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Meditazioni per la quinta settimana di Quaresima - Martedì

Il valore dei beni materiali

Autore: Autori Cristiani

DOPO AVER ATTRAVERSATO IL MAR ROSSO, il
popolo ebraico deve aver sperimentato una liberazione profonda.
L’agitazione delle acque che si abbattevano sui loro persecutori deve
essere stato accompagnata da un senso di liberazione: dopo tanti anni di
schiavitù, il loro Dio li aveva salvati. Ma il tempo cominciò a passare
più lentamente di quanto pensassero. La terra promessa sembrava sempre
più lontana, e alcuni ricordavano persino con nostalgia la loro vita da
schiavi. «Il popolo disse contro Dio e contro Mosè: Perché ci avete
fatti uscire dall’Egitto per farci morire in questo deserto?» (Nm 21, 5). La gioia della salvezza aveva lasciato il posto all’insoddisfazione e al risentimento.Anche
Gesù ha subito la prova del deserto. I quaranta giorni di Quaresima ci
invitano ad accompagnare il Signore nel suo apparente abbandono. Nel
momento della debolezza, Cristo non cedette alle tentazioni, ma mise la
sua fiducia in suo Padre Dio. Gesù ci ha insegnato non solo con le sue
parole, ma soprattutto con la sua stessa vita, che spesso abbiamo
bisogno di passare attraverso il deserto per raggiungere la piena
libertà. È vero che la vita cristiana ci promette la salvezza dal
peccato e quindi la gioia. Ma il percorso che ci porta ad essa è quello
di riscoprire ciò che conta veramente nella nostra vita e di liberarci
da ciò che ci tiene legati.«Il deserto è il luogo dell’essenziale.
Guardiamo le nostre vite: quante cose inutili ci circondano! Inseguiamo
mille cose che paiono necessarie e in realtà non lo sono. Quanto ci
farebbe bene liberarci di tante realtà superflue, per riscoprire quel
che conta, per ritrovare i volti di chi ci sta accanto!»[1].
Ora che la Settimana Santa si avvicina, possiamo riaccendere il nostro
desiderio di vivere vicino a Gesù, liberati da tutto ciò che non ci
porta a lui: «Dio mio, fa’ che io odii il peccato e mi unisca a Te,
abbracciandomi alla Santa Croce, per compiere anch’io la tua Volontà
amabilissima…, nudo da ogni affetto terreno, senza altre mire
all’infuori della tua gloria…, generosamente, senza riservarmi nulla,
offrendomi con Te in perfetto olocausto»[2].«ALLORA
IL SIGNORE – riporta la Sacra Scrittura – mandò fra il popolo serpenti
velenosi i quali mordevano la gente, e un gran numero d’Israeliti morì» (Nm
21, 6). Il popolo eletto aveva rifiutato la protezione di Dio. Stanchi
di non raggiungere mai la meta, avevano rivolto il loro cuore a quei
beni che desideravano dalla loro vita in Egitto, anche se erano di poco
valore o portavano le tracce della loro schiavitù.A
volte anche noi, come il popolo d’Israele, possiamo sentire l’apparente
lontananza di Dio e il richiamo dei beni che abbiamo lasciato. Ma quando
contempliamo la povertà di Cristo sulla croce – «Non è restato nulla al
Signore, eccetto un legno»[3]
– ci rendiamo conto che la felicità non si trova nelle cose materiali.
Ci rendiamo conto di quanto siano effimere queste realtà, che non
toccano le profondità dell’anima.«Chi ripone la sua
felicità unicamente nelle cose di quaggiù — sono stato testimone di vere
e proprie tragedie — ne perverte l’uso ragionevole e distrugge l’ordine
sapientemente disposto dal Creatore – dice san Josemaría –. Il cuore,
allora, si sente triste e insoddisfatto; si avvia per il sentiero di
un’eterna scontentezza»[4].«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli» (Mt
5, 3). Con queste parole, il Signore offre la felicità, in terra e in
cielo, a coloro che ripongono la loro sicurezza e la loro ricchezza in
Dio. I poveri di cuore possiedono le cose senza essere posseduti da
esse. La povertà di spirito ci permette di godere veramente della
realtà, perché ci collega con il semplice, con le persone, con Dio. In
breve, con tutto ciò che soddisfa i nostri desideri più profondi.QUEI
MORSI DI SERPENTE non furono la risposta finale del Signore. Il popolo
si pentì e andò da Mosè che, fedele alla sua vocazione di mediatore,
intercedette per il suo popolo. Allora Dio, mosso dalla sua
misericordia, diede loro una medicina particolare: chi, dopo essere
stato morso, guardava verso un serpente di bronzo, non sarebbe morto.
Così, ciò che era stata la causa della morte divenne il simbolo della
salvezza. Il serpente è dunque un’immagine che anticipa la croce di
Cristo: contiene tutti i peccati del mondo e, allo stesso tempo, colui
che li ha vinti per sempre con la sua morte.«Quando
avrete innalzato il Figlio dell’uomo – dice Gesù nel Vangelo di san
Giovanni -, allora conoscerete che “Io Sono” e che non faccio nulla da
me stesso, ma parlo come il Padre mi ha insegnato» (Gv 8, 28).
Se non conoscessimo la fine della storia, penseremmo che l’innalzamento
di cui parla il Signore si riferisce a una futura gloria temporale. Non è
facile capire che la sua vera esaltazione è avvenuta sulla croce, e che
il conficcarsi dei chiodi nelle carni è il suo modo di vivere la
libertà. Quindi, guardando e facendo nostra la debolezza di Cristo,
acquisiamo la forza di Dio. Anche noi possiamo vivere queste parole
paradossali di san Paolo: «Ed egli mi ha detto: “Ti basta la mia grazia;
la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”. Mi vanterò
quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la
potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli
oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte
per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte» (2 Cor 12, 9-10).Ai
piedi della croce troviamo la Madonna. Possiamo chiederle di dirigere
sempre il nostro sguardo verso la croce, affinché Cristo scacci i
serpenti che possono annidarsi nella nostra vita.

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