Oriente e occidente di fronte al mistero della persona di Cristo
Terza predica di Quaresima
Autore: Cardinale Raniero Cantalamessa
1. Paolo e Giovanni: il Cristo visto da due angolature
Nel nostro sforzo di mettere in comune i tesori spirituali dell’Oriente e dell’Occidente, riflettiamo oggi sulla comune fede in Gesú Cristo. Cerchiamo di farlo come chi sa di parlare di uno che è presente, non di un assente. Se non fosse per la nostra pesantezza umana che ce lo impedisce, ogni volta che pronunciamo il nome di Gesú, noi dovremmo pensare che c’è uno che si sente chiamare per nome e si volta a guardare. Anche questa mattina egli è qui con noi e ascolta, speriamo con indulgenza, quello che diremo di lui.
Partiamo dalle radici bibliche del discorso su Gesù. Già nel Nuovo Testamento vediamo delinearsi due vie diverse nel modo di esprimere il mistero di Cristo. La prima di esse è quella di san Paolo. Riassumiamo i tratti peculiari di questa via, quelli per i quali essa diventerà un modello e un archetipo cristologico, nello sviluppo del pensiero cristiano. Questa via,
– primo, parte dall’umanità per giungere alla divinità di Cristo, dalla storia per arrivare alla preesistenza; è dunque una via ascendente; segue l’ordine del manifestarsi di Cristo, l’ordine con cui gli uomini lo hanno conosciuto, non l’ordine dell’essere;
– secondo, parte dalla dualità di Cristo (carne e Spirito) per arrivare all’unità del soggetto “Gesù Cristo nostro Signore”;
– terzo, ha al suo centro il mistero pasquale, cioè l’operato, prima ancora che la persona, di Cristo. Il grande tornante tra le due fasi dell’esistenza di Cristo è la risurrezione dai morti.
Per convincersi della giustezza di questa ricostruzione, basta rileggere il densissimo brano – una specie di credo embrionale – con cui l’Apostolo inizia la Lettera ai Romani. Il mistero di Cristo vi è così riassunto:
“nato dalla stirpe di Davide secondo la carne,
costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione
mediante la risurrezione dai morti,
Gesù Cristo, nostro Signore” (Rom 1, 3-4).
Anche nell’inno cristologico di Filippesi 2, si parla prima di Cristo nella condizione di servo e poi, a partire dalla risurrezione, del Cristo esaltato come Signore. Il soggetto concreto, anche quando definisce Cristo “immagine del Dio invisibile” (Col 1, 15), per Paolo è sempre il Cristo della storia, anche se l’idea della preesistenza è tutt’altro che assente in lui.
Un rapido sguardo in avanti permette di vedere come saranno raccolti e sviluppati questi tratti paolini di Gesù, nella generazione sub-apostolica. Carne e Spirito, che in origine indicavano due fasi della vita di Cristo – prima e dopo la risurrezione -, passeranno a indicare, già in sant’Ignazio d’Antiochia, le due nascite di Gesù, “da Maria e da Dio”, e infine le due nature di Cristo. Scrive Tertulliano:
“L’apostolo insegna qui le due nature di Cristo. Con le parole ‘nato dalla stirpe di David secondo la carne’, egli designa l’umanità; con le parole ‘costituito Figlio di Dio secondo lo Spirito’, egli indica la divinità” .
A questa via ascendente del mistero di Cristo, si affianca, con Giovanni, una via discendente. Possiamo sintetizzare così le caratteristiche di questa seconda via.
– primo, essa parte dalla divinità, per arrivare all’umanità; lo schema è rovesciato: non più “carne – Spirito”, ma “Logos – carne”; non prima l’umano, il visibile, e poi il divino e l’invisibile, ma il contrario; Giovanni si colloca dal punto di vista dell’essere, non del manifestarsi a noi di Cristo, e secondo l’essere è chiaro che la divinità precede in lui l’umanità;
– secondo, è una via che parte dall’unità e giunge a una dualità di elementi: Logos e carne, divinità e umanità; nel linguaggio posteriore: parte dalla persona per giungere alle nature.
