Quattro lezioni sulle virtù: la giustizia
Autore: Don Mauro Leonardi
…) la giustizia è la costante e perpetua volontà, tradotta in azione, di riconoscere a ciascuno ciò che gli è dovuto; questo è l’ufficio, deontologico e inviolabile, che il magistrato preposto deve porre in atto nei luoghi deputati a rendere giustizia: i tribunali. La giustizia, che è messa in atto sempre come volontà del popolo, è anche azione repressiva, potere legittimo di tutelare i diritti di tutti, quindi rendere a ognuno, nelle circostanze riconosciute, di accordare giustizia ascoltando richieste per essa e in nome di essa accordando ciò che è giusto quando è dovuto e a chi è dovuto.
La negazione della giustizia, ovvero la mancata applicazione dei criteri di è l’ingiustizia, con diversi gradi di gravità della sua realizzazione a danno di una o più persone. Se prendiamo i vecchi e classici manuali di morale troviamo che la giustizia viene definita come il dare a ciascuno il suo, e viene declinata in diversi modi:
– la giustizia generale o legale, che è la costante e perpetua volontà di rendere alla comunità (sia civile che ecclesiastica)ciò che è suo diritto.
– la giustizia particolare è la costante e perpetua volontà di rendere ai singoli ciò che è loro diritto. Questo tipo di giustizia si divide in due parti: la giustizia commutativa che regola i rapporti tra i singoli nel senso stretto del tipo compra/ vendita; e la giustizia distributiva che è quella che regola i rapporti tra la società e i suoi membri: premi, oneri, dignità. Nella giustizia distributiva non si cerca l’uguaglianza assoluta ma di tipo proporzionale.
San Josemaría
“Guardate che la giustizia non si esprime esclusivamente nel rispetto esatto dei diritti e dei doveri; non è un problema aritmetico che si risolve con somme e sottrazioni. La virtù cristiana è più ambiziosa: ci spinge a mostrarci riconoscenti, affabili, generosi; a comportarci da amici leali e onesti” (Amici di Dio nn. 168.169). “La carità, che è come un generoso traboccare della giustizia… secondo me, il comportamento delle madri è l’esempio più chiaro di questa unione pratia della giustizia con la carità. Amano con identico affetto tutti i loro figli, e proprio questo amore le induce a trattarli in maniera diversa – con giustizia ‘disuguale’ – perché ciascuno è diverso dagli altri. Ebbene, anche con il nostro prossimo, la carità perfeziona e completa la giustizia, perché ci spinge a comportarci in modo disuguale con chi è disuguale… La giustizia prescrive di dare a ciascuno il suo, che non vuol dire dare a tutti la stessa cosa” (Amici di Dio n. 173).
La lezione
Partiamo dal vangelo. Nel caso della giustizia, al contrario di quanto ci è accaduto quando abbiamo parlato della prudenza, le citazioni sono moltissime, quasi infinite. Rispetto alle altre tre virtù cardinali, la giustizia ha nella sacra Scrittura un’importanza particolarissima. Direi che non è semplicemente una virtù. È molto di più. Attinge al cuore stesso di Dio e del suo rivelarsi agli uomini, fino a giungere al giusto per eccellenza che è Gesù Cristo “veramente quest’uomo era giusto”. Perciò, a differenza della prudenza, non è possibile racchiudere il senso di questa parola con le citazioni della scrittura, nemmeno se le riduciamo alle sole citazioni del vangelo. Diciamo innanzitutto che il termine giusto in greco ha a che fare con l’azione del parlare. Δίκαιοϛ, agg. (dikaios): da Δίκη (dike) che significa sentenza, condanna: in latino si traslittera con dico, nel senso di qualcosa che si dice, relativo alla parola uscita dalla bocca per esprimere un giudizio. Tutto ciò viene tradotto con giusto, retto, cioè la giustizia non è semplicemente una questione mia, intimistica, ma è qualcosa che ha a che fare con la relazione, perché noi parliamo se c’è qualcuno che ascolta.
Alla luce di questa semplicissima osservazione, scelgo un percorso elettivo molto semplice: guardo un po’ più da vicino i personaggi che nel vangelo vengono definiti giusti. Sono Giuseppe, Elisabetta e Zaccaria, Giovanni Battista, Simeone, Giuseppe del sinedrio, Gesù e il Padre.
