Oriente e occidente di fronte al mistero della Salvezza
Quinta Predica di Quaresima
Autore: Cardinale Raniero Cantalamessa
Con questa meditazione concludiamo il nostro giro di ricognizione della comune fede dell’Oriente e dell’Occidente, e lo concludiamo con quello che ci riguarda più direttamente, il problema della salvezza: come, cioè, Ortodossia e mondo latino hanno compreso il contenuto della salvezza cristiana.
È, probabilmente, il campo nel quale è più necessario, per noi latini, volgere lo sguardo a oriente, per arricchire e, in parte, correggere il nostro modo diffuso di concepire la redenzione operata da Cristo. Abbiamo la fortuna di farlo in questa cappella dove l’opera di Cristo e il mistero della salvezza è stato rappresentato secondo la concezione che di essi ha avuto la Chiesa d’Oriente e l’iconografia bizantina.
Partiamo da una autorevole presentazione del differente modo di intendere la salvezza tra Oriente e Occidente che si legge nel Dictionnaire de Spiritualité e che sintetizza l’opinione dominante negli ambienti teologici:
“Lo scopo della vita per i cristiani greci è la divinizzazione, quello dei cristiani d’Occidente è l’acquisizione della santità […]. Il Verbo si è fatto carne, secondo i greci, per restituire all’uomo la somiglianza con Dio perduta in Adamo e per divinizzarlo. Secondo i latini, egli si è fatto uomo per redimere l’umanità […] e per pagare il debito dovuto alla giustizia di Dio”.
Cercheremo di vedere dove si fonda questa diversa visione e cosa c’è di vero nel modo con cui essa viene descritta.
1. I due elementi della salvezza nella Scrittura
Già nelle profezie dell’Antico Testamento che annunciano “la nuova ed eterna alleanza” si nota la presenza di due elementi fondamentali: uno negativo che consiste nell’eliminazione del peccato e del male in genere, e uno positivo che consiste del dono di un cuore nuovo e di uno spirito nuovo; in altre parole, nel distruggere le opere dell’uomo e nel riedificare, o ripristinare, in lui l’opera di Dio. Un testo chiaro, in questo senso, è il seguente di Ezechiele:
”Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le vostre impurità e da tutti i vostri idoli, vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo le mie leggi e vi farò osservare e mettere in pratica le mie norme” (Ez 36, 25-27).
C’è qualcosa che Dio verrà a togliere dall’uomo: l’iniquità, il cuore di pietra, e qualcosa che verrà a mettere nell’uomo: un cuore nuovo, uno spirito nuovo. Nel Nuovo Testamento queste due componenti sono evidenti. Fin dell’inizio del Vangelo, Giovanni Battista presenta Gesú come “l’Agnello che toglie il peccato del mondo”, ma anche come “colui che battezza nello Spirito Santo” (Gv 1, 29. 33). Nei sinottici prevale l’aspetto della redenzione dal peccato. In essi, Gesú applica a se, in più occasioni, la vicenda del Servo di Jahvé che prende su di sé ed espia i peccati del popolo (cf. Is 52, 13 – 53,9); nell’istituzione dell’Eucaristia, egli parla del suo sangue versato “per la remissione dei peccati” (Mt 26,28).
Anche in Giovanni è presente questo aspetto, legato, appunto, al tema dell’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo. Nella sua Prima Lettera, Gesú è presentato come “la vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto dei nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo” (1 Gv 2,2). Più accentuato, però, è in Giovanni l’elemento positivo. Con il Verbo fatto carne, è venuta nel mondo la luce, la verità, la vita eterna e la pienezza di ogni grazia (cf. Gv 1, 16). Il frutto della morte di Gesú messo in maggiore evidenza non è l’espiazione dei peccati, ma il dono dello Spirito (cf Gv 7, 39; 19, 34).
