Ogni creatura lodi il Signore
Discorso in occasione dell'Udienza Generale del 12 dicembre 2001
Autore: San Giovanni Paolo II
1. Il cantico che abbiamo or ora sentito proclamare è costituito dalla prima parte di un lungo e bell’inno che si trova incastonato nella traduzione greca del libro di Daniele. Lo cantano tre giovani ebrei gettati in una fornace per aver rifiutato di adorare la statua del re babilonese Nabucodonosor. Un’altra parte dello stesso canto viene proposta dalla Liturgia delle Ore per le Lodi della domenica, nella prima e nella terza settimana del Salterio liturgico.
Il libro di Daniele, come è noto, riflette i fermenti, le speranze e anche le attese apocalittiche del popolo eletto, il quale, nell’epoca dei Maccabei (secondo secolo a.C.) era in lotta per poter vivere secondo la Legge data da Dio.
Dalla fornace, i tre giovani, miracolosamente preservati dalle fiamme, cantano un inno di benedizione rivolto a Dio. Questo inno è simile a una litania, ripetitiva e insieme nuova: le sue invocazioni salgono a Dio come volute d’incenso, che percorrono lo spazio in forme simili eppure mai uguali. La preghiera non teme la ripetizione, come l’innamorato non esita a dichiarare infinite volte all’amata tutto il suo affetto. Insistere nelle stesse questioni è segno d’intensità e di molteplici sfumature nei sentimenti, nelle pulsioni interiori e negli affetti.
2. Abbiamo sentito proclamare l’avvio di questo inno cosmico, contenuto nel capitolo terzo di Daniele, ai versetti 52-57. È l’introduzione, che precede la grandiosa sfilata delle creature coinvolte nella lode. Uno sguardo panoramico a tutto il canto nel suo distendersi litanico, ci fa scoprire una successione di componenti che costituiscono la trama di tutto l’inno. Questo inizia con sei invocazioni rivolte direttamente a Dio; ad esse segue un appello universale alle “opere tutte del Signore”, perché aprano le loro labbra ideali alla benedizione (cfr v. 57).
È questa la parte che oggi consideriamo e che la liturgia propone per le Lodi della domenica della seconda settimana. Successivamente il canto si distenderà convocando tutte le creature del cielo e della terra a lodare e magnificare il loro Signore.
3. Il nostro brano iniziale verrà ripreso un’altra volta dalla liturgia, nelle Lodi della domenica della quarta settimana. Sceglieremo, perciò, ora solo alcuni elementi per la nostra riflessione. Il primo è l’invito alla benedizione: “Benedetto sei tu…”, che diverrà alla fine: “Benedite…!”.
Nella Bibbia esistono due forme di benedizione, che s’intrecciano tra loro. Da un lato, c’è quella che scende da Dio: il Signore benedice il suo popolo (cfr Nm 6, 24-27). È una benedizione efficace, sorgente di fecondità, felicità e prosperità. Dall’altro c’è la benedizione che sale dalla terra al cielo. L’uomo, beneficato dalla generosità divina, benedice Dio, lodandolo, ringraziandolo, esaltandolo: “Benedici il Signore, anima mia!” (Sal 102, 1; 103, 1).
La benedizione divina è spesso mediata dai sacerdoti (cfr Nm 6, 22-23.27; Sir 50, 20-21) attraverso l’imposizione delle mani; la benedizione umana è invece espressa nell’inno liturgico, che sale al Signore dall’assemblea dei fedeli.
4. Un altro elemento che consideriamo all’interno del brano ora proposto alla nostra meditazione è costituito dall’antifona. Si potrebbe immaginare che il solista, nel tempio gremito di popolo, intonasse la benedizione: “Benedetto sei tu, Signore…”, elencando le diverse meraviglie divine, mentre l’assemblea dei fedeli ripeteva costantemente la formula: “Degno di lode e di gloria nei secoli”. È quanto già accadeva col Salmo 135, il cosiddetto “Grande Hallel”, cioè la grande lode, ove il popolo ripeteva: “Eterna è la sua misericordia”, mentre un solista enumerava i vari atti di salvezza compiuti dal Signore in favore del suo popolo.
Oggetto della lode, nel nostro Salmo, è innanzitutto il nome “glorioso e santo” di Dio, la cui proclamazione risuona nel tempio, pur esso “santo glorioso”. I sacerdoti e il popolo, mentre contemplano nella fede Dio che siede “sul trono del suo regno”, ne avvertono su di sé lo sguardo che “penetra gli abissi” e questa consapevolezza fa scaturire dal loro cuore la lode: “Benedetto… benedetto…”. Dio, che “siede sui cherubini” ed ha come sua abitazione il “firmamento del cielo”, è tuttavia vicino al suo popolo, che si sente per questo protetto e sicuro.
5. La riproposta di questo cantico al mattino della domenica, la Pasqua settimanale dei cristiani, è un invito ad aprire gli occhi di fronte alla nuova creazione che ha avuto origine appunto con la risurrezione di Gesù. Gregorio di Nissa, un Padre della Chiesa greca del quarto secolo, spiega che con la Pasqua del Signore “vengono creati un cielo nuovo e una nuova terra… viene plasmato un uomo diverso rinnovato ad immagine del suo creatore per mezzo della nascita dall’alto” (cfr Gv 3, 3.7). E continua: “Come chi guarda verso il mondo sensibile deduce per mezzo delle cose visibili la bellezza invisibile… così chi guarda verso questo nuovo mondo della creazione ecclesiale vede in esso Colui che è divenuto tutto in tutti conducendo per mano la mente, per mezzo delle cose comprensibili dalla nostra natura razionale, verso ciò che supera la comprensione umana” (Langerbeck H., Gregorii Nysseni Opera, VI, 1-22 passim, p. 385).
Nel cantare questo cantico il credente cristiano viene invitato dunque a contemplare il mondo della prima creazione, intuendovi il profilo della seconda, inaugurata con la morte e la risurrezione del Signore Gesù. E questa contemplazione conduce per mano tutti a entrare, quasi danzando di gioia, nell’unica Chiesa di Cristo.