Non temere, perché io sono con te
tratto da "Conoscerlo e conoscerti (IX)"
Autore: Jon Borobia
Più o meno sei secoli prima della nascita di Gesù il popolo israelita era dominato da Babilonia.
Molti erano stati portati prigionieri in terra straniera. Le promesse antiche sembravano svanire.
La tentazione di pensare che tutto era stato un inganno era più che mai vicina. In questo contesto nascono alcuni testi profetici sulla liberazione del popolo e specialmente alcuni oracoli di una spiritualità molto profonda, nei quali Dio ci mostra la sua vicinanza in ogni momento. «Non temere», ripete continuamente: «Se dovrai attraversare le acque, sarò con te, i fiumi non ti sommergeranno; se dovrai passare in mezzo al fuoco, non ti scotterai, la fiamma non ti potrà bruciare» (Is 43, 1-2). E più avanti continua: «Non temere, perché io sono con te […]. Fa’ tornare i miei figli da lontano e le mie figlie dall’estremità della terra» (Is 43, 5-6).
Un ritornello continuo
Nel Nuovo Testamento, naturalmente, non scompare questa chiamata a confidare in Dio, non cessa questa consolazione fra le tante preoccupazioni della vita. Qualche volta il Signore si serve dei suoi angeli, come quando si rivolge a Zaccaria, marito di santa Elisabetta, il giorno in cui entrò a offrire incenso nel tempio; erano ormai una coppia anziana e fino a quel momento non avevano potuto avere figli. «Non temere, Zaccaria, la tua preghiera è stata esaudita» (Lc 1, 13), gli dice l’angelo.
I messaggeri di Dio avevano portato un annuncio simile sia a san Giuseppe quando non sapeva se ricevere o no Maria nella sua casa (cfr. Mt 1, 20), sia ai pastori quando si riempirono di grande timore al sapere che Dio voleva che fossero i primi ad adorare il bambino Gesù appena nato (cfr. Lc 2, 10). Questo e molti altri episodi sono una dimostrazione che il Signore vuole essere sempre con noi nel momento delle decisioni importanti della nostra esistenza.
Ma non solo i profeti e gli angeli sono i portatori di questo «non temere».
Quando Dio stesso si fece uomo, fu lui che continuò personalmente con questo ritornello in mezzo alle vicende della vita di coloro che gli stavano attorno. Con quelle stesse parole, per esempio, Gesù invita i suoi ascoltatori a non lasciarsi invadere dall’incertezza del cibo o del vestito, ma a preoccuparsi soprattutto della loro anima (cfr. Mt 10, 31); inoltre Cristo vuole portare pace al capo della sinagoga che aveva perduto la figlia ma non aveva perduto la fede (cfr. Mt 5, 36), rasserenare i suoi apostoli quando, dopo una notte di tempesta, lo vedono avvicinarsi camminando sulle acque (cfr. Gv 6, 19) o tranquillizzare i tre – Pietro, Giovanni e Giacomo – che hanno visto la sua gloria sul Tabor (cfr. Mt 17, 7). Dio cerca sempre di superare questo timore, in modo naturale, nei casi di una manifestazione ordinaria o straordinaria delle sue azioni.
Anche san Josemaría notava questa reazione divina nel ricordare un avvenimento speciale nella sua vita interiore. Precisamente quando un giorno d’estate del 1931, mentre celebrava la santa Messa, comprese in un modo straordinariamente chiaro che sono gli uomini e le donne normali quelli che innalzeranno la croce di Cristo su tutte le attività umane. «Ordinariamente, davanti al soprannaturale, sono preso dal timore. Poi viene il non temere, sono Io!». Questo timore non appare solamente nei casi di azioni particolari della grazia come questo; si presenta anche, in maniere diverse, nella vita cristiana ordinaria: per esempio, quando Dio ci fa intravedere la grandezza del suo amore e della sua misericordia, quando comprendiamo un po’ meglio la profondità della sua donazione sulla croce e nell’Eucaristia, o quando percepiamo l’invito a seguirlo più da presso… e ci preoccupa che conseguenze possano avere queste grazie nella nostra vita.