Dio e Padre: La giustizia di Dio e la sua misericordia sono due caratteristiche con cui l’A.T. riesce a consegnarci e a parlarci del volto del Dio del Sinai: giusto e misericordioso. Non sono due attributi che possono essere disgiunti l’uno dall’altro. Dio è giusto e può essere misericordioso, come se scegliesse a seconda delle situazioni se usare una delle due virtù a sua disposizione. Non è così. La questione non è, come invece accade a noi, se Dio è giusto o misericordioso ma che Dio è “giusto e misericordioso”. Spesso noi che siamo abituati a leggere il Vangelo puntiamo lo sguardo sulla misericordia, come se la giustizia di Dio fosse cosa dell’A. T.: finalmente è arrivato il tempo della misericordia – pensiamo – prima c’è stato il tempo della giustizia. Questo genere di linguaggio e di visione rischia di non farci entrare nella profondità del mistero di Dio e anche nell’autenticità della nostra vita, perché se Dio sta davanti all’uomo in questo modo, giusto e misericordioso, vorrà dire che anche noi dobbiamo stare di fronte a noi stessi, agli altri e alle situazioni nel medesimo modo. La giustizia è una virtù che agisce laddove si instaura una relazione, perché essa ha a che fare con il volto di Dio, dunque anche con il mio. Tutto questo per dire che anche nei Vangeli si parla di giustizia e si parla di persone giuste. Vediamo quali sono le persone giuste di cui parla il vangelo. Forse guardandole un po’ più da vicino possiamo capire lo spessore di questa parola.
In primo luogo ci sono Elisabetta e Zaccaria. Sono definiti giusti perché osservavano irreprensibili le leggi: “ambedue erano giusti davanti a Dio e osservavano irreprensibili le leggi (Elisabetta e Zaccaria)” (Lc, 1,6).
Sono gli ultimi rappresentanti, se così si può dire, dell’A.T. È giusto il pio israelita, che osserva in modo impeccabile la Legge. Non possiamo disdegnare a priori questa definizione, la garanzia della comunione con il Dio del Sinai conosce la via della Legge, ed è per questo che chi osserva tale Legge è giusto, nel senso di pio, di un uomo che vive in comunione con il suo Dio. Riconosce cioè la signoria di Yawhè sulla storia, sul mondo, sul proprio popolo, sulla propria vita. La Legge garantisce questo rapporto e per questo pretende di codificare in tanti precetti il vivere quotidiano dell’israelita.
Il guaio nasce laddove il precetto si sostituisce al rapporto, lo svuota, lo rende sterile e pretende di innalzarsi a criterio di giudizio della storia e degli uomini, per cui Gesù, nelle controversie con i farisei, può arrivare persino a dire che “se aveste compreso cosa significhi Misericordia io voglio e non sacrifici, non avreste condannato persone senza colpa” (Mt 12,7). È necessario approfondire bene la differenza che nell’A.T. esiste tra Legge (Torah) e precetto, altrimenti si sbaglia. La Legge rimane cosa sacrosanta, anche per Gesù “non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge” (Mt 5,18) per i precetti invece le cose sono diverse. Dunque Elisabetta e Zaccaria sono due persone che vivono la loro esperienza al cospetto di Dio e osservano i suoi comandamenti.
Vicino a loro il figlio, Giovanni Battista, anch’esso definito giusto: addirittura egli venne a voi sulla via della giustizia e non gli avete creduto (Mt 21,32). Giovanni è la figura dell’uomo coerente e irreprensibile, la sua predicazione è così forte nel richiamare tutto questo che dal carcere manderà a chiedere a Gesù se è lui colui che deve venire scandalizzato – così sembrerebbe – dalla diversità di predicazione del cugino di Nazareth. Dalla “scure posta alla radice degli alberi”, a “i ciechi vedono… e ai poveri è annunziata la buona novella”, la distanza appare abissale. Eppure Cristo si presenta nella storia annunziato dal Battista, da colui che cerca di richiamare il popolo alla presenza di Dio.
