Mettere Cristo al vertice del proprio lavoro
Lavorare bene, lavorare per amore: cap XVII
Autore: Javier López Díaz
«Questa è stata la mia costante predicazione fin dal 1928: urge cristianizzare la società», afferma san Josemaría in una omelia; e poco più avanti indica in che modo ciò si può ottenere: «elevare all’ordine della grazia il dovere quotidiano, la propria professione, il proprio mestiere». Si tratta, in altre parole, di santificare il lavoro. «Grazie al lavoro – scrive –, il cristiano soggioga la creazione (cfr. Gn 1, 28) e la ordina a Cristo Gesù, centro nel quale sono destinate a ricapitolarsi tutte le cose». A questo punto si apre una prospettiva affascinante, la cui origine si trova in un fatto storico che è necessario ricordare per capire la portata del messaggio.
Il 7 agosto 1931 è stata una data memorabile per san Josemaría. Molte volte ricorderà che quel giorno il Signore gli fece vedere con una chiarezza inusitata una caratteristica dello spirito che andava trasmettendo dal 1928. Comprese allora che Cristo regnerà nel mondo se ogni cristiano lo metterà nella profondità e al vertice della propria attività professionale, santificando il proprio lavoro. In tal modo Egli attirerà tutti gli uomini e tutte le cose a sé, e il suo Regno sarà una realtà, perché l’intera società – le persone, le istituzioni e i costumi –, edificata con la trama delle diverse professioni, giungerà a essere configurata cristianamente.
A partire da quel momento questo messaggio restò impresso nella sua anima perché comprese con un significato nuovo le parole del Signore raccolte in Gv 12, 32 (secondo la Vulgata, allora in uso nella liturgia): et ego, si exaltatus fuero a terra, omnia traham ad meipsum: io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me. Ed ecco uno dei brani in cui si riferisce a quel momento: «Quando un giorno, nella quiete di una chiesa madrilena, io mi sentivo un nulla! – non poca cosa, perché “poca cosa” sarebbe stato ancora qualcosa –, pensavo: tu vuoi, Signore, che io faccia tutta questa meraviglia? […]. E là, nel profondo dell’anima, ho compreso con un significato nuovo, pieno, le parole della Scrittura: et ego, si exaltatus fuero a terra, omnia traham ad meipsum (Gv 12, 32). L’ho compreso perfettamente. Il Signore ci diceva: se voi mi mettete nella profondità di tutte le attività della terra, compiendo il dovere di ogni momento, essendo miei testimoni in ciò che sembra grande e in ciò che sembra piccolo…, allora omnia traham ad meipsum! Il mio regno tra voi sarà una realtà!».
I biografi di san Josemaría narrano la profonda commozione che provò la sua anima nel ricevere questa luce. Le parole di Gv 12, 32, oggi scolpite ai piedi della sua statua, inserita nel muro esterno della basilica di San Pietro, e benedetta da Benedetto XVI il 14 settembre 2005, ricordano l’importanza di questo avvenimento per la vita della Chiesa.
In un altro documento – lo scrive egli stesso, ma in terza persona – spiega il significato che aveva scoperto in questo passo del Vangelo: «[Quel sacerdote] comprese chiaramente che, con il lavoro ordinario in tutte le attività del mondo, era necessario riconciliare la terra con Dio, in modo che ciò che è profano – pur essendo profano – si trasformasse in sacro, in consacrato a Dio, fine ultimo di tutte le cose» . Trasformare ciò che è profano in sacro “pur essendo profano”, significa che un’attività professionale – la medicina, l’edilizia, l’attività alberghiera, ecc. –, senza cambiarne la natura e la funzione nella società, con la sua autonomia e le leggi che le sono proprie, si può trasformare in preghiera, in dialogo con Dio e così si santifica: si purifica e si eleva. Perciò san Josemaría afferma che «a rigore, non si può dire che vi siano realtà profane, una volta che il Verbo di Dio si è degnato di assumere una natura umana integra e di consacrare il mondo con la sua presenza e con il lavoro delle sue mani, perché è stato un disegno del Padre riconciliare a sé, rappacificandole con il sangue della sua croce, tutte le cose, sia quelle della terra sia quelle del
cielo (cfr. Col 1, 20)».
Quando dice che bisogna mettere il Signore “nella profondità” delle attività umane, afferma che questa trasformazione da profano in santo avviene nel più intimo dell’attività. Infatti, l’essenza di tale trasformazione è la carità, l’amore soprannaturale, che modella e vivifica interamente ciò che si fa: «Se noi uomini ci decidessimo a ospitare nel nostro cuore l’amore di Dio! Cristo, nostro Signore, fu crocifisso e dall’alto della Croce ha redento il mondo, ristabilendo la pace tra Dio e gli uomini. Gesù stesso ricorda a tutti: Et ego, si exaltatus fuero a terra, omnia traham ad meipsum (Gv 12, 32)».