– terzo, il grande spartiacque, il perno su cui tutta la vicenda ruota, è l’incarnazione, non la risurrezione o il mistero pasquale.
Di Cristo, interessa più la persona che l’operato, l’essere più che l’agire, compreso il mistero pasquale di morte e risurrezione. Quest’ultimo serve essenzialmente a rivelare chi è Gesù: “Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora saprete che Io Sono” (Gv 8, 28). L’esistenza presso il Padre è costantemente anteposta alla sua venuta nel mondo. Basta ricordare le due grandi affermazioni dell’inizio del Quarto Vangelo per mostrare la validità di questa sommaria ricostruzione:
“In principio era il Verbo,
e il Verbo era presso Dio
e il Verbo era Dio […].
E il Verbo si è fatto carne
ed è venuto ad abitare in mezzo a noi”.
Sono così tracciati i due binari su cui camminerà tutta la riflessione successiva della Chiesa su Cristo. Nonostante le differenze, c’è un’affinità profonda e una comunicabilità reciproca tra queste due vie, per cui si possono percorrere in un senso o nell’altro. Per entrambi, Paolo e Giovanni, in Gesù Cristo c’è un elemento divino e un elemento umano, pur essendo egli un unico soggetto. Per entrambi egli è il rivelatore e il redentore universale, anche se Giovanni insiste più sul rivelatore e Paolo più sul redentore. Per entrambi, il nostro rapporto con Cristo è mediato e reso possibile dallo Spirito Santo. E’ credendo in Cristo, dicono entrambi, che si riceve lo Spirito (Gal 3,2; Gv 7, 39) ed è ricevendo lo Spirito che si è in grado di credere in Cristo (1 Cor 12,3; Gv 6, 63).
Appena si passa all’epoca successiva, queste due vie tendono a consolidarsi, dando luogo a due modelli o archetipi, e finalmente, nel IV e V secolo, a due scuole cristologiche. Le scuole a cui mi riferisco sono, una, quella che dal suo maggiore centro, Alessandria d’Egitto, è detta Alessandrina e l’altra quella che, dalla città di Antiochia in Siria, è detta Antiochena. La ragione principale della loro differenza, non è, come a volte si è pensato, che gli uni, gli alessandrini, si ispirano a Platone e gli altri ad Aristotele, ma che gli uni si ispirano di preferenza a Giovanni e gli altri a Paolo.
Nessuno dei seguaci dell’una o dell’altra via ha coscienza di scegliere tra Paolo e Giovanni. Ognuno è sicuro di averli entrambi dalla propria parte, e ciò è senz’altro vero. Sta di fatto però che i due influssi rimangono ben visibili e distinguibili, come due fiumi che, pur confluendo insieme, continuano a distinguersi per il colore diverso delle rispettive acque. La differenza tra le due scuole non è tanto che alcuni seguono Paolo e altri Giovanni, ma che alcuni interpretano Giovanni alla luce di Paolo e altri interpretano Paolo alla luce di Giovanni. La differenza è nello schema, o nella prospettiva di fondo, che si adotta per illustrare il mistero di Cristo.
Nel confronto tra queste due scuole, si può dire che si sono formate le linee portanti del dogma cristologico. La sintesi tra le due istanze avvenne, come è risaputo, nel concilio ecumenico di Calcedonia del 451, con l’apporto determinante dell’Occidente, rappresentato da san Leone Magno. Qui la verità di fondo, portata avanti ad Alessandria e riconosciuta nel concilio di Efeso circa l’unità della persona di Cristo, viene coniugata con l’istanza fondamentale degli Antiocheni dell’integra natura umana di Cristo. Le due strade tradizionali sono entrambe riconosciute valide, a patto di rimanere aperte l’una all’altra e comunicanti tra loro.
Il modo stesso in cui è formulata la definizione di Calcedonia mette in atto questo principio. Il mistero di Cristo viene infatti formulato, in essa, due volte e in due modi diversi: prima, alla maniera giovannea e alessandrina, partendo dall’affermazione dell’unità e giungendo all’affermazione della distinzione (“uno e identico Cristo, Signore e Figlio unigenito, in due nature”); poi, alla maniera paolina e antiochena, partendo dalla distinzione delle nature per giungere all’affermazione dell’unità (“salve le proprietà di ciascuna, le due nature concorrono a formare una sola persona e ipostasi”). La stessa strada è percorsa successivamente nei due sensi.