Poi abbiamo Giuseppe, lo sposo di Maria: egli è colui che sta sulla soglia, è lui il varco che ci conduce all’intimità del rapporto con Gesù e Maria, alla vita interiore, che segna cioè il passaggio dall’A.T. al N.T.
“Giuseppe suo sposo che era giusto e non voleva ripudiarla, decise di licenziarla in segreto” (Mt 1,19). Ad ascoltare la Legge, Giuseppe avrebbe dovuto rinchiudere la sposa nello schema e nella logica dell’adulterio e invece Giuseppe è stato ad ascoltare – si è fidato – della bellezza innocente di Maria. Giuseppe scopre che amare significa credere all’evidenza della bellezza della vita di chi si ama. E’ giusto perché ha corso il rischio di stare davanti a Jawhé con quel “mistero” che era sua moglie incinta. “La giustizia non consiste nella semplice sottomissione a una regola: la rettitudine deve nascere dal di dentro, deve essere profonda, vitale, perché “il giusto vive della fede” [“Ab” 2, 4]. Vivere della fede: queste parole, che saranno poi tanto spesso tema di meditazione per l’apostolo Paolo, le vediamo realizzate perfettamente in san Giuseppe. Egli non compie la volontà di Dio esteriormente, formalisticamente, ma in modo spontaneo e profondo. La legge che osservava ogni ebreo praticante non era per lui soltanto un codice o una fredda raccolta di precetti: era l’espressione della volontà del Dio vivo. Ed è per questo che Giuseppe seppe riconoscere la voce del Signore quando essa gli si manifestò inattesa e sorprendente.” (È Gesù n. 41). E’ questo il momento in cui appare più chiara la parola di Gesù definita da Mt “se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi… non entrerete nel regno dei cieli (Mt 5,20)
I vangeli ci nominano poi solo due altri personaggi. Uno all’inizio della vita di Gesù, uno alla fine. Sono Simeone uomo pio e giusto (Lc 2,25) e Giuseppe d’Arimatea (“vi era un uomo di nome Giuseppe, membro del sinedrio, buono e giusto” Lc 23,50). Uno accoglie il corpo di Gesù al tempio dopo i quaranta giorni dalla nascita, l’altro accoglie il corpo di Gesù calato dalla croce, anzi lo cala dalla croce e lo depone nella tomba.
Due giusti che hanno a che fare con il corpo di Gesù.
Di uno si dice che la sua giustizia sembra che fosse non semplicemente un’irreprensibilità di fronte alla Legge, ma un’attesa vigile della ‘consolazione d’Israele’. È giusto, e dunque riconosce in quel neonato il mistero di Dio che si rende presente nella storia. Il giusto è uno che ha a che fare con il corpo di Gesù, e ancora ciò che si rivela è quella particolare relazione che si inaugura con l’incarnazione.
L’altro, Giuseppe d’Arimatea, membro del sinedrio, è definito giusto perché uomo capace di distanziarsi dalla decisione presa dal sinedrio e anche qui siamo davanti a un uomo che ‘aspettava il regno di Dio’. Per ciò quest’uomo giusto ha il coraggio di presentarsi a Pilato, di chiedere il corpo di Gesù, di calarlo dalla croce e di seppellirlo. Anche in questo caso è interessante la triade giustizia, attesa, corpo.
Nei vangeli – oltre al Padre e a Gesù – non si parla di altri uomini giusti. Nel caso del Padre e di Gesù la definizione è diretta, cioè non sono gli evangelisti che li definiscono così, ma il Padre è detto giusto da Gesù (l’unico che lo conosce e lo può definire così), nel discorso di addio del vangelo di Giovanni, quando ormai l’ora è giunta.
Invece Gesù è definito giusto da due pagani: la moglie di Pilato e il centurione. Perché solo due pagani lo riconoscono tale? Cosa significa?
“Mentre egli [Pilato, ndr] sedeva in tribunale, sua moglie gli mandò a dire: «Non avere a che fare con quel giusto; perché oggi fui molto turbata in sogno, per causa sua»” (Mt 27,19). Ecco il centurione: “Visto ciò che era accaduto, il centurione glorificava Dio: «Veramente quest’uomo era giusto»” (Lc 23,47). In qualche modo anche il buon ladrone riconosce Gesù giusto: “Noi giustamente, perché riceviamo il giusto per le nostre azioni, egli invece non ha fatto nulla di male» (Lc 23,41).