Più forte di qualunque dubbio
La preghiera, finché siamo sulla terra, è un combattimento. Appare drammatico che i desideri più nobili del cuore umano – come può essere vivere in comunicazione con il nostro stesso creatore – siano stati parzialmente deformati e deviati dal peccato. I nostri aneliti di amicizia, amore, bellezza, verità, felicità o pace stanno uniti, nella nostra situazione attuale, allo sforzo per superare errori, alla difficoltà nel vincere alcune resistenze. E questa condizione generale della vita umana esiste anche nella relazione con il Signore.
Agli inizi della vita di pietà, molti si preoccupano al pensiero che non sanno fare orazione, o entrano in crisi davanti agli insuccessi, all’incostanza e al disordine che possono presentarsi all’inizio di qualunque attività. Si intuisce, allora, che avvicinarsi al Signore significa imbattersi nella Croce; non deve sorprendere che compaiano il dolore, la solitudine, le contrarietà. Si teme anche, col passare degli anni, che il Signore permetta prove e oscurità che richiedono più di quel che noi possiamo offrire; oppure si guarda con nervosismo la pssibilità che ci invada la routine, e alla fine dobbiamo accontentarci di una mediocre relazione con Dio.
Queste parole – «non temere» – che hanno ascoltato Zaccaria, Giuseppe, i pastori, Pietro, Giovanni, Giacomo e tanti altri sono dirette anche a ciascun o di noi nel corso di tutta la nostra vita. Ci ricordano che, nella vita della grazia, non è decisivo quello che facciamo noi ma quello che opera il Signore. «L’orazione è un’attività congiunta di Gesù Cristo e di ognuno di noi» nella quale il protagonista principale non è la creatura, che cerca di stare attenta all’azione di Dio, ma il Signore e la sua azione nell’anima. Questo lo comprendiamo con facilità quando Dio ci apre nuovi orizzonti, quando risveglia sentimenti di gratitudine o ci invita ad avviarci in sentieri di santità… Però questa stessa fiducia dovrebbe continuare ad essere presente quando appaiono le difficoltà, quando ci accorgiamo della nostra piccolezza e sembra che si faccia buio attorno a noi.
«Sono io, non temete». Gesù, come si rendeva conto delle difficoltà, delle confusioni, delle paure e dei dubbi di quelli che volevano seguirlo, continua a fare lo stesso con ciascuno di noi. Il nostro impegno per vivere al suo fianco è sempre minore del suo nel tenerci vicino a sé. È lui che s’impegna a farci felici ed è sufficientemente forte perché si compia questo suo disegno, anche tenendo conto delle nostre fragilità.
Le disposizioni che aiutano a pregare
Da parte nostra, dobbiamo fare il possibile per entrare in un autentico cammino di orazione. Benché la conversazione con gli altri sembri spontanea o naturale, in realtà impariamo a parlare – e scopriamo le disposizioni elementari al dialogo – con l’aiuto degli altri, molto lentamente. Lo stesso accade nella relazione con Dio, perché «l’orazione deve attecchire nell’anima a poco a poco, come il piccolo seme che col tempo diverrà albero frondoso». Perciò è comprensibile che i discepoli abbiano chiesto a Gesù di insegnare loro a pregare (cfr. Lc 11, 1).
Fra queste disposizioni fondamentali per entrare in una vita di orazione ci sono la fede e la familiarità, l’umiltà e la sincerità. Quando preghiamo con una disposizione sbagliata – per esempio, quando non vogliamo rivedere che cosa ci allontana da Dio o quando non siamo disposti a rinunciare alla nostra autosufficienza – corriamo il rischio di rendere sterile l’orazione. È vero che spesso questi atteggiamenti erronei sono inconsapevoli. Inoltre, se adottiamo per la nostra orazione un modello erroneo di efficacia, così frequente nella nostra cultura, è facile che cadiamo nella trappola di misurare la nostra relazione con il Signore soltanto in base ai risultati che si percepiscono e che, alla lunga, ci costi trovare tempo per pregare.