2. Il volto di Cristo in Oriente e in Occidente
Ci chiediamo: che ne è stato, dopo Calcedonia, delle due vie o dei due fondamentali modelli cristologici elaborati dalla Tradizione? Sono essi scomparsi, livellati, dalla definizione dommatica? A livello teologico, da allora vi è stata certamente un’unica fede in Cristo, comune sia all’Oriente che all’Occidente. San Giovanni Damasceno per l’Oriente e san Tommaso d’Aquino per l’Occidente hanno entrambi costruito la loro sintesi cristologica su Calcedonia. Non vi sono state, a differenza che per la Trinità e lo Spirito Santo, delle divergenze dottrinali significative tra Ortodossia e Chiesa latina nella dottrina su Cristo.
Se però dalla teologia e dalla dommatica allarghiamo lo sguardo ad altri aspetti della vita della Chiesa, notiamo che i due modelli o archetipi cristologici non sono andati affatto smarriti. Si sono conservati e hanno dato la loro impronta, il primo alla spiritualità ortodossa e il secondo a quella latina. In altre parole, la Chiesa orientale ha privilegiato il Cristo giovanneo e alessandrino e con esso la centralità dell’incarnazione, della divinità di Cristo e dell’idea di divinizzazione; la Chiesa occidentale ha privilegiato il Cristo paolino e antiocheno e con esso l’umanità di Cristo e il mistero pasquale.
Non si tratta evidentemente di una ripartizione rigida. Gli influssi si sono intrecciati e variano da autore ad autore, da epoca ad epoca e da ambiente ad ambiente. Tutte e due le Chiese hanno creduto – e a ragione – di valorizzare congiuntamente e Giovanni e Paolo, tuttavia è ammesso da tutti che il Cristo della tradizione bizantina presenta tratti diversi da quello della tradizione latina.
Notiamo alcuni fatti che mettono in luce questa diversità, partendo dal Cristo orientale. Nell’arte, l’immagine più caratteristica del Cristo ortodosso è il Pantocrator, il Cristo glorioso. È esso che l’assemblea contempla davanti a sé, nell’abside delle grandi basiliche. È chiaro che anche l’arte bizantina conosce il crocifisso, ma è un crocifisso anch’esso dai tratti gloriosi e regali, dove il realismo della passione è trasfigurato già dalla luce della risurrezione. E’ insomma il Cristo giovanneo, per il quale la croce rappresenta il momento della “esaltazione” (Gv 12, 32).
Del mistero di Cristo, continua ad essere posto in primo piano il momento dell’incarnazione. Coerentemente, la salvezza è concepita come una divinizzazione dell’uomo grazie al contatto con la carne vivificante del Verbo. San Simeone il Nuovo Teologo, per esempio, dice in una sua preghiera a Cristo:
“Scendendo dal tuo santuario eccelso, senza distaccarti dal seno del Padre, incarnato e nato dalla santa Vergine Maria, già allora mi hai riplasmato e vivificato, liberato dalla colpa dei progenitori e preparato alla salita al cielo” .
L’essenziale è avvenuto già con l’incarnazione del Verbo. L’idea di divinizzazione ritorna in primo piano, per impulso di Gregorio Palamas e caratterizzerà “la cristologia dell’ultima Bisanzio” . E’ forse ignorato il mistero pasquale? Al contrario, tutti sanno il rilievo eccezionale che ha la celebrazione della Pasqua presso gli ortodossi. Ma ecco, di nuovo, un segno rivelatore: del mistero pasquale, il momento più valorizzato non è tanto l’abbassamento quanto la gloria; non il Venerdì Santo, ma la Domenica di risurrezione. Da tutti i punti di vista, prevale l’attenzione al Cristo glorioso, al Cristo “Dio”.
