Meditazioni per il Martedì della VI settimana del Tempo Ordinario
Autore: Autori Cristiani
– Guardarsi dal lievito di chi accusa gli altri
– Occhi e orecchi di misericordia
– Lo sguardo della filiazione divina
I discepoli salgono in barca con Cristo e rimane indietro l’incomprensione dei farisei. Forse il Signore si è imbarcato con qualche preoccupazione a causa della difficoltà che spesso presenta toccare il cuore dell’uomo. E probabilmente, mentre si sistema a prua tra reti e teli da usare per proteggersi da eventuali piogge, guarda la riva: molte persone che egli è venuto a salvare non hanno voluto aprirgli la loro anima.
«L’uomo è un essere relazionale. Se è disturbata la prima, la fondamentale relazione dell’uomo – la relazione con Dio – , allora non c’è più alcun’altra cosa che possa veramente essere in ordine. Di questa priorità si tratta nel messaggio e nell’operare di Gesù: Egli vuole, in primo luogo, richiamare l’attenzione dell’uomo al nocciolo del suo male»[1]. Il nostro compito è eminentemente spirituale; è volto a collaborare con la grazia nel sanare le profondità dell’anima – per prima la nostra –, in modo da poter offrire poi la stessa medicina santa alle persone che frequentiamo. Ecco perché Cristo richiama l’attenzione sull’atteggiamento dei farisei e di Erode. «Fate attenzione, guardatevi dal lievito dei farisei e dal lievito di Erode» (Mc 8, 15), dirà ai suoi apostoli appena si allontaneranno dalla riva.
Quelli si limitavano solamente alle cose esteriori, nel compimento dei precetti, e allora si erano abituati ad accusare gli altri. Ma «prima bisogna togliere la trave dal proprio occhio, accusare se stesso […]. Se uno di noi non ha la capacità di accusare se stesso e poi dire, se è necessario, a chi si devono dire le cose degli altri, non è cristiano, non entra in quest’opera tanto bella della riconciliazione, della pacificazione, della tenerezza, della bontà, del perdono, della magnanimità, della misericordia che ci ha portato Gesù Cristo […]. Risparmiamo i commenti sugli altri e facciamo commenti su noi stessi: questo è il primo passo nel cammino della magnanimità»[2].
Gesù guarda con affetto quegli uomini che egli stesso ha scelto. Dopo averli messi in guardia dal lievito dei farisei, chiede loro: «Perché discutete che non avete pane? Non capite ancora e non comprendete?» (Mc 8, 17). E loro si stringono nelle spalle, come per dire che no, che non riescono a seguire il filo. Cristo aggiunge: «Avete il cuore indurito? Avete occhi e non vedete, avete orecchi e non udite?» (Mc 8, 18).
Il Signore stabilisce una connessione tra il cuore, da un lato, e l’autentica capacità di guardare e di ascoltare, dall’altro lato. Quando il cuore s’indurisce, si vede tutto con occhi umani, si ascolta solamente quello che uno vuole sentire; e, alla fine, si perde la prospettiva soprannaturale della grazia. Può succedere che siamo con Cristo sulla sua barca, nel suo mondo, e che allo stesso modo ci invada lo scoraggiamento perché pensiamo che ci manchino cose o che tutto dovrebbe essere differente. Allora possiamo contemplare lo sguardo e l’ascolto di Gesù, possiamo considerare che il suo cuore era sempre pronto al dialogo con suo Padre e a sentirsi interpellato da chi gli sta attorno.
«Visione soprannaturale! Calma! Pace! – raccomandava san Josemaría –. Guarda così le cose, le persone e gli avvenimenti…, con sguardo d’eternità»[3]. Quando siamo assaliti dalla tentazione di diventare noi stessi giudici di tutto ciò che ci riguarda, possiamo ricordare che «siamo chiamati, rimanendo in terra, a fissare il cielo, ad orientare l’attenzione, il pensiero e il cuore verso l’ineffabile mistero di Dio. Siamo chiamati a guardare nella direzione della realtà divina, verso la quale l’uomo è orientato sin dalla creazione. Là è racchiuso il senso definitivo della nostra vita»[4]. Allora affineremo, un po’ per volta, una maniera misericordiosa di guardare e di ascoltare, sempre più simile a quella di Cristo.
Durante la vita verificheremo spesso le nostre limitazioni, anche nei momenti di maggiore vicinanza al Signore. «Stiamo sempre sereni. Se siamo devoti e sinceri non ci saranno sofferenze durevoli e scompariranno del tutto le altre che a volte ci inventiamo e che oggettivamente non sono tali. Vivremo felici e tranquilli, tra le braccia della Madre di Dio, come figli piccini, che è giusto quel che siamo. Di tanto in tanto, tutti hanno nel loro mondo interiore un conflitto da poco che la superbia si impegna a gonfiare, per farlo sembrare importante, per rubarci la pace. Non preoccupatevi delle sciocchezze. Dite: sono un peccatore che ama Cristo»[5].
Spesso il Signore previene i suoi discepoli perché non cadano in quella visione esclusivamente umana, sprovvista dell’autentica grandezza che raggiunge la sua missione salvifica. «Se ci mettiamo davanti a Dio la prospettiva cambia. Non possiamo che stupirci di essere per Lui, nonostante tutte le nostre debolezze e i nostri peccati, figli amati da sempre e per sempre»[6]. La filiazione divina «colma di speranza la nostra lotta interiore, dandoci la semplicità fiduciosa propria dei figli più piccoli. Più ancora: dal momento che siamo figli di Dio, questa realtà ci porta anche a contemplare con amore e ammirazione tutte le cose che sono uscite dalle mani di Dio, Padre e Creatore»[7].
I discepoli si preoccupano perché nella barca non hanno pane, ma Gesù ricorda loro che sono accanto a lui, che è in grado di moltiplicarli quando vuole. Noi possiamo chiedere a nostra Madre di migliorare sempre più il nostro sguardo per essere sempre più soprannaturali, per avere occhi e orecchi di figlio.
[1] Joseph Ratzinger – Benedetto XVI, L’infanzia di Gesù, Rizzoli – Libreria Editrice Vaticana, Milano, 2012, p. 55.
[2] Papa Francesco, Omelia, 11-IX-2015.
[3] San Josemaría, Forgia, n. 996.
[4] Benedetto XVI, Omelia, 28-V-2006.
[5] San Josemaría, Lettera 2, n. 15a.