Quattro lezioni sulle virtù: la temperanza
Autore: Don Mauro Leonardi
La temperanza in gr. σωφροσύνη, in lat. temperantia è la virtù della pratica della moderazione. Nel mondo ellenico era intesa con il termine mediocritas che stava a indicare giusto mezzo, senso che è andato perso nel termine italiano mediocrità. Nell’Etica Nicomachea di Aristotele viene elencata assieme a coraggio, liberalità, magnanimità, mansuetudine e giustizia; come giusto mezzo tra intemperanza e insensibilità. Nel mondo latino Cicerone nel De officiis così la descrive: “rimane a parlare della quarta ed ultima parte dell’onestà; cioè di quella parte che comprende in sé, anzitutto la verecondia e poi, come ornamento della vita, la temperanza e la moderazione, vale a dire il pieno acquietamento delle passioni e la giusta misura in ogni cosa”. Molte religioni tessono le lodi di questa virtù e spesso chiedono ai loro accoliti di praticarla in particolare con opere di mortificazione della carne come il digiuno o la castità. Per il Buddhismo è uno dei cinque precetti dettati dallo stesso Gautama Buddha, salvo il non avere funzione di mortificazione quanto quella di addestramento alla disciplina e di favorire l’apertura mentale con lo scartare tutto il non necessario. Nel mondo cristiano essa fu indicata per la prima volta come virtù cardinale assieme a prudenza, giustizia e fortezza da Tommaso d’Aquino. Queste virtù furono definite cardinali in quanto fanno da cardine per la vita di un uomo che cerca di avvicinarsi a Dio. Essa è come il collante delle altre tre virtù, infatti esse non sono veramente complete se non sono accompagnate dalla temperanza. Già nell’Antico Testamento troviamo riferimento a questa virtù nel Siracide (Sir 18, 30). Nel Nuovo Testamento nella seconda lettera di Pietro si dice: “Per questo mettete ogni impegno per aggiungere alla vostra fede la virtù, alla virtù la conoscenza, alla conoscenza la temperanza, alla temperanza la pazienza, alla pazienza la pietà, alla pietà l’amore fraterno, all’amore fraterno la carità. Se queste cose si trovano in abbondanza in voi, non vi lasceranno oziosi né senza frutto per la conoscenza del Signore nostro Gesù Cristo.” Nel catechismo della Chiesa cattolica, nella parte terza La vita in Cristo, sezione prima La vocazione dell’uomo: La vita nello spirito, si dice: “La temperanza è la virtù morale che modera l’attrattiva dei piaceri e rende capaci di equilibrio nell’uso dei beni creati. Essa assicura il dominio della volontà sugli istinti e mantiene i desideri entro i limiti dell’onestà” (CCC n. 1809).
San Josemaría
La temperanza è padronanza di sé. Non tutto ciò che sperimentiamo nel corpo e nell’anima va lasciato senza freno. Non tutto ciò che si può fare si deve fare…
Non mi è mai piaciuto parlare di impurità. Preferisco esaminare i frutti della temperanza e considerare l’uomo come un vero uomo… un vero uomo sa prescindere da ciò che produce danno alla sua anima e capisce che il sacrificio è solo apparente: vivendo in questo modo – accettando il sacrificio – si libera di molte servitù e può assaporare per intero l’amore di Dio nell’intimo del cuore. La vita riacquista così le tinte che l’intemperanza sfuma; si è capaci di prendersi cura degli altri, di ammetterli a partecipare a ciò che è nostro, di dedicarsi a cose grandi. La temperanza rende l’anima sobria, moderata, comprensiva; … La temperanza non è limitazione, ma grandezza. C’è molta più limitazione nell’intemperanza, dove il cuore abdica a se stesso, per porsi al servizio del primo che offre il misero richiamo di un sonaglio di latta (Amici di Dio n. 84)
l vangelo