Queste caratteristiche si ritrovano nell’ideale di santità che predomina in questa spiritualità. Il vertice della santità è visto qui nella trasformazione del santo nell’immagine del Cristo glorioso. Nella vita di due tra i santi più tipici dell’ortodossia, san Simeone il Nuovo Teologo e san Serafino di Sarov, troviamo il fenomeno mistico della conformazione al Cristo luminoso del Tabor e della risurrezione. Il santo appare quasi trasformato in luce.
Diamo ora uno sguardo ad alcuni aspetti della spiritualità occidentale. Sant’Agostino scrive che, dei tre giorni che costituiscono il triduo pasquale, “noi compiamo nella vita presente quello che simboleggia la croce, mentre teniamo nella fede e nella speranza quello che simboleggiano la sepoltura e la risurrezione” . Come dire: finché siamo in questa vita il Cristo crocifisso ci è più vicino e immediato che non il risorto.
Infatti, nell’arte, l’immagine caratteristica di Cristo, in Occidente, è il crocifisso. È esso che troneggia o pende sopra l’altare nelle chiese. La stessa rappresentazione del crocifisso, a un certo punto, si stacca dal modello glorioso, regale, e assume tratti realistici di vero dolore, e perfino di spasimo. E’ il crocifisso paolino, divenuto sulla croce “peccato” e “maledizione” per noi (cf. Gal 3, 13).
Un grande rilievo assume, a partire da san Bernardo e poi con il francescanesimo, la devozione e l’attenzione all’umanità di Cristo e ai diversi “misteri” della sua vita. La kenosi, o abbassamento, di Cristo occupa un posto di primo piano e con esso il mistero pasquale. In questo contesto, trova la sua applicazione pratica il principio della “imitazione di Cristo”, che era stato al centro della teologia antiochena. Non per nulla il libro di spiritualità più celebre, prodotto dal medioevo latino, sarà proprio La imitazione di Cristo. Contro ogni tentativo di scavalcare l’umanità di Cristo, per tendere direttamente all’unione con Dio, Santa Teresa d’Avila affermerà che non c’è stadio della vita spirituale in cui si possa fare a meno dell’umanità di Cristo .
I santi forniscono, anche qui, una specie di riscontro pratico. Qual è, in Occidente, il segno della raggiunta pienezza della santità? Non la conformazione al Cristo glorioso della Trasfigurazione, ma la conformazione al Crocifisso. L’ortodossia non conosce casi di santi stigmatizzati, mentre conosce, abbiamo visto, casi di santi trasfigurati .
La Riforma protestante, per certi versi, ha portato all’estremo alcuni tratti di questo Cristo occidentale, paolino, e del suo mistero pasquale. Ha elevato la “teologia della croce” a criterio di ogni teologia, in polemica, a volte, con la “teologia della gloria”. Kierkegaard arriverà ad affermare che, in questa vita, noi non possiamo conoscere Cristo, se non nel suo abbassamento .
E’ vero che Lutero e i protestanti, in polemica con gli eccessi medievali dell’imitazione di Cristo, hanno affermato che Cristo è anzitutto dono da accogliere con la fede, ben più che modello da seguire con l’imitazione. Ma, anche qui, quale Cristo è visto come il “dono” da accogliere mediante la fede? Non il Logos che discende e si fa carne, ma il Cristo pasquale paolino, il Cristo “per me”, non il Cristo “in se”.
Ripeto: guai a irrigidire queste distinzioni; diventerebbero false e antistoriche. Per esempio, la spiritualità bizantina conosce tutto un filone di santità, detto dei “pazzi per Dio”, nei quali l’assimilazione a Cristo nella sua kenosi, è fortemente accentuata. Con queste riserve, rimane però una differenza d’accento innegabile. L’Oriente ha camminato di preferenza sulla vita inaugurata da Giovanni; l’Occidente su quella inaugurata da Paolo. Ma entrambi, fedeli a Calcedonia, hanno saputo abbracciare, nel loro sguardo, anche l’altro polo del mistero, mantenendo le due vie comunicanti tra di loro.
