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Meditare nel tempo dell'Avvento VI

La nostra Preghiera di preparazione

Autore: Autori Cristiani

L’umiltà e l’orgoglio

Fra pochi giorni ci inginocchieremo davanti al Bambino nel portico di Betlemme. Lì guarderemo, stupiti, la grandezza dell’amore di Dio in un neonato. L’Incarnazione ci mostra la strada per essere grandi, che in null’altro consiste che nel farci piccoli. San Paolo esprime bene l’umiltà di quel Figlio che, essendo Dio, «svuotò se stesso assumendo una condizione di servo» e «umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte» (Fil 2, 7-8). Questo è il segreto che nostro Signore ci mostra a ogni Natale. Il Verbo fatto carne ci fa vedere che il Signore dell’universo vince nell’umiltà. Proprio per essersi abbassato a tal punto «Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi» (Fil 2, 9-10).

Nella prima lettura troviamo una veemente esortazione del profeta Sofonia alla conversione. Accusa Gerusalemme di orgoglio e ribellione perché «non ha ascoltato la voce, non ha accettato la correzione. Non ha confidato nel Signore, non si è rivolta al suo Dio» (Sof 3, 2). Al contrario – afferma in un suo oracolo –, il popolo si vantava nella sua boriosità e si inorgogliva sul santo monte (cfr. Sof 3, 11). Questa stessa tentazione continua a essere ancora presente quando «il superbo tenta inutilmente di sbalzare dal suo trono Dio, misericordioso con tutti, e installarsi al suo posto»[1].

Per comunicare il suo amore di Padre, Dio aspetta che l’uomo liberamente si riconosca come una creatura bisognosa di aiuto. È molto gradita al Signore la richiesta della Orazione sulle offerte della Messa di oggi: «Ti siano gradite, Signore, le nostre umili offerte e preghiere; all’estrema povertà dei nostri meriti supplisca l’aiuto della tua misericordia»[2]. Abbiamo bisogno di supplicare spesso il Signore perché allontani da noi la tentazione della superbia, perché «se riesce a irretire qualcuno con le sue multiformi allucinazioni – osservava san Josemaría –, la persona soggiogata si riveste di apparenze, si riempie di vuoto, si gonfia come la rana della favola, piena di presunzione, fino a scoppiare»[3]. Com’è diverso l’atteggiamento di Dio che, venendo sulla terra, si fa Bambino fragile, bisognoso di ogni aiuto, incapace di contrapporsi con violenza agli altri, in modo da rendere amabile il cammino di tutti fino alla sua mangiatoia.

L’amore si dimostra nelle opere

«Io mi glorio nel Signore: i poveri ascoltino e si rallegrino. Magnificate con me il Signore, esaltiamo insieme il suo Nome» (Sal 34, 3-4). L’umiltà «ci aiuta a comprendere, ad un tempo, la nostra miseria e la nostra grandezza»[4]. San Josemaría si riferiva all’umiltà come divinizzazione buona della creatura che conosce l’amore che Dio ha depositato in essa. Il suo principale nemico è la divinizzazione cattiva, frutto della superbia: gloriarsi in se stessi anziché gloriarsi nel Signore.

Il cuore che sa di essere benedetto con tante grazie del cielo cerca di ricambiare generosamente il Signore, perché «l’amore con amor si paga»[5]. Non è possibile amare genericamente, né è amore quello che si accontenta soltanto delle buone intenzioni. L’amore si traduce in atti concreti che lasciano trasparire un po’ di ciò che succede nel cuore di chi ama. Un amore che non si esercita in attenzioni e in espressioni di affetto, si può spegnere un po’ per volta o rimanere piccolo, senza provare il vero godimento. «Al crepuscolo della vita saremo esaminati sull’amore», diceva san Giovanni della Croce, perché l’amore autentica il valore delle nostre opere.

