e dall’incomprensione. È l’unzione che avviene a Betania, nella casa di Simone il lebbroso.
Sappiamo, dai vangeli, che Betania era un punto d’appoggio di Gesù nei giorni del suo ministero a Gerusalemme. Una donna si avvicina a Gesù, prende un vaso di alabastro di olio profumato molto prezioso e lo versa sul capo di Gesù. Si tratta certamente si un gesto che – compiuto verso l’ospite – esprime deferenza e stima. Ma che l’evangelista carica anche di un ulteriore significato. Gesù comprende il significato di questo gesto e lo spiega ai discepoli, che – ancora una volta – non comprendono. Quell’olio profumato rinvia agli oli aromatici con i quali si ungevano i cadaveri per la sepoltura. È, dunque, un segno che parla il linguaggio della morte ormai prossima. Ne è dunque, in questo senso, come un antefatto. Potremmo anche parlare di un gesto profetico.
Tuttavia, accanto a questo primo significato, ne possiamo scorgere con certezza almeno un secondo. Questa volta lo possiamo leggere sul volto dei discepoli che, sdegnati, si chiedono per quale motivo quella donna abbia sprecato tutto quell’olio. Essi sanno che quell’olio era di gran valore e lo si sarebbe potuto vendere a caro prezzo. Ragionano con la loro mentalità misurata e calcolatrice. Tuttavia, proprio nel loro non-capire ci offrono la chiave di lettura di tutta la passione di Gesù e, quindi, anche dell’eucaristia. L’eucaristia – come la passione – sono indubbiamente uno spreco, ma uno spreco d’amore. Esse sono, in un certo senso, il caro prezzo pagato da Cristo per la nostra salvezza.
Non possiamo comprendere l’eucaristia se non a partire dallo spreco dell’amore di Dio.
questa è la vera chiave di lettura che ci permette di afferrare il senso più profondo dell’eucaristia. Chi ama non indugia nel fare conti, né si chiede quanto perderà, ma dona fino allo spreco e si compiace unicamente del dono, perché è proprio in esso che trova la sua felicità. Sarebbe del resto vano tentare di comprendere l’eucaristia al di fuori di una logica che non fosse quella dell’eccedenza e della sovrabbondanza. Sorprende, in ogni caso, notare che tale gesto è compiuto – ancora una volta – in un contesto di incomprensione. Di fronte al gesto della donna, sono ancora una volta i discepoli (cf Mt 26,8) coloro che non comprendono. È interessante, comunque, notare come, anche in questa situazione di più o meno dichiarata ostilità, Gesù non perde il controllo della situazione. È lui che durante l’ultima cena prende l’iniziativa e dà disposizioni per celebrarla. Il momento conclusivo della vita di Gesù è ciò che egli stesso chiamerà il «suo tempo» (cf Mt 26,18), e che Giovanni – in maniera analoga – qualificherà come l’«ora».

5. Il sacramento delle trasformazioni

In breve, il contesto prossimo e immediato dell’eucaristia ci aiutano a comprendere la passione di Gesù come un eccesso di amore che egli manifesta nei nostri confronti. Proprio in questo contesto egli ci affida quello che potremmo chiamare «il sacramento delle trasformazioni». Almeno in un triplice senso.
Anzitutto nel senso che nella celebrazione dell’eucaristia il pane offerto sull’altare diventa corpo di Cristo e il vino diventa sangue. La Chiesa ha sempre insistito sul carattere misterioso, ma reale, di questa prima trasformazione che rinnova nel tempo la presenza del Cristo e del suo sacrificio pasquale. Il pane di questa terra diviene il corpo di Cristo. In tal modo, la promessa che leggiamo nel libro dell’Apocalisse, diviene per noi realtà: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose» (Ap 21,5). In effetti, «nell’eucaristia, Cristo non si aggiunge come qualcosa in più, per così dire, oltre il pane, in modo che a un certo punto ci sarebbe anche lui. Non è qualcosa accanto ad altro, è la fonte, la radice, la forza creatrice del tutto.
Dove egli viene, più nulla resta come prima; si avvera la nuova creazione. Le cose divengono nuove».
Questa non è, però, l’unica trasformazione che l’eucaristia realizza. La seconda trasformazione è quella che il sacramento attua sull’uomo. «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue» – aveva detto Gesù alle folle – «dimora in me e io in lui» (Gv 6,56).
L’eucaristia è, dunque, sacramento della trasformazione, non solo in riferimento alle specie eucaristiche, ma anche in riferimento a noi: perché noi, che ci accostiamo all’altare, possiamo essere trasformati interiormente. Chi mangia la mia carne dimora in me» (Gv 6,45); vale a dire: non vive più per se stesso, ma dimora stabilmente con il Signore nell’atto di offrirsi al Padre e agli uomini. La nostra vita viene – per così dire – «divinizzata», viene unita al rendimento di grazie che dall’eternità il Figlio eleva al Padre e al quale è associato, dopo la sua ascensione, anche la sua umanità.
La terza trasformazione, infine, è quella che si attua nella Chiesa. Nel senso – questa volta – che l’umanità dispersa e disgregata dal peccato viene raccolta in unità. «Poiché c’è un solo pane – spiegava Paolo ai cristiani della prima ora – noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane (1Cor 10,16-17). L’eucaristia è, dunque, dono di Cristo da cui scaturisce il sacramento della Chiesa. È il luogo nel quale l’«io» di ciascuno viene unito nel «noi» più grande di un solo corpo.

6. Apertura

(a) Vi invito anzitutto, nel momento della riflessione e della preghiera personale, a rileggere il racconto dell’istituzione dell’eucaristia con uno sguardo contemplativo.
Lasciate che questa lettura sia guidata, soprattutto, dallo stupore per il fatto che il Signore non prende le distanze da noi, ma continua ad essere – soprattutto nel sacramento dell’altare – nostro contemporaneo. C’è un luogo nel quale possiamo incontrarlo, in cui noi possiamo accoglierlo perché lui, per primo, accoglie noi. È proprio nell’eucaristia, in breve, che si rivela l’eccedenza del dono di Dio.
(b) Il Signore Gesù – abbiamo detto – inaugura la passione, la vicenda della sua morte, con un ringraziamento. Egli non pone il ringraziamento alla fine, ma all’inizio. Con tutto ciò ci insegna che il ringraziamento deve essere il tratto qualificante di ogni nostra azione. E che anche le fatiche possono diventare, in un unione con lui, occasioni di crescita e di purificazione. «Quale opportunità mi dona, il Signore, attraverso questa fatica?».
(c) Vi invito, ancora, a riflettere sull’eucaristia come al sacramento delle trasformazioni.
La Chiesa ha sempre indicato questo aspetto dell’eucaristia con il termine latino di conversio. E ci ha sempre ricordato anche che questo ci è dato perché noi possiamo essere trasformati: interiormente a immagine di Cristo; esteriormente, in quanto entriamo in comunione con lui e con gli altri.

Link alla fonte »