Fra queste intime disposizioni per pregare sono particolarmente essenziali quelle che si riferiscono alla familiarità con il Signore. Malgrado la buona volontà, certe lacune nella formazione inducono non poche persone a vivere con una nozione sbagliata di Dio e di se stesse. Alcune volte possono immaginare che Dio sia un giudice rigido, che esige una condotta perfetta; altre volte possono pensare che dobbiamo ricevere quello che chiediamo esattamente come lo vogliamo noi; o che i peccati sono una barriera insormontabile per ottenere un rapporto sincero con il Signore.
Anche se può sembrare ovvio, abbiamo bisogno di costruire la nostra vita di orazione sulla base sicura di alcune verità fondamentali della fede. Per esempio, che Dio è un Padre amorevole che gode nel coltivare un rapporto con noi; che la preghiera è sempre efficace perché egli tiene conto delle nostre suppliche anche se le sue vie non sono le nostre; o che le nostre offese sono proprio l’occasione per avvicinarci di nuovo al nostro salvatore.
Donare a Dio le nostre difficoltà
«Non sai pregare? – Mettiti alla presenza di Dio, e non appena comincerai a dire:: “Signore, non so fare orazione!…”, sii certo che avrai cominciato a farla». Come ha fatto con gli apostoli, il Signore ci va insegnando poco per volta a crescere in queste disposizioni intime, se non ci nascondiamo nel monologo interiore o in una preghiera anonima, lontana dai nostri desideri e dalle preoccupazioni reali.
Come accadeva a loro, la nostra relazione con il Signore va avanti in mezzo alle debolezze personali. La mancanza di tempo, le distrazioni, la stanchezza e la routine sono abituali nell’orazione, in modo simile a come si presentano anche nelle relazioni umane. A volte questo richiede che si curi l’ordine, si vinca la pigrizia, si collochi ciò che è importante al di sopra di ciò che è urgente. Altre volte richiede realismo per adeguare con delicatezza i momenti dedicati al Signore, come deve fare una madre di famiglia che non può disinteressarsi dei suoi figli piccoli in nessun momento. Sappiamo che certe volte nell’orazione «ci vuole un’attenzione difficile da disciplinare». Ci distraggono le preoccupazioni, le attività in corso, gli stimoli della TV. La cosa negativa di tutto questo è che può confondere il nostro mondo interiore: nascono le ferite dell’amor proprio, i paragoni, i sogni e le fantasie, i risentimenti e i ricordi di ogni genere. Possiamo accorgerci che, pur sapendo di essere alla presenza di Dio, «gli affari mi frullano nella mente nei momenti più inopportuni».
Ci disturba anche, naturalmente, la stanchezza fisica: «Il lavoro ti fiacca il corpo, e non riesci a fare orazione». Ci può essere di consolazione ricordare che la fatica fa addormentare anche gli apostoli nella gloria del Tabor (Lc 9, 32) o nell’angoscia del Getsemani (Lc 22, 45). Oltre la stanchezza fisica, nella nostra cultura è frequente un genere di stanchezza interiore che nasce dall’ansia per le attività, dalla pressione dovuta alla professione e alle relazioni sociali o alla incertezza riguardo al futuro… e che questo stato interiore può aumentare la difficoltà di meditare serenamente.
Il Signore comprende perfettamente – in realtà, molto meglio di noi – queste difficoltà. Perciò, per quanto ci facciano soffrire perché preferiremmo un rapporto più delicato con lui, spesso «non importa se […] non riesci a concentrarti e a raccoglierti». Possiamo cercare di parlare con Gesù propria di tali questioni, notizie, persone o ricordi che si sono impossessati della nostra immaginazione. A Dio interessa tutto ciò che ci riguarda, per quanto banale e insignificante possa sembrare. E spesso ci aiuterà a valutare tali questioni, persone o reazioni in modo diverso, con senso soprannaturale, sul piano della carità. Come fanno i bambini in braccio alle loro madri, così potremo riposare in lui, passandogli la nostra avventatezza, rifugiandoci nel suo cuore per ottenere la pace.