Sia nell’antico che nel nuovo testamento ci sono molti riferimenti alla temperanza. Faccio qualche citazione: Temperanza come “sono sobrio”. “Non dormiamo dunque come gli altri, ma vigiliamo e siamo sobri… noi invece che apparteniamo al giorno siamo sobri” (1 Ts 5,6.8). “Perciò cingendo i fianchi della vostra mente e restando sobri” (1 Pt1,13). Temperanza come “dominio di sé, autocontrollo”: “Ma quando egli si mise a parlare di giustizia, di continenza e del giudizio futuro…” (At 24,25). Temperanza come castità, essere temperanti, vivere con disciplina (1 Cor 7,9). In tutto ciò a me colpisce molto che Gesù non usi mai questo termine, cioè Gesù non parla mai di temperanza o di sobrietà. Cosa significa essere sobri? Essere contenuti, non eccedere mai in nessuna cosa, avere la giusta misura? Perché Gesù non parla mai direttamente di temperanza? Forse che non gli interessa questa virtù? Per rispondere, questa volta inizierò citando le considerazioni che Giovanni Paolo II fece durante le catechesi del mercoledì in merito al tema. «La virtù della temperanza fa sì che il corpo e i nostri sensi trovino il giusto posto, che spetta loro nel nostro essere umano. L’uomo temperante è colui che è padrone di se stesso. Colui nel quale le passioni non prendono il sopravvento sulla ragione, sulla volontà, e anche sul “cuore”. L’uomo che sa dominare se stesso! Se è così, ci rendiamo facilmente conto di quale valore fondamentale e radicale abbia la virtù della temperanza. Essa è addirittura indispensabile, perché l’uomo “sia” pienamente uomo (…). Basta guardare qualcuno che, trascinato dalle sue passioni, ne diventa “vittima”, rinunciando da se stesso all’uso della ragione (come, ad esempio, un alcolizzato, un drogato) e costatiamo con chiarezza che “essere uomo” significa rispettare la propria dignità, e perciò, fra l’altro, farsi guidare dalla virtù della temperanza. (…) Questa virtù viene anche chiamata “sobrietà”. È proprio giusto che sia così! Infatti, per poter dominare le nostre passioni, la concupiscenza della carne, le esplosioni della sensualità (ad esempio nelle relazioni con l’altro sesso), ecc., dobbiamo non oltrepassare il giusto limite nei confronti di noi stessi e del nostro “io inferiore”. Se non rispettiamo questo giusto limite, non saremo in grado di dominarci. Questo non vuol dire che l’uomo virtuoso, sobrio, non possa essere “spontaneo”, non possa gioire, non possa piangere, non possa esprimere i propri sentimenti, non significa cioè che egli debba diventare insensibile, “indifferente”, come se fosse di ghiaccio o di pietra. No, in nessun modo! Basta guardare Gesù per convincersene. La morale cristiana non si è mai identificata con quella stoica. Al contrario, considerando tutta la ricchezza degli affetti e delle emotività di cui ogni uomo è dotato – del resto ciascuno in modo diverso: in un modo l’uomo, in altro la donna a motivo della propria sensibilità – bisogna riconoscere che l’uomo non può raggiungere questa spontaneità matura, se non attraverso un lavorio su se stesso e una particolare “vigilanza” su tutto il suo comportamento. In questo difatti consiste la virtù della “temperanza”, della “sobrietà». (Udienza del mercoledì 22/XI/1978)
Dunque, vediamo innanzitutto che rispetto alle altre tre virtù cardinali, rispetto a Dio la temperanza è un Suo attributo ma in un modo un po’ diverso. Noi possiamo dire che Dio è prudente (nel senso di sapiente), che è giusto, che è forte, ma non possiamo dire che Dio sia sobrio o temperante: o meglio, lo possiamo dire ma solo a partire dal mistero dell’incarnazione. Seguendo Giovanni Paolo II possiamo dire che la temperanza è una virtù che chiama in essere innanzitutto il rapporto con il nostro proprio corpo e con quello altrui. Non per niente è la virtù che viene chiamata in causa nella lotta contro i due vizi capitali della gola e della lussuria. Possiamo anche dire che questo rapporto con il corpo è vissuto in modo singolare, autentico e perfetto, solo nell’uomo Gesù Cristo. Gesù appare come un uomo temperante, che sa digiunare per 40 giorni nel deserto ma che sa anche sedere a tavola tanto da meritarsi l’appellativo di “mangione e beone”. Sa dire alla donna peccatrice ‘va e ora non peccare più’ e sa anche lasciarsi profumare e accarezzare i piedi da Maria di Betania e dalla prostituta di Lc 7. Sa dormire sulla barca di Simone durante la tempesta e sa vegliare in preghiera durante la notte. Ha un rapporto sano con il proprio corpo perché Lui vive del rapporto con il Padre. Io penso che questa pienezza singolare appartenga nella storia solo a Gesù e a alla Vergine Maria.