Varie volte, invece di dire “nella profondità”, san Josemaría scrive “al vertice” o “in cima” alle attività umane: «Quando mi collocherete al vertice di tutte le attività della terra, compiendo il dovere di ogni momento ed essendo miei testimoni nelle cose grandi e piccole, allora omnia traham ad meipsum, attrarrò tutto a me, e il mio regno in mezzo a voi sarà una realtà».
“Al vertice” equivale a “nella profondità”, perché dire che l’amore di Cristo vivifica un’attività dalla sua profondità è lo stesso che dire che la presiede dal suo vertice. Però l’espressione “al vertice” o “in cima” aggiunge dell’altro: indica che in questa attività deve essere possibile vedere Cristo, perché «non può restare nascosta una città collocata sopra un monte, né si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli» (Mt 5, 14-16). Pertanto, affermare che il cristiano deve mettere Cristo in cima al proprio lavoro significa che l’amore con il quale lo compie si deve manifestare nel rapporto con gli altri, nella disposizione di donazione e di servizio.
Con naturalezza, la carità di Cristo nella condotta dei suoi discepoli deve essere evidente, insieme con e nella competenza professionale. «Ogni cristiano deve rendere presente Cristo fra gli uomini; deve agire in modo tale che quelli che lo avvicinano riconoscano il bonus odor Christi (cfr. 2 Cor 2, 15), il profumo di Cristo; deve comportarsi in modo che nelle azioni del discepolo si scorga il volto del Maestro».
L’espressione “mettere Cristo al vertice delle attività umane” ha anche un altro significato, conseguenza di quello precedente. Chi fa il suo lavoro per amore di Cristo e perché gli uomini, nel constatarlo, glorifichino Dio, deve sforzarsi di compierlo il meglio possibile anche umanamente, con la maggior perfezione di cui è capace. Così mette Cristo in cima al proprio lavoro. Questo non significa che debba essere il migliore in quel tipo di lavoro, ma che si sia sforzato di portarla a termine con la maggior competenza umana che possa acquisire e mettendo in campo le virtù cristiane impregnate di amore di Dio. Mettere il Signore al vertice del proprio lavoro non deve
essere interpretato come un successo terreno: è qualcosa alla portata di tutti, e non soltanto di alcuni particolarmente dotati; è una esigenza personale: ognuno deve mettere Cristo al vertice della propria attività, anche se umanamente non comporti una eccellenza.
Comunque, il significato più profondo di questo “mettere Cristo al vertice delle attività umane” è quello di unire il lavoro e tutte le attività alla Santa Messa, vertice della vita della Chiesa e del cristiano . A questo punto i significati precedenti convergono, perché unire il lavoro al Sacrificio di Cristo richiede che lo si compia per amore e con la più grande perfezione umana possibile.
Allora il lavoro diventa un atto di culto a Dio: si santifica attraverso la sua unione con il Sacrificio dell’Altare, rinnovamento o attualizzazione sacramentale del Sacrificio del Calvario, «diventa opera di Dio, operatio Dei, opus Dei». Il significato tradizionale dell’espressione “opus Dei”, che indica l’ufficio liturgico, nelle parole di san Josemaría si estende al lavoro e a tutte le attività. Ciò richiede al cristiano che durante la sua giornata sia “anima di Eucaristia”, perché soltanto così Cristo starà al vertice della sua attività. «Chiediamo allora al Signore che ci conceda di essere anime di Eucaristia […]. È così che agevoleremo agli altri il compito di riconoscere
Cristo e daremo il nostro contributo per collocarlo al vertice di tutte le attività umane. Avrà compimento la promessa di Gesù: Io, quando sarò innalzato da terra, attirerò a me tutte le cose».
L’Eucaristia edifica la Chiesa perché riunisce in un solo Corpo coloro che vi partecipano: «Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane» (1 Cor 10, 17). L’Eucaristia «è il compimento della promessa del primo giorno della grande settimana di Gesù: Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me (Gv 12,32)»419. Si riesce a intravedere, allora, il profondo significato che ha in sé il fatto che la luce ricevuta da san Josemaría su questo testo gli arrivi proprio «mentre elevava l’Ostia»: al momento della consacrazione, nella Santa Messa. Quando il cristiano unisce il proprio lavoro al Sacrificio
dell’altare, quel lavoro santificato edifica la Chiesa perché rende presente la forza unificatrice dell’Eucaristia: l’azione di Cristo che attraverso lo Spirito Santo attira tutti gli uomini e tutte le cose a sé.
Il cammino che Dio ha voluto mostrare a san Josemaría perché Cristo regni in questo mondo, è quello in cui ognuno deve procurare di santificare il proprio lavoro mettendovi la Croce di Cristo, vale a dire, unendolo al Sacrificio del Calvario che si attualizza nella Eucaristia, in modo che così diventi fermento di vita cristiana in mezzo al mondo. Un modo poco vistoso di contribuire al regno di Cristo, ma portatore di tutta l’efficacia della promessa divina: «Se voi mi ponete nelle profondità di tutte le attività della terra […] omnia traham ad meipsum! Il mio regno tra voi sarà una realtà».