Un impegno più grande del nostro
Probabilmente le difficoltà più gravi sono «le astuzie del Tentatore che fa di tutto per distogliere l’uomo dalla preghiera, dall’unione con il suo Dio». Nostro Signore fu tentato dal demonio alla fine dei quaranta giorni di ritiro nel deserto, quando sentiva la fame e la debolezza (Mt 4, 3). Di solito il maligno utilizza le nostre distrazioni e i nostri peccati per introdurre nell’anima la sfiducia, lo scoraggiamento e la rinuncia all’amore. Viceversa, come appare continuamente nel Vangelo, la nostra debolezza è in realtà un motivo per avvicinarci ancor più al Signore. E «quanto più si va avanti nella vita interiore, tanto più chiaramente ci si accorge dei difetti personali».
Con un’apparenza di umiltà il demonio può farci credere che siamo indegni di avere un rapporto con Dio, che il nostro desiderio di donarci è apparente e può nascondere una certa quantità di ipocrisia e di mancanza di determinazione. «Pensi forse che i tuoi peccati sono molti, che il Signore non potrà sentirti?». La consapevolezza della nostra indegnità – di grande valore in se stessa – può provocare allora una sofferenza reale, ma sbagliata, che poco ha da vedere con il dolore autentico e che può farci chiudere in un atteggiamento lamentoso, che arriva anche a rendere impossibile l’orazione. Naturalmente la tiepidezza e i peccati possono essere di ostacolo all’orazione, ma non in questo senso. Il Signore non smette di amarci per grandi che siano le nostre debolezze. Non lo preoccupano, non lo sorprendono, e non rinuncia al desiderio che noi raggiungiamo la santità. Anche se dovessimo arrivare deliberatamente a scendere a patti con la routine, con il conformismo o con la tiepidezza, Dio continuerebbe ad aspettare il nostro ritorno.
Comunque il nemico può tentare «perfino quando l’anima arde infiammata dell’amore di Dio. Il demonio sa che in quel caso la caduta è più difficile, ma che potrà scatenare su quella coscienza – se ottiene che la creatura offenda il Signore, seppure nel poco – la grave tentazione dello scoraggiamento». Allora possono comparire l’amarezza e la delusione. Per mantenere viva la speranza in ogni momento è necessario essere realisti, ammettere la nostra pochezza, renderci conto che questa ipotesi ideale di santità che avevamo in mente – una pienezza irraggiungibile – è sbagliata. Dobbiamo essere convinti che la sola cosa importante è far piacere a Dio e soprattutto che quello che è realmente decisivo è ciò che fa il Signore con il suo amore potente, avvalendosi della nostra lotta e della nostra debolezza.
La speranza cristiana non è una speranza semplicemente umana, basata sulle nostre forze o sulla intuizione naturale della bontà del creatore. La speranza è un dono superiore, che lo Spirito Santo infonde e rinnova in noi continuamente. Nei casi di scoraggiamento «è il momento di gridare: rammentati delle promesse che mi hai fatto, con le quali mi hai dato speranza; è questo il conforto nel mio nulla, che riempie la mia vita di fortezza (Sal 118, 49-50)». È Dio che ci ha chiamato. È Dio che è impegnato, più di noi, a portarci all’unione con lui e che ha il potere di ottenerlo.
Quando l’oscurità è luce
Durante la vita, come in tutte le relazioni che durano, il Signore ci va insegnando a comprenderlo sempre meglio e a comprendere noi stessi in maniera diversa. È differente il rapporto di Pietro con Gesù all’inizio, nel suo primo incontro in prossimità del Giordano, e dopo la sua morte e risurrezione, sulla riva del lago di Genesaret. Succede così anche a noi. Non dovremmo meravigliarci che il Signore ci porti per cammini divini che non sono quelli da noi immaginati. A volte si nasconde, anche quando andiamo a cercarlo con sincera pietà, come quando non lo trovarono le donne che erano andate al sepolcro (Lc 24, 3). Altre volte, invece, si fa presente quando siamo chiusi in noi stessi, come quando si presentò agli apostoli nel cenacolo (Lc 24, 36).
Se manteniamo la familiarità, quando sarà passato del tempo, scopriremo che quella oscurità era luminosa, che Cristo stesso ci abbracciava con sollecitudine – «non temere», ci ripeteva – in quei momenti nei quali stavamo forgiando il nostro cuore a sua misura.
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