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Vestire gli ignudi , visitare i carcerati, dare ospitalita'

Misericordia nella vita quotidiana (II)

Autore: Mons. Javier Echevarría Rodríguez

Rifletteremo su due opere di misericordia materiali, che riguardano diversi tipi di povertà: quella di chi non ha un vestito e quella di chi è privo della libertà.

Vestire gli ignudi non vuol dire soltanto proteggere il corpo dalle intemperie; invita anche ad aiutare una persona a conservare la propria dignità. Il vestito rende possibile, a ogni uomo e a ogni donna, di presentarsi convenientemente agli altri e spesso riflette una eleganza interiore cristiana. Nel meditare la Passione del Signore, salta agli occhi che Cristo soffre per le ingiustizie degli uomini. Nessuno, salvo sua Madre e poche altre persone, gli rivolge un gesto di misericordia nelle ore della crocifissione. Lo privarono anche dei vestiti, che furono sorteggiati tra i soldati. Quando Gesù ci ha invitati a vestire l’ignudo, sapeva che neppure questo gesto di misericordia sarebbe stato concesso a Lui personalmente. La nudità di Cristo sulla Croce è immagine della mancanza di misericordia da parte di noi uomini; della nostra mancanza di amore, della fragilità causata dalle nostre offese e dal nostro egoismo. Ciò che i nostri antenati non fecero sul Golgota, noi ora possiamo in qualche modo assolverlo nei confronti degli uomini nostri fratelli. Anche nelle società opulente non sono pochi coloro che non dispongono di mezzi materiali per rifornirsi di indumenti decorosi, e neppure per vestirsi decentemente. Questo Giubileo ci offre un’altra occasione per “aprire gli occhi alle miserie del mondo” e scoprire, anche nell’ambiente in cui viviamo, le persone bisognose di aiuto. Esistono, o si possono avviare, istituzioni di carità con le quali è possibile contribuire in diversi modi – con il nostro tempo o con il nostro denaro – a procurare indumenti decenti a chi ne ha bisogno. Nello stesso tempo, in una società che ha fatto della moda un peso che certe volte riduce in schiavitù, potrebbe essere questa l’occasione per destinare un po’ di denaro a opere di carità, risparmiandolo sugli acquisti originati dal capriccio e avendo più cura dei nostri vestiti.

Possiamo anche sforzarci di dare l’esempio mostrando un aspetto esteriore semplice e decente. Eserciteremo quest’opera di misericordia anche se aiutiamo – con carità, rispetto e pazienza – coloro che, poveri di ideali o di formazione, calpestano la propria dignità nel modo di vestire. Suggerire di non seguire certe mode di cattivo o di dubbio gusto è un compito educativo di particolare importanza dei padri e delle madri nei confronti di figli e figlie, e di qualunque persona verso i propri amici e le proprie amiche. Ognuno di noi è figlio o figlia di Dio, e anche il modo di vestire dev’essere una testimonianza della propria dignità. Dobbiamo far vedere che i vestiti, gli abiti, coprono un corpo informato dall’anima spirituale – la cosa più importante –, che è destinato alla risurrezione gloriosa. Un’altra evidente opera di misericordia è andare a visitare i carcerati. Guardiamo ancora una volta Cristo: il Signore della terra è stato imprigionato la notte precedente alla crocifissione. Quanto amare sono state quelle ore per Gesù! Lo avevano privato della libertà mettendolo in carcere, mentre aspettava un giudizio e una condanna del tutto ingiusti e iniqui. Paradossalmente, con un atto di completa libertà, quel Prigioniero, con la maiuscola – disprezzato da tutti –, ci stava liberando dal peccato e non disdegnava questo mettersi al nostro servizio perché è il Figlio di Dio, fratello di tutti gli uomini e di tutte le donne. Chi viene privato della libertà ha bisogno di essere confortato nella speranza. Per questo, in numerose occasioni, i Papi – fra cui anche Papa Francesco – sono andati a visitare i carcerati e hanno rivolto loro parole di incoraggiamento, invitandoli a utilizzare questo periodo della loro vita per aprirsi a Dio. «Quando Gesù entra nella sua vita – ha detto Papa Francesco in un carcere della Bolivia – uno non rimane prigioniero del suo passato, ma comincia a guardare il presente in un altro modo, con un’altra speranza. Uno comincia a guardare con altri occhi la propria persona, la propria realtà. Non rimane ancorato a ciò che è successo, ma è capace di piangere e di trovare lì la forza per ricominciare daccapo».

