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“Davanti al Signore che viene” (Sal 96, 13)

Vespri e Te Deum - Omelia al termine dell'anno 1992

Autore: San Giovanni Paolo II

1. “Davanti al Signore che viene” (Sal 96, 13).

Il salmo proclama la verità dell’avvento di Dio. “Il Signore che viene a giudicare la terra” (cf. Sal 96, 13), perché “questa è l’ultima ora” (1 Gv 2, 18), l’ultimo giorno di questo anno solare, l’ultima sera. L’avvento liturgico ci prepara per la venuta di Dio nel tempo, nella pienezza del tempo, per il mistero del Verbo Incarnato, per la notte della nascita di Dio a Betlemme.
L’ultimo giorno dell’anno, l’ultima ora è inscritta nella nascita di Dio. È anche abbracciata dall’avvento liturgico. Insieme con la nascita di Dio nella carne umana, quindi, il tempo della storia dell’uomo è stato orientato verso gli ultimi destini, è entrato nella dimensione del regno di Dio, che è compimento della storia degli uomini e del mondo.
A questo fatto, in certo modo, ci richiama l’ultima ora di ogni anno.

2. Stiamo “davanti al Signore che viene a giudicare la terra” – così proclama il Salmo dell’odierna liturgia. Il giudizio è strettamente legato con la logica dell’esistenza umana. Particolarmente quando l’uomo si trova di fronte a una fine, sente il bisogno di un giudizio. Perché ciò che è passato, ciò che è alle sue spalle, trovi la sua espressione nella verità. Proprio il giudizio è l’espressione della verità. Il giudizio dell’uomo si incontra col giudizio di Dio. Il giudizio dell’uomo è sempre limitato, sottoposto alle condizioni di un tempo e di un luogo determinati. È necessario che questo giudizio umano si ritrovi nello spazio della verità divina, affinché in questa prospettiva sia accolto e penetrato fino in fondo dal giudizio di Dio stesso, da quella luce di cui parla il prologo del Vangelo di Giovanni: “La luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta” (Gv 1, 5).

Oggi, nell’ultima ora dell’anno che finisce, continua ad essere presente la gioia della nascita di Dio. “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito . . . perché il mondo si salvi per mezzo di lui” (Gv 3, 16-17).

La logica umana del giudizio si incontra con la divina volontà di salvare l’uomo. Dio vuole che gli uomini si salvino. Per questa ragione la luce è venuta nel mondo. Gli uomini sono stati chiamati per camminare in questa luce, per diventarne i testimoni. Questa è la chiamata salvifica.
3. Oggi rivolgiamo il nostro pensiero a Roma. In questa sera vogliamo pensare particolarmente a questa nostra Città. Nella basilica “del Gesù” si riunisce la Chiesa che è in Roma insieme col suo Vescovo. Saluto il Cardinale Vicario, Camillo Ruini, insieme con i Vescovi ausiliari. Saluto pure il Cardinale Eduardo Martínez Somalo, titolare di questa chiesa, e i padri Gesuiti che vi svolgono il loro ministero. Saluto, infine, i Presuli, il Clero, le Autorità cittadine e tutti i fedeli presenti.

Di Roma si dice spesso che è “la città eterna”. Ma nessuna città sulla terra è eterna, “perché passa la scena di questo mondo” (1 Cor 7, 31). Se si dice di Roma “città eterna” – prima di tutto lo si fa perché in essa si è fermata in modo particolare, la Verità che è il Verbo di Dio – e il Verbo di Dio non passa. Il Verbo qui si è fermato per mezzo del ministero apostolico di Pietro e Paolo. Roma è diventata così la sede della successione apostolica della Chiesa, rappresentata in modo eminente dai due Apostoli. Insieme con la testimonianza che essi hanno dato al Verbo Incarnato, un particolare raggio della divina Eternità è penetrato in ciò che è passeggero.

Proprio per questo sant’Ireneo poteva affermare: “Ma poiché sarebbe troppo lungo . . . numerare le successioni di tutte le Chiese, indichiamo solo la tradizione ricevuta dagli apostoli, la fede annunciata a tutti gli uomini e giunta fino a noi nella successione episcopale, della Chiesa più grande e più antica, conosciuta da tutti; della Chiesa fondata e costituita a Roma dai due gloriosissimi apostoli Pietro e Paolo . . . Con questa Chiesa, per la sua esimia superiorità, deve accordarsi la Chiesa universale, cioè i fedeli che sono ovunque; in essa infatti viene conservata, da coloro che sono dovunque, la tradizione derivante dagli apostoli” (Adversus haereses, 3 ,3, 2: PG 7, 848).