A noi invece questa virtù richiede un lavorio non sempre del tutto semplice perché ci domanda di lasciarci ogni volta interrogare da ciò che guida la nostra vita e dunque anche il nostro corpo. È per questo che il papa parla di vigilanza. E’ lo stesso motivo per cui Gesù parla molto di vigilanza nel Vangelo. Qual è la novità del vangelo rispetto alla temperanza, cioè rispetto a una virtù che è presente fin da sempre in tutte le filosofie, in tutte le religioni e in tutte le antropologie? Si intravvede che in Gesù la temperanza è l’evidenziarsi esteriore di quel rapporto singolare che dentro di noi esiste tra l’ anima e il corpo. Se l’uomo si lascia guidare interiormente dall’amore, il suo corpo e l’uso del suo corpo ne porterà il riflesso. La virtù della temperanza agisce a questo livello e sa porre un argine a quella che la sacra Scrittura definisce la ‘concupiscenza della carne’. Quando ciò non avviene esteriormente affioreranno bruttura e disordine.
Può aiutarci la parabola che Gesù racconta ad un uomo che gli chiede di fare da mediatore tra lui e il fratello su una questione di eredità:
«Guardatevi e tenetevi lontani da ogni cupidigia, perché anche se uno è nell’abbondanza la sua vita non dipende dai suoi beni. Disse poi una parabola: La campagna di un uomo ricco aveva dato un buon raccolto. Egli ragionava tra sé: che farò, poiché non ho dove riporre i miei raccolti? E disse: farò così: demolirò i miei magazzini e ne costruirò di più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. Poi dirò a me stesso: riposati, mangia, bevi e datti alla gioia. Ma Dio gli disse: Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E tutto quello che hai preparato di chi sarà? Così è di chi accumula tesori e non arricchisce davanti a Dio»
Riposati, mangia, bevi e datti alla gioia. E’ evidente che Gesù non condivide la scelta di fondo di quest’uomo e lo vuole riportare alla verità della propria caducità e non solo: vuole anche che in qualche modo il suo interlocutore si accorga che non conta tanto l’eredità quanto il rapporto con il fratello. In una parola riposati, mangia, bevi e datti alla gioia, è lo slogan adeguato di un uomo profondamente egoista e chiuso in se stesso. L’uomo intemperante, l’uomo che non ha misura, è così perché in fondo non ha relazioni sane con il proprio prossimo. Quando la relazione non esiste tutto diventa un mero accaparrarsi di cose, situazioni, persone. «C’è molta più limitazione nell’intemperanza, dove il cuore abdica a se stesso, per porsi al servizio del primo che offre il misero richiamo di un sonaglio di latta» (Amici di Dio 84). Il cuore che abdica a se stesso è un cuore chiuso.
È vero, in un primo momento la temperanza può sembrare una sterile rinuncia, ed è così se è vissuta solo come disciplina esteriore, ma se guardiamo più attentamente, scopriamo che essa è ‘grandezza’ (sempre Amici 84), perché è guidata dalla grandezza del cuore umano che ama. «Se non impariamo da Gesù, non sapremo mai amare. Se pensassimo, come alcuni, che conservare un cuore pulito, degno di Dio, significa non “immischiarlo”, non “contaminarlo” con affetti umani, la conseguenza logica sarebbe quella di renderci insensibili al dolore degli altri. Saremmo allora capaci soltanto di una “carità ufficiale”, arida, senz’anima, ma non della vera carità di Cristo, che è affetto e calore umano» (E’ Gesù 167).