Visitare i carcerati, o aiutarli a reinserirsi nella società, significa servire coloro che sono stati messi da parte dalla società. Che magnifico lavoro possono svolgere coloro che lavorano o collaborano in questa attività! In modo particolare se assistono quanti si trovano in carcere per motivi religiosi, cosa oggi molto frequente. Pensiamo anche a coloro che sono reclusi non in carceri di cemento, ma dietro le sbarre di ogni tipo: quelle originate dall’alcool, dalla pornografia, dalla droga o da altri vizi che incatenano l’anima e fanno sprofondare nell’abisso. Portiamo a tutte queste persone la nostra vicinanza, la nostra comprensione, i nostri consigli e, al di sopra di tutto, la nostra preghiera. Ricordiamo loro che Dio non permette che nessuno cada dalle sue mani, che non abbandona nessuno dei suoi figli. A tutti offre nuove opportunità, sempre, fino all’ultimo istante dei nostri giorni. Negli anni ’30 del secolo scorso, san Josemaría andò qualche volta nel carcere di Madrid. Vi si trovavano, esclusivamente per motivi politici, alcuni giovani che egli assisteva spiritualmente. Rivestito dell’abito talare, in un periodo in cui i sacerdoti venivano aggrediti, li aiutava a pregare e li incoraggiava a utilizzare il tempo studiando lingue estere o ripassando il catechismo. Inoltre, in questo esercizio della carità, li invitava a giocare a calcio con i detenuti di idee opposte e anticristiane, in modo che, dall’amicizia generata dallo sport, potesse sorgere almeno un rispetto reciproco.

San Josemaría sapeva che le carceri, materiali o morali, possono essere anche luoghi di incontro con Cristo, luoghi di profonda conversione. Per questo raccomandava ai fedeli della Prelatura di non smettere mai di occuparsi di questa attività con un senso cristiano e di fraternità. Se noi cristiani portiamo in questi luoghi il balsamo della misericordia di Dio, molti detenuti potranno sperimentare la vera liberazione: la consapevolezza di essere figli di Dio, e dunque amati incondizionatamente e protetti anche dalla Madonna, nostra Madre. Ero forestiero e mi avete ospitato . Coloro che hanno ascoltato dalla bocca di Cristo queste parole conoscevano bene i pericoli che incombevano su quanti si avventuravano per le strade: ladri, bestie selvatiche, guai atmosferici e altri rischi. Anche Maria e Giuseppe, quando Gesù era venuto al mondo, avevano provato i problemi cui vanno incontro i viandanti. Una dopo l’altra si erano chiuse per loro le porte di Betlemme. Soltanto una stalla aveva accolto Dio alla nascita. Dopo qualche tempo, la Sacra Famiglia, perseguitata dal re Erode, fu costretta all’esilio in un paese straniero, senza poter portare quasi nulla con sé, data la fretta di mettersi in cammino. Il Santo Padre ha detto che “la predicazione di Gesù ci presenta le opere di misericordia perché possiamo verificare se viviamo o no come suoi discepoli”. Pertanto, è il caso di chiedere a Dio nella nostra preghiera: Perché, Signore, ci inviti a dare ospitalità al pellegrino? Che cosa ci vuoi insegnare? Dare ospitalità al pellegrino vuol dire accogliere l’estraneo, vuol dire fare spazio nel nostro mondo sicuro e stabile a chi ha bisogno di aiuto; vuol dire offrire una protezione a chi si vede minacciato, mettendo in gioco per loro anche la nostra comodità, condividendo il nostro benessere e, dunque, perdendo un poco della nostra tranquillità personale, ma sperimentando la gioia di farlo. In questi ultimi mesi vediamo ogni giorno, con dolore, migliaia di persone che mettono a repentaglio e consumano la loro vita per ottenere una esistenza più degna in un paese o in un continente diverso dal proprio.

