Meditare nel tempo dell'Avvento IX
La nostra Preghiera di preparazione
Autore: Autori Cristiani
Terza Settimana di Avvento
Meditazione del Giovedì
Il Signore è più vicino
«Il Signore è vicino»[1]. L’intensità dell’attesa aumenta di giorno in giorno, di ora in ora. Il nostro cuore è attento all’arrivo dell’Emanuele. Il vangelo di oggi ci mostra la lunga catena di generazioni che hanno aspettato il Messia: da Abramo a Davide, e poi fino a san Giuseppe. Noi siamo nati molto dopo, ma siamo eredi della stessa promessa. Non è facile immaginare i sentimenti di tante generazioni del popolo israelita che aspettavano il Messia promesso. La liturgia ci offre una pista, guardando la magnificenza dell’allegra esplosione per l’imminente arrivo di Gesù: «Giubilate, o cieli; rallegrati, o terra» (Is 49, 13).
Abramo è l’inizio di questa lunga catena, il primo di una famiglia che durerà per sempre. Si è fidato del Signore e la sua promessa si è compiuta: «Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle» (Gn 15, 5). Dio si è servito della sua fedeltà e di quella di tanti altri per inviarci suo Figlio e rendere nuovamente possibile l’intimità di Dio con gli uomini. La nostra dignità è stata ripristinata ed elevata a un grado impensabile: «quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, Dio le ha preparate per coloro che lo amano» (1 Cor 2, 9). La nostra anima si colma della gioia profonda di sapere di essere salvati, riscattati e guariti: «Per questo, con gli angeli e gli arcangeli, i troni e le dominazioni, e con tutti i cori celesti, cantiamo incessantemente l’inno della tua gloria»[2].
Può darsi che il nostro canto non sia sempre intonato, ma lo Spirito Santo ci coinvolge con i suoi «gemiti inesprimibili» (Rm 8, 26). Verifichiamo ogni giorno quanto ci piacerebbe poter rispondere con la stessa misura di Dio. Non si può esprimere con parole il desiderio divino di incontrarsi con noi né la sua insistenza: quattordici generazioni da Abramo a Davide, quattordici fino alla deportazione a Babilonia e altre quattordici fino a Cristo (cfr. Mt 1, 17). Subito in nostro soccorso sopraggiunge il grido divino: «Non temere». Dio stesso si rallegrerà e ringrazierà in noi.
Gesù entra a far parte della natura umana
Tutti noi abbiamo il nostro albero genealogico. Gesù ha voluto avere il suo. E in Maria, sua Madre, Dio stesso si inserisce nel percorso degli uomini, unendosi per sempre a noi. Si fa carico del bisogno di speranza dell’intera umanità, in tutte le epoche. Con l’incarnazione, Dio non rifiuta nulla di ciò che è umano, fa proprio il racconto di ogni persona per offrire a tutti un posto nella vita eterna. Il Creatore del Cielo e della terra ha voluto appartenere alla famiglia umana.
«Nella stalla di Betlemme il cielo e la terra si toccano […]. Il cielo non appartiene alla geografia dello spazio, ma alla geografia del cuore. E il cuore di Dio, nella Notte santa, si è chinato giù fin nella stalla: l’umiltà di Dio è il cielo. E se andiamo incontro a questa umiltà, allora tocchiamo il cielo. Allora diventa nuova anche la terra»[3]. Quante volte ci sembra che Dio non possa stare dove c’è debolezza, fragilità o mediocrità. Se non ci uniformiamo al peccato, ma abbiamo voglia di abbracciare i veri beni della vita, allora l’umiltà di Dio non rifiuta la stalla del nostro cuore, ma porta il cielo nella nostra vita ordinaria, nella nostra casa, in ogni istante.
Questa lunga lista di nomi ha suscitato, per molte generazioni, un’ansia che sarebbe stata soddisfatta soltanto dal neonato di Betlemme. Alcuni, probabilmente, non capirono bene che cosa aspettavano. Altri, con le loro idee confuse, cercarono idoli apparentemente più vicini e accessibili. Questa stessa ansia di salvezza è ancora oggi latente in tutte le persone, spesso senza che i protagonisti riescano a esprimerla a parole o a comprenderla con chiarezza. Noi abbiamo la fortuna di conoscere la buona notizia del Natale, aspettiamo Gesù, e ci piacerebbe che arrivasse fin nel cuore del più bisognoso dell’angolo estremo della terra.
Cristo ci arricchisce
«Ti benediciamo, Signore, Dio Altissimo, che ti sei spogliato del tuo rango per noi. Tu sei immenso e ti sei fatto piccolo; sei ricco e ti sei fatto povero; sei onnipotente e ti sei fatto debole»[4]. Alcune volte suole succedere che noi facciamo proprio il contrario del movimento divino: ci consideriamo grandi e potenti. Lo sapeva bene sant’Agostino: «Tu, uomo, hai voluto essere Dio e sei morto. Egli, Dio, ha voluto essere uomo e ti ha salvato. A tanto è arrivata la superbia umana che ha avuto bisogno dell’umiltà divina per guarire!»[5].
È Cristo che ci innalza sulle sue spalle fino al cielo. La superbia concede una gloria molto effimera; dura pochi minuti e subito incassa il suo prezzo. Immediatamente provoca agitazione e inquietudine. Ha continuamente bisogno di nuove motivazioni per dominare gli altri. Non dà mai pace né sazia. San Josemaría era consapevole di questa nostra debolezza: «Conosco un asinoin condizioni tanto cattive che, se fosse stato a Betlemme accanto al bue, invece di stare in adorazione, sottomesso, del Creatore, si sarebbe mangiata la paglia della mangiatoia…»[6].
L’amore di Dio, invece, è capace di riempire il nostro cuore come nessuno lo ha mai fatto. Se parliamo del suo affetto, resteremo sempre lontani dal vero. È molto più quello che non sappiamo del suo immenso amore che ciò che riusciamo a comprendere su di lui. Santa Maria che, come dice il prefazio della Messa di oggi, «lo attese con ineffabile amore di Madre», ci racconterà nell’intimità dell’orazione questi segreti che conosce di prima mano. Una madre sa sempre, con un gesto, con una carezza, spiegare quello che non si può a parole.
[1] Liturgia delle ore, antifona all’Invitatorio, 17 dicembre.
[2] Prefazio II dell’Avvento.
[3] Benedetto XVI, Omelia, 24-XII-2007.
[4] Papa Francesco, Omelia, 24-XII-2014.
[5] Sant’Agostino, Sermone 183.
[6] San Josemaría, Appunti intimi, n. 181 (25-III-1931).