La grazia del momento presente è che si comincia a percepire la diversità come una ricchezza e non più come una minaccia. Un teologo ortodosso ha espresso questo giudizio: dal Cristo latino, preso isolatamente, può derivare una concezione troppo storica, terrena e umana della Chiesa, e dal Cristo ortodosso una concezione troppo escatologica, disincarnata e non abbastanza attenta ai suoi compiti storici. Per questo, concludeva “l’autentica cattolicità della Chiesa non può che comprendere sia l’Oriente che l’Occidente” .
Non è necessario, dunque, eliminare o livellare le differenze che abbiamo rilevate. Una volta riconosciuta la legittimità e il carattere biblico dei due diversi approcci, quello che occorre è piuttosto lo scambio dei doni, il rispetto e la stima della tradizione altrui. È come se Dio avesse fatto due chiavi per accedere alla pienezza del mistero cristiano e ne avesse dato una alla cristianità orientale e una a quella occidentale, sicché nessuna delle due può aprire e accedere a tale pienezza senza l’altra.
Nella città di Colmar, in Alsazia, esiste un famoso polittico di Matthias Grünewald. In esso, quando le due ali del polittico sono chiuse, si vede rappresentata la crocifissione; quando sono aperte, si vede, sul lato opposto, la risurrezione. La crocifissione è di un realismo impressionante: si vede un Cristo spasimante, con le dita delle mani e dei piedi contorte e protese come sterpi di un albero secco; il corpo è come arato e ha spine e chiodi confitti in ogni parte. E’ uno di quei quadri di Cristo, di cui Dostoevskij diceva che, osservandoli a lungo, “si può anche perdere la fede” .
D’altra parte, il Risorto appare, in quella pittura, immerso in una luce sfolgorante che appena lascia intravedere i tratti di un volto umano. Se uno si ferma ad esso, rischia, se non di “perdere la fede”, certo la fiducia, perché questo Cristo gli appare lontano dalla sua esperienza di sofferenza. Guai, dunque, a dividere questo polittico, o a osservarlo da un lato solo. E’ un simbolo efficace di quello che dovrebbe avvenire, su scala più ampia, del Cristo ortodosso e del Cristo occidentale. Essi devono essere tenuti insieme.
3. Uniti dall’amore per Cristo
Fin qui abbiamo proceduto sulla scorta dei Padri e dei testimoni del passato. Abbiamo fatto, più che altro, la storia delle rispettive posizioni intorno alla persona di Cristo. Ma non è questo che ci farà veramente progredire sulla strada dell’unità; non è, in altre parole, la sostanziale unità dottrinale e di fede in Cristo, per quanto indispensabile; sarà l’unità nell’amore per Cristo! Quello che unisce in profondità ortodossi e cattolici e che può far passare in secondo ordine ogni differenziazione, è un comune, rinnovato amore per la persona di Gesú di Nazareth. Non però il Gesú del dogma, della teologia e delle rispettive tradizioni, ma il Gesú risorto e vivente oggi. Il Gesú che è per noi un “tu”, non un “egli”. Per usare una distinzione cara a un teologo ortodosso contemporaneo, non il Gesú personaggio, ma il Gesù persona.
Nel corpo umano vi sono due polmoni, due occhi, due piedi, due mani (tutte metafore usate spesso per descrivere i rapporti di sinergia tra Oriente e Occidente), ma vi è un solo cuore! Anche il corpo che è la Chiesa ha un solo cuore e questo cuore deve essere l’amore per Cristo. Scrive uno degli autori spirituali più amati, e non solo dall’Ortodossia, Nicola Cabasilas:
“Al Salvatore è preordinato l’amore umano fin dal principio, come a suo modello e fine, quasi uno scrigno così grande e così largo da poter accogliere Dio […]. Il desiderio dell’anima va unicamente al Cristo. Qui è il luogo del suo riposo, poiché lui solo è il bene, la verità e tutto ciò che ispira amore (eros)” .