In san Paolo vediamo questi due elementi in perfetto equilibrio. Nella Lettera ai Romani, che possiamo considerare la prima esposizione ragionata della salvezza cristiana, dapprima egli mette in luce ciò da cui Cristo, con la sua morte di croce (Rom 3, 25), è venuto a liberarci e cioè: la morte (Rom 5), il peccato (Rom 6) e la legge (Rom 7); quindi, nel capitolo ottavo, espone tutto lo splendore di ciò che Cristo, con la sua morte e risurrezione, ha procurato all’uomo e cioè lo Spirito Santo e con esso la figliolanza divina, l’amore di Dio e la certezza della glorificazione finale. I due elementi sono presenti nel cuore stesso del Kerygma. Gesú, si legge, “è stato messo a morte per i nostri peccati ed è risorto per la nostra giustificazione” (Rom 4, 25), dove per “giustificazione” non si intende solo la remissione dei peccati, ma quello che viene detto di seguito nel testo: grazia, pace con Dio, fede, speranza amore di Dio effuso nei cuori (Rom 5, 1-5).
Come sempre, nel passaggio dalla Scrittura ai Padri della Chiesa, si assiste a una diversa recezione di questi due elementi. Secondo l’opinione comune, riassunta dal Bardy nel testo citato, l’Oriente ha recepito l’elemento positivo della salvezza: la deificazione dell’uomo e il ripristino dell’immagine di Dio; l’Occidente ha recepito l’elemento negativo, la liberazione dal peccato. La realtà è assai più complessa, e chiarirla non potrà che facilitare la reciproca comprensione.
Vediamo anzitutto di correggere alcune generalizzazioni che fanno sembrare le due visioni della salvezza più distanti tra loro di quello che sono in realtà. Non c’è da meravigliarsi, anzitutto, se nell’ambito latino non troviamo alcuni concetti centrali per i greci, come quello di “divinizzazione” e di “ripristino dell’immagine di Dio”. Essi non compaiono, come tali, nel Nuovo Testamento che è l’unica fonte comune, anche se servivano a veicolare un modo squisitamente biblico di intendere la salvezza. Il termine stesso theosis, divinizzazione, destava riserve per l’uso che se ne faceva nel linguaggio pagano e in quello della Roma imperiale (apotheosis).
I latini esprimevano di preferenza l’effetto positivo del battesimo con il concetto paolino della figliolanza divina. Secondo san Giovanni della Croce, nell’anima cristiana, si compiono, per grazia, le operazioni che avvengono, per natura, nella Trinità: una dottrina non lontana da quella ortodossa della deificazione, ma basata sull’affermazione giovannea dell’inabitazione della Trinità (Gv 14,23).
Un’altra osservazione. Non è del tutto vero che la soteriologia ortodossa si riassume nella visione ontologica della divinizzazione e quella occidentale nella teoria giuridica di sant’Anselmo, della espiazione dovuta al peccato. L’idea di sacrificio per il peccato, di riscatto, di pagamento di un debito (perfino, in alcuni casi, di un riscatto pagato al diavolo!) è presente in sant’Atanasio, in san Basilio, in san Gregorio Nisseno e nel Crisostomo, non meno che nei loro contemporanei latini. Basta per questo consultare una buona ricostruzione del pensiero cristiano delle origini. Un testo fra i tanti è questo di Atanasio che pure è uno dei più decisi assertori della tesi della divinizzazione:
“Rimaneva ancora da pagare il debito che tutti dovevamo, poiché tutti eravamo condannati a morte, e questa fu la causa principale della sua venuta tra noi. È per questo che, dopo aver rivelato la sua divinità con le sue opere, gli rimaneva da offrire il sacrificio per tutti, cedendo il tempio del suo corpo alla morte per tutti”.
Per questi antichi Padri greci, il mistero pasquale di Cristo è ancora parte integrante e via alla divinizzazione. Lo è ancora in epoca bizantina. Per Nicola Cabasilas, esistevano due muri che impedivano la comunicazione tra Dio e noi: la natura e il peccato. “Il primo fu tolto di mezzo dal Salvatore con la sua incarnazione, il secondo con la crocifissione, poiché la croce distrusse il peccato”.