Mi viene in mente una donna in gravidanza. Ella deve essere molto attenta al suo corpo, ad ogni minima trasformazione, ma anche ad ogni tipo di cibo che assume. La sua è un’attenzione che parte dall’amore per quel figlio che porta in grembo. È una cosa naturale! Il corpo in questo caso è al servizio di quella relazione particolarissima che intercorre tra madre e figlio, è a servizio del dono della vita.
A questo punto penso ad un altro episodio del Vangelo molto singolare. Viene chiesto a Gesù perché (…) i tuoi discepoli non digiunano? La risposta di Gesù è sorprendente “possono forse digiunare gli invitati a nozze mentre lo sposo è con loro” (Mc 2,18-20). Gesù sposta l’attenzione dell’interlocutore dal mero digiuno – come avveniva in tutte le religioni precedenti, in tutte le filosofie e in tutte le antropologia – al rapporto corpo-relazione. E’ proprio ciò che temiamo e che ci spinge a ridurre tutto a casistica, a regole esteriori.
In genere queste parole di Gesù vengono interpretate come e si riferissero al fatto che, dopo la sua morte, i suoi discepoli dovranno imparare a digiunare. Se fosse così sarebbe molto strano. Sarebbe come se Gesù dicesse. Dopo che io morirò potrete vedere la temperanza come avviene in tutte le altre religioni. Scritta così, la conclusione appare errata in maniera lampante. Quella lettura infatti non terrebbe conto del fatto che Gesù ha promesso ai suoi di essere con loro « tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20) e che questa sua promessa si rende tangibile sacramentalmente nell’Eucaristia e nella chiesa. Non dobbiamo mai dimenticare che la novità del cristianesimo – il comandamento nuovo – è il comandamento dell’amore.
E così il senso del digiuno viene completamente cambiato. In verità esso deve essere vissuto come rapporto con il corpo di Cristo, che è l’eucarestia, che è la Chiesa, che è la comunità. Così viene valorizzata correttamente la nostra condizione di uomini, il nostro “essere in relazione”, il nostro modo di amare. Per questo si può parlare di temperanza solo a partire dal mistero dell’incarnazione.
«L’amore umano, l’amore di quaggiù, quando è vero, ci aiuta ad assaporare l’amore divino. Pregustiamo in tal modo l’amore con cui godremo Dio e quello che intercorrerà fra noi in Cielo, quando il Signore sarà tutto in tutti. Questo incominciare a intendere l’amore divino, ci spingerà a essere più comprensivi, più generosi, più donati» (È Gesù 166). “Quando il Signore sarà tutto in tutti” è il miglior modo di parlare del paradiso. Là ciò avverrà in modo misterioso (“occhio non vide e orecchio non udì”). Qui invece avviene secondo le modalità che conosciamo del nostro essere uomini. E’ il cuore di Cristo che ci aiuta ad essere veramente umani.
«La vera devozione al Cuore di Gesù consiste in questo: conoscere Dio e conoscere noi stessi, guardare a Gesù e ricorrere a Lui che ci esorta, ci istruisce, ci guida. In questa devozione non si dà altra superficialità che quella dell’uomo che, non essendo interamente umano, non riesce a cogliere la realtà del Dio incarnato» (E’ Gesù 164).
Faccio come sempre l’ultima annotazione riportando alcune espressioni della meditazione di Giovanni Paolo II:
«Gli sforzi dello spirito umano legati all’aspirazione alla bellezza della persona e alla bellezza della comunione affrontano una soglia. Su questa soglia l’uomo inciampa. Invece di ritrovare la bellezza, la perde, ne crea soltanto un assaggio…Come si vede, quella soglia su cui l’uomo inciampa non è insuperabile. Occorre solamente la coscienza che essa esiste e il coraggio di varcarla continuamente. In che direzione bisogna varcare quella soglia? Direi nella direzione di quella convinzione che “Dio dona all’uomo un altro uomo”, nell’uomo invece gli dona tutto il creato, tutto il mondo» (Come Gesù p. 301-302).
Mi piace pensare così alla temperanza: come la virtù che ci permette di vedere quella soglia e di superarla per rendere visibile già qui – adesso e ora nella storia del mondo – la bellezza del volto dell’uomo.