Ugualmente, in tutta la spiritualità monastica occidentale, è risuonata la massima di san Benedetto: “Nulla assolutamente anteporre all’amore per Cristo” . Questo non significa restringere l’orizzonte dell’amore cristiano da Dio a Cristo; significa amare Dio nella maniera in cui egli vuole essere amato. Non si tratta di un amore mediato, quasi per procura, per cui chi ama Gesù “è come se” amasse il Padre. No, Gesù è un mediatore immediato; amando lui si ama, ipso facto, anche il Padre, perché egli è “una cosa sola con il Padre” (Gv 1 0,30). Il cristiano può, a buon diritto, applicare a Cristo risorto e vivo nello Spirito, ciò che Paolo diceva di Dio agli ateniesi: “In lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” (At 7, 28).
Poiché siamo nell’anno della vita consacrata, vorrei dedicare ad essa un pensiero particolare. Mi permetto di riprendere al riguardo alcune riflessioni che facevo, tempo fa, in questa stessa sede, commentando l’enciclica di Benedeto XVI “Deus caritas est”. In essa l’allora Sommo Pontefice afferma che amore di donazione e amore di ricerca, agape ed eros (quest’ultimo inteso nel suo senso nobile, non in quello volgare) sono due componenti inseparabili nell’amore di Dio per noi e del nostro amore per Dio. In questo riconoscimento, l’Oriente ha preceduto l’Occidente , rimasto per molto tempo prigioniero della tesi contraria, cioè della incompatibilità tra agape e eros .
L’amore soffre ancora, in questo campo, di una nefasta separazione, non solo nella mentalità del mondo secolarizzato, ma anche, nel versante opposto, tra i credenti e in particolare tra le anime consacrate. Nel mondo troviamo, spesso, un eros senza agape; tra i credenti troviamo spesso una agape senza eros. L’eros senza agape è un amore romantico, più spesso passionale, fino alla violenza. Un amore di conquista che riduce fatalmente l’altro a oggetto del proprio piacere e ignora ogni dimensione di sacrificio, di fedeltà e di donazione di sé, in altre parole di agape.
L’agape senza eros ci appare come un “amore freddo”, un amare “con la cima dei capelli”, più per imposizione della volontà che per intimo slancio del cuore; un calarsi dentro uno stampo precostituito, anziché crearsene uno proprio e irripetibile, come irripetibile è ogni essere umano davanti a Dio. Gli atti di amore rivolti a Dio somigliano, in questo caso, a quelli di certi innamorati sprovveduti che scrivono all’amata lettere d’amore copiate da un apposito prontuario.
L’amore vero e integrale è una perla racchiusa dentro due valve che sono l’eros e l’agape. Non si possono separare queste due dimensioni dell’amore senza distruggerlo. Così si presenta l’amore di Dio per noi, rivelato nella Bibbia. Esso non è solo perdono, misericordia, donazione di se; è anche passione, desiderio, gelosia; non è solo amore paterno e materno, ma anche sponsale. Dio ci desidera, sembra quasi che non possa vivere senza di noi. Così Cristo vuole che sia anche l’amore dei suoi consacrati per lui.
La bellezza e la pienezza della vita consacrata dipende dalla qualità del nostro amore per Cristo. Solo esso è capace di difendere dagli sbandamenti del cuore. Gesù è l’uomo perfetto; in lui si trovano, a un grado infinitamente superiore, tutte quelle qualità e attenzioni che un uomo cerca in una donna e una donna nell’uomo. Il voto di castità non consiste nella rinuncia a sposarsi, ma nel preferire un tipo di sposalizio a un altro, nello sposarsi con “il più bello tra i figli dell’uomo”. “Casto –scrive san Giovanni Climaco – è colui che scaccia l’eros con l’eros” , l’amore di un uomo o di una donna con l’amore per Cristo.
Concludiamo ascoltando il più antico inno a Cristo, conosciuto al di fuori della Bibbia, tuttora in uso nei vespri della liturgia ortodossa, e nelle liturgie cattolica, anglicana e luterana. Si usa al momento di accendere le luci vespertine ed è detto perciò “lucernario”:
Luce gioiosa della santa gloria del Padre immortale,
celeste, santo, beato, o Gesù Cristo!
Giunti al tramonto del sole e, vista la luce vespertina,
inneggiamo a Dio Padre, Figlio e Spirito Santo.
È cosa degna cantarti in ogni tempo con voci armoniose,
o Figlio di Dio, tu che dai la vita:
l’universo proclama la tua gloria.