Non è un fenomeno nuovo, ma recentemente le disuguaglianze sociali e le guerre hanno raggiunto livelli tali che né il mare né altri limiti naturali hanno potuto trattenere questo flusso migratorio. Il forestiero non è più una figura lontana, ma è sempre più presente nelle vie delle nostre città. Il Papa ha fatto notare che, se guardiamo con indifferenza il doloroso viaggio di queste famiglie vuol dire che “abbiamo perduto il senso della responsabilità fraterna”. Società che per secoli si sono sviluppate al calore del cristianesimo, affrontano ora questa sfida gigantesca. Perciò mi permetto di dire che avremo la capacità di accogliere coloro che si vedono costretti a emigrare soltanto se ci cimentiamo ogni giorno nella carità di Cristo. Questa misericordia – che tante volte li ha consolati nelle loro terre d’origine, ad opera dei missionari, dei religiosi e delle religiose, e di tanti uomini e donne di fede verso i quali dobbiamo essere molto grati –, ispirerà ora la creatività di molte persone. Sarà necessario svolgere iniziative di diverso tipo per distribuire fra tutti il benessere indispensabile, i posti di lavoro, le case, l’educazione… Comprendiamo bene che non è soltanto un problema economico, ma soprattutto morale, perché quando un fratello reclama giustizia, il cristiano deve rispondere anche con la carità. Nel Vangelo ci viene mostrato che il Signore, mentre predicava in Giudea e in Galilea, godette dell’ospitalità di molti suoi amici. E Gesù trasformava la vita di tutti coloro che gli aprivano le porte delle loro case: Marta, Maria e Lazzaro godettero così dell’amicizia del Redentore; Simone il fariseo imparò il valore del perdono; Zaccheo abbandonò la sua vita da egoista… Ora, ai giorni nostri, Cristo, nelle vesti di emigrante o di derelitto, cerca ancora amici che lo accolgano.

Tu e io possiamo ospitare il Signore nelle nostre anime ogni giorno, quando lo riceviamo nella santa Eucaristia. Sorelle e fratelli miei, amici e amiche, riflettiamo: Quale ospitalità offriamo al Redentore? Prepariamo bene il cuore come i personaggi del Vangelo predisponevano le loro case prima dell’arrivo del Maestro? Quali attenzioni affettuose riserviamo al divino Ospite? Se parliamo dell’Eucaristia, non ci allontaniamo dal tema della misericordia, perché solamente un cuore che sa trattare Cristo e si sforza di amarlo sempre di più, sarà capace di accogliere il fratello che ha bisogno di aiuto, di lavoro o semplicemente di un’attenzione particolare. Se curiamo la Comunione, il Signore ci farà diventare più generosi, più sensibili alla sofferenza altrui, più disponibili a offrire i nostri mezzi materiali, il nostro tempo o le nostre possibilità agli indigenti. Anche san Josemaría dovette sottostare alla prova di chi è costretto a fuggire e a cercare un rifugio. A causa della persecuzione religiosa che si produsse in Spagna a partire dal 1936, dovette rifugiarsi per lunghi periodi di tempo in diversi luoghi di Madrid, in soffitte e in stanzini angusti, in luoghi scomodi e strani. Quando sapeva che le persone che lo avevano accolto non lo avrebbero denunciato, rivelava loro la sua condizione di sacerdote e – senza tema di mettere in pericolo la propria vita – offriva loro la possibilità di partecipare ai sacramenti, alla Confessione o all’Eucaristia, un vero sollievo in quei mesi difficili. In questo modo, tra l’odio e la paura che caratterizzano ogni conflitto, Cristo si faceva strada ancora una volta nel cuore di quelle persone. Prima di terminare questo dialogo con voi, chiediamo alla Madonna e a san Giuseppe, pellegrini a Betlemme ed emigranti in Egitto, di insegnarci ad aprire la porta della nostra vita a quel Cristo che ci sta chiedendo di essere generosi verso coloro che hanno bisogno di essere accolti.

 

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