Non si ragiona, si guarda!
L’orazione contemplativa - Conoscerlo e conoscerti
Autore: Andrés Cárdenas Matute
Cerchiamo di pensare quale sia oggi la terza città più importante del mondo, dal punto di vista politico ed economico; ebbene, proprio questo era Antiochia nei primi secoli, quando era la capitale di una provincia romana. Sappiamo che vi fu coniato il termine «cristiani» (cfr. At 11, 26) per i seguaci di Gesù. Il suo terzo vescovo fu sant’Ignazio, il quale, condannato a morte durante il regno di Traiano, fu portato via terra fino alla costa di Seleucia – l’attuale zona sud della Turchia – e, poi, trasferito via mare fino a Roma.
Durante il viaggio la nave fece scalo in vari porti. In ogni luogo egli riceveva i cristiani della zona e ne approfittava per inviare lettere alle comunità dei seguaci di Gesù: «Scrivo a tutte le chiese e faccio sapere a tutti che per mio libero arbitrio muoio per Dio».Il vescovo sant’Ignazio sapeva perfettamente che le belve dell’Anfiteatro Flavio – il Colosseo – avrebbero determinato la sua fine qui sulla terra, per cui chiedeva incessantemente preghiere per avere il coraggio necessario. Però in diversi passaggi delle sue lettere avvertiamo traccia della profondità della sua anima, del suo desiderio di unirsi definitivamente a Dio: «Non c’è in me alcun fuoco di aneliti materiali, ma soltanto acqua viva che parla in me dicendomi: Vieni al Padre».
Una pianta con le radici in cielo
Quel sussurro interiore di sant’Ignazio di Antiochia – Vieni al Padre! –, che probabilmente ispirava la sua vita di pietà e la sua vita sacramentale, è in realtà una maturazione soprannaturale del desiderio naturale che tutti noi abbiamo di unirci a Dio. Già i filosofi greci dell’antichità avevano identificato nel più intimo del nostro essere una nostalgia per tutto ciò che è divino, una nostalgia della nostra vera patria, «come se fossimo una pianta non terrestre, ma celeste».
Anche Benedetto XVI, nella prima udienza della sua catechesi sull’orazione, ha voluto rivolgere uno sguardo indietro, all’Antico Egitto, alla Mesopotamia, ai filosofi e ai drammaturghi greci e agli scrittori romani; tutte le culture del passato sono una testimonianza del desiderio di Dio: «L’uomo “digitale” come quello delle caverne, cerca nell’esperienza religiosa le vie per superare la sua finitezza e per assicurare la sua precaria avventura terrena […]. L’uomo porta in sé una sete di infinito, una nostalgia di eternità, una ricerca di bellezza, un desiderio di amore, un bisogno di luce e di verità, che lo spingono verso l’Assoluto».
Si suol dire che uno dei problemi più comuni di questa precaria avventura terrena della nostra epoca sia la frammentazione interiore, anche a volte prodotta inconsciamente: constatiamo un contrasto tra ciò che vogliamo e ciò che facciamo, vediamo in noi degli aspetti che non si armonizzano tra di loro, non costruiamo la vicenda della nostra vita come un filo continuo con il nostro passato e il nostro futuro, non vediamo come possano andare d’accordo molte idee che abbiamo man mano acquisito o i sentimenti che proviamo… Qua e là forse moltiplichiamo le versioni di noi stessi.
Certe volte non riusciamo neppure a concentrare la nostra attenzione esclusivamente in una sola attività. In tutti questi ambiti vorremmo riscontrare una unità, che però a quanto pare non possiamo fabbricare come tante altre cose. «Non è forse un segno dei tempi che si registri oggi, nel mondo, nonostante gli ampi processi di secolarizzazione, una diffusa esigenza di spiritualità, che in gran parte si esprime proprio in un rinnovato bisogno di preghiera?»[5], si domandava san Giovanni Paolo II all’inizio di questo millennio. In verità notiamo che nascono molte iniziative, presenziali o attraverso Internet, dirette a valorizzare la nostra capacità di silenzio esteriore e interiore, di ascolto, di concentrazione, di armonia tra il nostro corpo e il nostro spirito. Tutto questo, logicamente, può darci una certa tranquillità naturale.