4. L’anno che finisce è diventato, nel quadro del Sinodo romano, un tempo particolare grazie a ciò che è stato chiamato il “Confronto con la Città”. Non possiamo vivere, come romani e in modo particolare come cristiani, senza un tale confronto. Dobbiamo, nel quadro del Sinodo, elaborare un’immagine multipla dell’odierna Roma. Però questo “oggi” ha radici molto profonde. Cristo ha messo le radici in questa Città, la sede dell’impero, per mezzo dei suoi apostoli. “Cristo ieri e oggi” (cf. Eb 13, 8). Questo “ieri” originario di Cristo, della sua Chiesa a Roma, germogliava per lungo tempo sotto la terra, nascosto. Però già durante la vita degli Apostoli diventò visibile. Come avevano crocifisso Cristo a Gerusalemme così crocifissero i suoi discepoli e seguaci. Li condannarono “ad bestias”. Li bruciarono come vive fiaccole nei circhi di Roma imperiale. Lo stesso Pietro fu crocifisso e Paolo fu condannato alla decapitazione. In tal modo essi resero fino alla fine la loro testimonianza a Cristo.
Il “Confronto con la Città” è confronto con questo “ieri e oggi” di Cristo a Roma. “Il Figlio unigenito che è nel seno del Padre” non cessa di parlare di lui, del Padre (cf. Gv 1, 18). I discepoli di Cristo, verso la fine del secondo millennio, non cessano, a loro volta, di rendere testimonianza alle grandi opere di Dio.

E vogliono farlo in questa grande e multiforme Città di Roma, ricca di umanità ma anche segnata da molte miserie, materiali e morali. Seguendo il Figlio di Dio, fatto bambino per la nostra salvezza, i cristiani di Roma intendono essere, per ogni uomo e donna che vive in questa Città, segno credibile dell’amore misericordioso di Dio. Essi intendono annunciare e testimoniare il Messaggio della speranza evangelica anche a tutti coloro che verranno pellegrini a Roma nell’anno che ci attende, e poi sempre più numerosi con l’avvicinarsi del grande Giubileo. Essi sono consapevoli di dover essere, in nome del Vangelo, stimolo a una convivenza più fraterna e più coraggiosa nell’affrontare la vita, perché più fiduciosa nella Provvidenza di Dio.

5. Alla fine dell’anno che se ne va, alla soglia dell’anno nuovo, continua la gioia della nascita di Dio. La logica umana del giudizio e la valutazione di ciò che si sviluppa nel tempo si incontrano con la divina volontà della verità e della salvezza. “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito” (Gv 3,16).
Il Sinodo della Chiesa che è in Roma desidera essere – tra l’anno che va e quello che viene – il testimone e, in senso specifico, anche il ministro evangelico di un tale incontro tra la logica umana del giudizio e la divina volontà della verità e della salvezza dell’uomo.

Continua la gioia del Natale, perché continua la sua realtà. “Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto e grazia su grazia” (Gv 1, 16). Di generazione in generazione.
“La grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo” (Gv 1, 17). La nostra generazione desidera avere in essa la sua parte secondo la misura delle sfide e delle necessità del nostro tempo.
Quando dico questo, penso a tutti gli uomini, a tutti i cristiani della nostra generazione in Roma. Come Vescovo – indegno successore di San Pietro – partecipo della loro fede, speranza e amore. Sono servo di tutti. Di ciascuna parrocchia romana, delle famiglie cristiane, dei laici impegnati a vivere con coerenza il loro Battesimo. Di tutte le associazioni e movimenti giovanili. Di ogni comunità religiosa maschile e femminile. Di tutte le persone consacrate a Dio, in modo particolare di quelle dedicate alla causa del regno di Dio a cui è chiamato l’uomo.
Tutti insieme cantiamo il “Te Deum”.

Ringraziamo per la grazia e per la verità che sono venute a noi per mezzo di Cristo. In lui siamo nati di nuovo. Da lui abbiamo ricevuto la forza per diventare figli di Dio.
Tu Rex gloriae, Christe.
Tu Patris sempiternus es Filius.
Salvum fac populum tuum.

Amen!