Solo in qualche caso, vediamo affermarsi, in seno all’Ortodossia, l’idea di una salvezza del genere umano attuata in radice dall’incarnazione stessa del Verbo, intesa come assunzione non di un’umanità singola, ma della natura umana presente in ogni uomo, alla maniera dell’universale platonico. In un caso estremo, la divinizzazione avviene perfino anteriormente al battesimo. Scrive san Simeone il Nuovo Teologo:
“Scendendo dal tuo santuario eccelso senza distaccarti dal seno del Padre, e incarnato e nato dalla santa Vergine Maria, già allora mi hai riplasmato e vivificato, liberato dalla colpa dei progenitori e preparata la salita al cielo. Poi, dopo avermi creato e a poco a poco fatto crescere, tu, anche nel tuo santo battesimo della nuova creazione, mi hai rinnovato e ornato dello Spirito Santo”.
Fin qui, dunque, le diverse teorie della salvezza non sono così nettamente ripartite tra Oriente e Occidente, come spesso si vorrebbe far credere. Dove la differenza è netta e costante, dall’inizio ad oggi, è invece il modo di intendere il peccato originale e quindi l’effetto primario del battesimo. Gli orientali non hanno mai inteso il peccato originale nel senso di una vera “colpa” ereditaria, ma come la trasmissione di una natura ferita e incline al peccato, come una perdita progressiva dell’immagine di Dio nell’uomo, dovuta non solo al peccato di Adamo, ma a quello di tutte le generazioni successive.
Con il simbolo Niceno – Costantinopolitano tutti, greci e latini, professano “un solo battesimo per la remissione dei peccati”, ma per gli Orientali il battesimo non ha principalmente lo scopo di togliere il peccato originale (nei bambini, questo scopo non lo ha affatto), ma quello di liberare l’uomo dalla potenza del peccato in genere, ripristinare l’immagine di Dio perduta e inserire la creatura nel nuovo Adamo che è Cristo. Questa diversa prospettiva si riflette, per esempio, nell’immagine che si ha della Vergine Maria. In occidente, ella è vista come “Immacolata”, cioè concepita senza il peccato (macula) originale, fino alla definizione dommatica di tale titolo; in oriente, il titolo corrispondente è quello della Panhagia, la Tutta santa.
2. Un confronto asimmetrico
Non ho bisogno di soffermarmi altrettanto a lungo sul modo occidentale di concepire la salvezza operata da Cristo, perché esso ci è più familiare. Diciamo solo che qui si assiste a un singolare paradosso. Colui che è stato, in tutto l’arco del cristianesimo, il cantore per eccellenza della grazia, che meglio di tutti ne ha messo in luce la novità rispetto alla legge e l’assoluta necessità per la salvezza, che ha identificato tale dono con il Donatore stesso che è lo Spirito Santo, è stato anche colui che, per circostanze storiche, ha maggiormente contribuito a restringere il suo campo di azione.
La polemica con i pelagiani ha spinto sant’Agostino a mettere in luce, della grazia, soprattutto il suo aspetto di preservazione e di guarigione dal peccato, la cosiddetta grazia preveniente, adiuvante, sanante. La sua dottrina del peccato originale, come vera colpa ereditaria, trasmessa nell’atto della generazione sessuale, ha fatto sì che il battesimo fosse visto prevalentemente come liberazione dal peccato originale.
Né Agostino né altri dopo di lui hanno mai taciuto degli altri beni del battesimo: figliolanza divina, inserimento nel corpo di Cristo, dono dello Spirito e tanti altri magnifici doni. Sta di fatto però che, nel modo di amministrarlo e nell’opinione generale, l’aspetto negativo di liberazione dal peccato originale ha sempre prevalso su quello positivo del dono dello Spirito Santo (quest’ultimo assegnato piuttosto al sacramento della cresima). Anche oggi, se si domanda a un cristiano medio cosa significa essere “in grazia di Dio” o vivere “in grazia”, la risposta quasi certa è: vivere senza peccati mortali sulla coscienza.