Porre Cristo al vertice di “tutte le attività umane” affinché Egli regni, non significa che il suo regno sarà il risultato dell’efficacia umana di un gran numero di cristiani che operano in tutte le professioni. È il Signore che attirerà a sé tutte le cose se un pugno di cristiani fedeli, uomini e donne, faranno in modo di essere autenticamente santi, ciascuno nel posto che occupa nel mondo.
Non è una questione di proporzioni umane. Ciò che comprese san Josemaría è che a noi cristiani viene chiesto di porre Cristo nel profondo della nostra attività, magari di ben scarso rilievo sociale, e che, se lo facciamo, Egli attirerà tutte le cose a sé: non soltanto quelle che sono dovute al nostro limitato lavoro, ma tutte e in tutto il mondo. «Era chiaro che quelle parole di san Giovanni – et ego, si exaltatus fuero a terra, omnia traham ad meipsum (Gv 12, 32) –, dobbiamo intenderle nel senso che le eleveremo, come il Signore, al vertice di tutte le attività umane: che Egli avrebbe attirato ogni cosa a sé, nel suo regno spirituale di amore».
Come volere che Cristo regni nella propria vita significa anche cercare la perfezione umana – mediante la pratica delle virtù modellate dalla carità –, così anche volere che Cristo regni nella società vuol dire cercare il proprio perfezionamento: il bene comune temporale, del quale fa parte il progresso. In realtà non si tratta di un semplice parallelismo tra il bene della persona e quello della società, come se la ricerca dell’uno potesse essere indipendente dall’altro. Ciò che chiamiamo
bene comune della società è il bene delle persone che la costituiscono. A sua volta, il bene delle persone contribuisce al bene comune della società, purché quest’ultimo s’intenda in modo integrale. Le condizioni della vita sociale che si tenta di migliorare non si riducono allo sviluppo economico e al benessere materiale, anche se certamente li includono. Sono anche e ancor prima – in senso qualitativo, non in quello di urgenza temporale, nel quale a volte possono essere preferiti gli aspetti materiali – la libertà, la giustizia, la moralità, la pace, la cultura: tutto ciò che riguarda in primo luogo la dignità della persona umana.
La sensibilità di san Josemaría verso questo tema è particolarmente acuta: «Si comprende benissimo l’impazienza, l’ansia, i desideri inquieti di coloro che, con un’anima naturalmente cristiana (cfr. Tertulliano, Apologeticum, 17), non si rassegnano di fronte all’ingiustizia personale e sociale che il cuore umano è capace di creare. Sono tanti i secoli della convivenza degli uomini, e tanto è ancora l’odio, tante le distruzioni, tanto il fanatismo accumulato in occhi che non vogliono
vedere e in cuori che non vogliono amare. Vediamo i beni della terra divisi tra pochi e i beni della cultura chiusi in cenacoli ristretti. Fuori, c’è fame di pane e di dottrina; e le vite umane, che sono sante perché vengono da Dio, sono trattate come cose, come numeri statistici. Comprendo e condivido questa impazienza: essa mi spinge a guardare a Cristo che continua a invitarci a mettere in pratica il comandamento nuovo dell’amore».
«Il progresso rettamente ordinato è cosa buona, e Dio lo vuole». La ricerca del progresso temporale in ordine al regno di Cristo fa parte integrante della santificazione del lavoro professionale.
Lo è perché la santificazione del lavoro comporta l’elevazione della stessa realtà umana del lavoro all’ordine della santità. «Umanamente, il lavoro è sorgente di progresso, di civiltà e di benessere». Per sua natura il lavoro professionale è «lo strumento indispensabile per il progresso della società e un più equo assetto dei rapporti fra gli uomini». Chi vuole santificare il proprio lavoro non può eludere questa realtà. Dovrà necessariamente aspirare al progresso temporale per ordinarlo a Dio. «È inammissibile pensare che per poter essere cristiani sia necessario voltare le spalle al mondo, guardare con pessimismo la natura umana».
Il progresso non è, tuttavia, il fine ultimo soprannaturale, né un suo anticipo, perché nessun bene terreno può essere in se stesso una fase iniziale dei beni soprannaturali. Con ciò non vogliamo togliere importanza al progresso umano, ma solamente vogliamo evitare di divinizzarlo. Cercarlo è un fine subordinato alla ricerca della santità, al fine ultimo soprannaturale. «Ha voluto il Signore che, con la nostra vocazione, manifestiamo quella visione ottimista della creazione, quell’amore
per il mondo che è latente nel cristianesimo. Non deve mancare mai, né nel vostro lavoro né nel vostro impegno personale, l’aspirazione a costruire la città temporale. Nello stesso tempo, però, come discepoli di Cristo che hanno crocifisso la carne e le relative passioni e concupiscenze (cfr. Gal 5, 24), vi impegnerete a mantenere vivo il senso del peccato e della riparazione generosa, a fronte dei falsi ottimismi di coloro che, nemici della croce di Cristo (cfr. Fil 3, 18), valutano ogni cosa in base al progresso e alle energie umane».