Si potrebbe dire che l’amore ha due aspetti fondamentali: tende a dare più che a ricevere; cerca di manifestarsi più nelle opere che nelle parole. «Quando diciamo che è più nel dare che nel ricevere, è perché l’amore sempre si comunica, sempre comunica, e viene ricevuto dall’amato»[6]. E «quando diciamo che è più nelle opere che nelle parole» è perché «l’amore sempre dà vita, fa crescere»[7]. Un buon termometro per conoscere il nostro amore di Dio potrebbe essere domandarci come serviamo e cerchiamo di fare felici coloro che più ci stanno accanto; «chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1 Gv 4, 20). L’amore di Dio e l’amore per il prossimo sono inseparabili, sono come le due facce di una stessa moneta. «Non c’è strada più sicura per arrivare a Dio che l’amore per il prossimo»[8], affermava sant’Agostino, perché «l’amore per il prossimo è come il nido dell’amore di Dio»[9], cioè il luogo nel quale può aumentare.

La parabola dei due figli

Nel Vangelo di oggi Gesù ci racconta la storia di due figli (cfr. Mt 21, 28-32). Il padre chiede loro di andare a lavorare nella vigna di famiglia e i due fratelli hanno una reazione molto diversa. Il primo risponde con un accento ribelle e irrispettoso: “Non ne ho voglia”. Il secondo, apparentemente più obbediente, gli dice che andrà. Passato il primo impulso, il figlio del no ci ripensa, si pente, e va a lavorare nella vigna. Il figlio del sì, invece, non va a lavorare. Il primo, conclude Gesù, cade per debolezza, ma, stimolato dalla fede, si rialza e obbedisce al Padre. Il secondo, invece non è fedele alla sua promessa e rappresenta i capi del popolo che onorano Dio «con le labbra, mentre il loro cuore è lontano da me» (Is 29, 13; Mt 15, 8).

In questa parabola Gesù parla anche al nostro cuore. Sicuramente troviamo qualcosa del comportamento di ognuno di questi figli nella nostra vita. Quasi sempre le nostre disposizioni sono esemplari, ma per debolezza non riusciamo a portare avanti quanto di buono desideriamo fare. E non poche volte ci succede il contrario: dopo una prima reazione di ribellione, ci correggiamo e, con l’aiuto della grazia, abbracciamo amorevolmente la volontà di Dio. Entrambe queste disposizioni sono abitualmente presenti nella nostra lotta interiore e dobbiamo conoscerle da vicino per sapere come reagire momento per momento. Potremmo anche immaginare l’esistenza di un terzo figlio: quello che dice “sì, vado” e con le sue opere convalida sempre le sue parole. Questo figlio – fedele in ogni occasione – è, in realtà, Gesù Cristo, che ci invita a entrare nella sua disposizione di amore verso il Padre.

Oggi nella nostra orazione possiamo dire a Dio: come mi piacerebbe essere un figlio come Gesù! Un figlio che risponde con un sì! E se non lo siamo, sarà quello allora il momento di dire al Signore che abbia pazienza con noi. Cadere nello sconforto sarebbe una manifestazione di orgoglio, ci farebbe capire che stiamo riponendo la speranza in noi stessi e non in Dio. Ben conoscendo la propria debolezza, san Josemaría supplicava con semplicità: «Signore, Tu che hai curato tante anime, fa’ che, mentre ti porto nel mio cuore o ti contemplo nel Tabernacolo, ti riconosca come Medico divino[10]. Questa umile richiesta ci darà pace e, presi per mano da nostra Madre, ci metteremo nuovamente in piedi pieni di speranza.

[1] San Josemaría, Amici di Dio, n. 100.
[2] Orazione sulle offerte, martedì della III settimana di Avvento.
[3] San Josemaría, Amici di Dio, n. 100.
[4] Ibid., n. 94.
[5] Detto popolare.
[6] Papa Francesco, Omelia, 27-VI-2014.
[7] Ibid.
[8] Sant’Agostino, Intorno alle consuetudini della Chiesa cattolica, 1, 26, 48.
[9] Ibid., 1, 26, 5.
[10] San Josemaría, È Gesù che passa, n. 93.