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Omelia al termine dell'anno 2018

Vespri e Te Deum

Autore: Papa Francesco

Al termine dall’anno, la Parola di Dio ci accompagna con questi due versetti dell’apostolo Paolo (cfr Gal 4,4-5). Sono espressioni concise e dense: una sintesi del Nuovo Testamento che dà senso a un momento “critico” come è sempre un passaggio di anno.
La prima espressione che ci colpisce è «pienezza del tempo». Essa assume una risonanza particolare in queste ore finali di un anno solare, in cui ancora di più sentiamo il bisogno di qualcosa che riempia di significato lo scorrere del tempo. Qualcosa o, meglio, qualcuno. E questo “qualcuno” è venuto, Dio lo ha mandato: è «il suo Figlio», Gesù. Abbiamo celebrato da poco la sua nascita: è nato da una donna, la Vergine Maria; è nato sotto la Legge, un bimbo ebreo, sottomesso alla Legge del Signore. Ma come è possibile? Come può essere questo il segno della «pienezza del tempo»? Certo, per il momento è quasi invisibile e insignificante, ma nel giro di poco più di trent’anni, quel Gesù sprigionerà una forza inaudita, che dura ancora e durerà per tutta la storia: la forza dell’Amore. È l’amore che dà pienezza a tutto, anche al tempo; e Gesù è il “concentrato” di tutto l’amore di Dio in un essere umano.
San Paolo dice chiaramente perché il Figlio di Dio è nato nel tempo, qual è la missione che il Padre gli ha dato da compiere: è nato «per riscattare». Questa è la seconda parola che colpisce: riscattare, cioè far uscire da una condizione di schiavitù e restituire alla libertà, alla dignità e alla libertà propria dei figli. La schiavitù che l’apostolo ha in mente è quella della «Legge», intesa come insieme di precetti da osservare, una Legge che certo educa l’uomo, è pedagogica, ma non lo libera dalla sua condizione di peccatore, anzi, per così dire lo “inchioda” a questa condizione, impedendogli di raggiungere la libertà del figlio.
Dio ha mandato nel mondo il suo Figlio Unigenito per sradicare dal cuore dell’uomo la schiavitù antica del peccato e così restituirgli la sua dignità. Dal cuore umano infatti – come insegna Gesù nel Vangelo (cfr Mc 7,21-23) – escono tutte le intenzioni malvagie, le iniquità che corrompono la vita e le relazioni.
E qui dobbiamo fermarci, fermarci a riflettere con dolore e pentimento perché, anche durante quest’anno che volge al termine, tanti uomini e donne hanno vissuto e vivono in condizioni di schiavitù, indegne di persone umane.
Anche nella nostra città di Roma ci sono fratelli e sorelle che, per diversi motivi, si trovano in questo stato. Penso, in particolare, a quanti vivono senza dimora. Sono più di diecimila. D’inverno la loro situazione è particolarmente dura. Sono tutti figli e figlie di Dio, ma diverse forme di schiavitù, a volte molto complesse, li hanno portati a vivere al limite della dignità umana. Anche Gesù è nato in una condizione simile, ma non per caso, o per un incidente: ha voluto nascere così, per manifestare l’amore di Dio per i piccoli e i poveri, e così gettare nel mondo il seme del Regno di Dio, Regno di giustizia, di amore e di pace, dove nessuno è schiavo, ma tutti sono fratelli, figli dell’unico Padre.
La Chiesa che è a Roma non vuole essere indifferente alle schiavitù del nostro tempo, e nemmeno semplicemente osservarle e assisterle, ma vuole essere dentro questa realtà, vicina a queste persone e a queste situazioni. Vicinanza, materna.
Questa forma della maternità della Chiesa mi piace incoraggiarla mentre celebriamo la divina maternità della Vergine Maria. Contemplando questo mistero, noi riconosciamo che Dio è «nato da donna» perché noi potessimo ricevere la pienezza della nostra umanità, «l’adozione a figli». Dal suo abbassamento siamo stati risollevati. Dalla sua piccolezza è venuta la nostra grandezza. Dalla sua fragilità, la nostra forza. Dal suo farsi servo, la nostra libertà.
Che nome dare a tutto questo, se non Amore? Amore del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, a cui questa sera la santa madre Chiesa eleva in tutto il mondo il suo inno di lode e di ringraziamento.