La giustizia è tutto questo messo insieme, è la sintesi mirabile che può nascere nel cuore di un uomo quando egli è in relazione con Dio. Essa non può essere solo lo sterile adempimento di una legge e neppure un fatto di coerenza personale. La giustizia richiama fortemente la nostra possibilità di stare di fronte all’altro nella verità di noi e di lui. Tra l’essere per sé stessi e l’essere per gli altri esiste un legame molto profondo. Può diventare dono disinteressato per gli altri solo chi possiede sé stesso (cfr meditazione: Il dono disinteressato di GP2). E’, se possiamo dire così, la passione per la verità del nostro fratello, non delegabile alla semplice applicazione di una norma. La giustizia è una virtù in divenire, non è espressione di quella staticità che ci dà tanta sicurezza. Ecco perché Gesù può dire: “se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli” (Mt 5,20). I farisei, i dottori della legge, avevano il loro criterio di giudizio, dato dall’applicazione della normativa. Gesù viene a dirci che l’appartenenza al regno di Dio chiede il superamento di questa giustizia, chiede di andare a guardare il volto di chi ci sta di fronte per restituirgli la sua bellezza persino laddove può esserci stato uno sbaglio: proprio perché Dio è giusto, è anche misericordioso. Proviamo a pensare all’episodio dell’adultera, o a tutte le controversie sul sabato e la guarigione dei malati.
Pensiamo ai nostri piccoli fatti quotidiani. Me ne viene in mente uno vero accadutomi di recente. A una bimba muore il papà alla fine del primo trimestre scolastico, tempo di interrogazioni. Lui muore di mercoledì, il funerale è di sabato, lei il lunedì torna a scuola, senza aver studiato nulla perché piangeva e basta. La professoressa di chimica quel giorno la interroga e le dà un bel quattro: non sapeva proprio niente e quel che sapeva non riusciva neppure a dirlo. La prof sapeva della morte del papà. Giusto quel quattro? Da un certo punto di vista sì, ha applicato solo il criterio che regge il mondo scolastico: non ha studiato per cui le metto quattro. Ma lei percepisce un senso di profonda ingiustizia: forse si sarebbe dovuto guardare un po’ più in là, arrivare al suo silenzio.
Ecco cosa significa superare la giustizia dei farisei. È la possibilità che ci è data di entrare nella profondità della relazione e della consapevolezza che l’altro ci è affidato e che solo se mi possiedo profondamente posso entrare in questa logica (cfr. meditazione di Giovanni Paolo II “Il dono disinteressato”). È giusto Gesù perché sa stare dentro questa tensione con chi gli sta di fronte e anche nei confronti del Padre, perché lui lo conosce, cioè lo ama. È questo amore che rende possibile la croce, non l’applicazione della legge (“ha bestemmiato, è reo di morte” – cfr. Mc 14,64). È relativamente facile pensare alla croce come all’espressione della misericordia di Dio, forse siamo abituati a leggerla così: tanto misericordioso da dare la vita per noi peccatori. Ma la croce evidenzia anche la giustizia di Dio, la sua passione per ciascuno di noi, peccatore o meno, tanto è vero che sotto la croce c’è Maria. La Croce ci rivela il mistero di quello che Lui è e di quello che siamo noi.
L’ultima sottolineatura andrebbe fatta riguardo alla triade giustizia, attesa, corpo. Di fronte ad ogni volto – quindi ad ogni corpo – siamo giusti solo se siamo capaci di quella profonda attesa che è il rispetto del mistero dell’altro. Ciascuno è mistero e reca con sé mistero. Se incaselliamo, se giudichiamo, se rinchiudiamo in schemi, abbiamo già fatto un atto di profonda ingiustizia verso quel volto, e non saremo mai misericordiosi. E forse questa attesa, prima ancora di essere verso qualcuno, va vissuta innanzitutto verso sé stessi. Noi cresciamo, siamo in divenire. Spesso, davanti ai singoli fatti della nostra vita, dobbiamo stare così: aspettando, “possedendoci” ogni giorno un po’ di più. E questo è giusto!