Però l’orazione cristiana ci dà una tranquillità che non è semplicemente un equilibrio transitorio, ma è frutto di una percezione unitaria della vita che nasce dalla relazione intima con Dio; l’orazione cristiana, essendo un dono, fa crescere in noi una nuova visione della realtà che unisce ogni cosa in lui. «È un atteggiamento interiore, prima che una serie di pratiche e formule, un modo di essere di fronte a Dio prima che il compiere atti di culto o il pronunciare parole»[6]. Naturalmente, questa disposizione interiore, questo modo di stare di fronte al Signore, non nasce dalla sera alla mattina, né arriva senza che prima ci siamo disposti adeguatamente perché Dio ce la possa concedere: è dono, ma è anche compito.
Gli occhi di un’anima che pensa all’eternità
In un determinato momento dell’omelia Verso la santità, pronunciata alla fine del 1967, san Josemaría descrive brevemente l’itinerario di una vita di orazione[7]. Si comincia a pregare – ci dice – con preghiere semplici, brevi, magari imparate nell’infanzia; poi si fa strada l’amicizia con Gesù; impariamo a “introdurci” nella sua passione, morte e risurrezione, e vogliamo far nostra la sua dottrina; successivamente il cuore sente il bisogno di distinguere e di entrare in rapporto con le tre persone divine, finché un po’ per volta questo non riempie la sua giornata. Ed è a questo punto che il fondatore dell’Opus Dei descrive la tappa che riguarda la vita contemplativa: arriva il momento in cui «ci lasciamo portare da questa corrente generosa e chiara di fresche acque che zampillano nella vita eterna. Le parole vengono meno, la lingua non riesce ad esprimersi; anche l’intelletto si acquieta. Non si ragiona, si guarda!»[8]. Allora, trovandoci in un punto di questo itinerario, possiamo domandarci: che rapporto ha l’orazione con la vita eterna? In che senso l’orazione arriva ad essere uno sguardo invece di essere composta di parole?
Con l’orazione noi speriamo di riuscire a vedere le cose, qui e ora, così come le vede Dio; a cogliere quello che succede attorno a noi con una semplice intuizione che proviene dall’amore[9]. Questo è il suo frutto più grande e per questo diciamo che ci trasforma. Non ci aiuta solamente a cambiare certi atteggiamenti o a superare certi difetti; l’orazione cristiana è diretta, soprattutto, a unirci con Dio, uniformando così un po’ per volta il nostro sguardo allo sguardo divino, cominciando già qui sulla terra; in certo qual modo, cerchiamo di adeguare i nostri occhi alla sua luce. Questa relazione di amore con Dio – che impariamo e realizziamo in Gesù – non è semplicemente qualcosa che facciamo, ma ci cambia in ciò che siamo.
Questa trasformazione personale porta una serie di conseguenze nella nostra maniera di interagire con la realtà, che possono essere anche molto pratiche. Perfezionare in noi, con l’aiuto di Dio, questo sguardo soprannaturale ci porta, per esempio, a percepire il bene che c’è in ogni cosa creata, anche là dove noi pensiamo che sia assente, perché nulla sfugge al suo piano d’amore, che è sempre più forte. Ci porta a valutare in una maniera nuova la libertà degli altri, a rinunciare alla tentazione di decidere per loro, come se dalle nostre azioni dipendesse il destino di tutto. Inoltre comprendiamo meglio che l’agire divino ha i suoi processi e i suoi tempi, che non dobbiamo né possiamo controllare.
L’orazione contemplativa ci permette di non essere ossessionati dall’idea di voler risolvere i problemi immediatamente, ma di disporci meglio a scoprire la luce in tutto ciò che ci accade, anche nelle ferite e nelle debolezze del nostro mondo. Fare in modo di vedere con gli occhi di Dio ci libera da uno scontro violento con la realtà e con le persone, perché cerchiamo di entrare in sintonia con il suo amore onnipotente, più che ostacolarlo con i nostri interventi maldestri. San Tommaso d’Aquino afferma che «la contemplazione sarà perfetta nella vita futura, quando vedremo Dio faccia a faccia (1 Cor 13, 12), per cui saremo perfettamente felici»[10]; il potere dell’orazione sta nel fatto che possiamo partecipare alla visione di Dio già qui sulla terra, anche se sarà sempre «come in uno specchio» (1 Cor 13, 12).
Nel 1972, durante una riunione in Portogallo, uno dei presenti domandò a san Josemaría in che modo è possibile affrontare cristianamente i problemi quotidiani. Fra le altre cose, il fondatore dell’Opus Dei fece notare che la vita di orazione aiuta a guardare le cose in una maniera diversa da come lo faremmo senza questa unione intima con Dio: «Adottiamo un criterio diverso; vediamo le cose con gli occhi di un’anima che sta pensando all’eternità e all’amore di Dio, anch’esso eterno»[11]. In altre occasioni aveva detto anche che la maniera di essere felici in cielo è molto legata alla maniera di essere felici sulla terra[12]. Un teologo bizantino del XIV secolo aveva scritto qualcosa di simile: «Non solo ci è concesso di disporci e prepararci alla Vita; ci è permesso di viverla e agire sin da ora in conformità ad essa»[13].
Calma… Pace… Vita intensa
Quando il Catechismo della Chiesa Cattolica comincia a trattare della preghiera, ci sorprende con una domanda che ha la funzione di un esame di coscienza permanente: «Da dove noi partiamo pregando? Dall’altezza del nostro orgoglio e della nostra volontà o “dal profondo” (Sal 130, 1) di un cuore umile e contrito?». Poi, immediatamente, passa a ricordarci il presupposto fondamentale per pregare: «L’umiltà è il fondamento della preghiera»[14]. In realtà, lo sguardo di eternità che genera in noi la preghiera contemplativa, può crescere soltanto sul terreno fertile dell’umiltà, in un clima di apertura verso le soluzioni di Dio, al posto delle ricette unicamente nostre.
Alcune volte una eccessiva fiducia nella nostra intelligenza e nella nostra programmazione può far sì che, in pratica, arriviamo a vivere quasi come se Dio non esistesse. Abbiamo sempre bisogno di una nuova umiltà di fronte alla realtà, di fronte alle persone, di fronte alla storia, in modo che sia un terreno fecondo per l’azione di Dio. Papa Francesco, durante la sua catechesi sulla preghiera, fissava l’attenzione sull’esperienza del re Davide: «Il mondo che si presenta ai suoi occhi non è una scena muta: il suo sguardo coglie, dietro il dipanarsi delle cose, un mistero più grande. La preghiera nasce proprio da lì: dalla convinzione che la vita non è qualcosa che ci scivola addosso, ma un mistero stupefacente»[15].
Allora, nel partecipare dello sguardo che la contemplazione in mezzo al mondo ci offre, appagheremo, per quanto possibile, i nostri aneliti di unità: con Dio, con gli altri, in noi stessi. Ci sorprenderemo a lavorare indefessamente per il bene degli altri e della Chiesa, vedendo che i nostri talenti fioriscono «come albero piantato lungo corsi d’acqua, che dà frutto a suo tempo» (Sal 1, 3). Gusteremo un po’ di quell’armonia alla quale siamo destinati. Godremo di quella quiete che non troviamo in nessun altro modo. «Galoppare, galoppare!… Fare, fare!… Febbre, follia di movimento… […]. È che lavorano puntando solo al momento attuale: “sono” sempre “al presente”. Tu…, tu devi vedere le cose con visione d’eternità, “mettendo al presente” il termine finale e il passato… Calma. – Pace. – Vita intensa dentro di te»[16].
Andrés Cárdenas Matute
Link alla fonte »