È il contraccolpo inevitabile di tutte le eresie, quello di spingere la teologia a concentrare momentaneamente l’interesse su un punto della dottrina, a scapito dell’insieme. È un fatto normale che si nota in tanti momenti dello sviluppo del dogma. È quello che spinse, per esempio, alcuni autori alessandrini al limite del monofisismo per opporsi meglio al nestorianesimo, e viceversa. Cos’è che ha reso la rottura momentanea dell’equilibrio, nel caso di Agostino, così diversa e così duratura nel tempo? La risposta è semplice: la sua stessa solitaria statura e autorità!
Ci fu, dopo di lui, uno che propose una spiegazione diversa e più vicina a quella dei greci, Giovanni Duns Scoto (1265-1308). Il fine primario dell’incarnazione non è per lui la redenzione dal peccato, ma la ricapitolazione di tutto in Cristo, “in vista del quale tutto è stato creato” (Col 1,15 ss.); il fine primario è l’unione in Cristo della natura divina con quella umana. L’incarnazione perciò ci sarebbe stata anche se Adamo non avesse peccato. Il peccato di Adamo ha solo determinato la modalità di questa ricapitolazione, facendone una ricapitolazione “redentrice”.
Ma la voce di Scoto rimase isolata e solo di recente è stata rivalutata dai teologi. Quella che si impose fu un’altra voce, che non riequilibrava il pensiero di Agostino, ma lo esasperava. Parlo di Lutero, che pure ha avuto il merito, per tutta la cristianità, di rimettere la parola di Dio, la Scrittura, al centro e al di sopra di tutto, anche delle parole dei Padri, che sono pur sempre parole di uomini. Con lui, la diversità rispetto all’Oriente, nel modo di intendere la salvezza, diventa davvero radicale. Alla teoria della divinizzazione dell’uomo, si contrappone ormai la tesi di una giustizia imputata estrinsecamente da Dio che lascia il battezzato “giusto e peccatore” insieme: peccatore in se stesso, giusto agli occhi di Dio.
Ma lasciamo da parte questo sviluppo ulteriore che merita un discorso a parte. Tornando al confronto tra Ortodossia e Chiesa cattolica, bisogna mettere in luce un fatto che, agli occhi di certi autori ortodossi, ha fatto apparire in passato la nostra concezione della salvezza e della vita cristiana, diversa, quasi su tutti i punti, dalla loro. Si tratta di una asimmetria di fondo presente nel confronto. In Oriente, teologia, spiritualità e mistica sono unite; non si concepisce una teologia che non sia anche mistica, cioè esperienziale. La ricostruzione della posizione ortodossa è fatta tenendo conto di teologi, come i Cappadoci, il Damasceno, Massimo Confessore, ma anche di movimenti spirituali, quali i Padri del deserto, l’esicasmo, il monachesimo, il palamismo, la Filocalia, autori mistici quali Simeone il Nuovo Teologo, Serafino di Sarov, e via dicendo.
Purtroppo, ciò non è avvenuto in Occidente dove, anche nell’insegnamento, la mistica e la spiritualità hanno occupato, specie con l’avvento della Scolastica, un posto distinto dalla dommatica e, anzi, la mescolanza delle due cose è stata vista con sospetto. Il confronto tra Oriente e Occidente latino porterebbe a risultati molto diversi e molto meno conflittuali, se si tenesse conto dei tanti movimenti spirituali e autori mistici cattolici, nei quali la salvezza cristiana non è solo descritta, ma vissuta.
Nei tre libri, già una volta citati, che più hanno contribuito a far conoscere in occidente la “teologia mistica” dell’oriente cristiano, solo in uno si trovano due menzioni (entrambe, per giunta, tendenzialmente negative) di san Giovanni della Croce. Eppure, con il tema della “notte oscura”, egli, come diversi altri in occidente, si colloca sulla linea della visione di Dio nella tenebra di san Gregorio Nisseno. Nessuna menzione si fa del monachesimo occidentale, di san Francesco d’Assisi e della sua spiritualità positiva e cristocentrica; di scritti mistici come la “Nube della non-conoscenza”, così in sintonia con l’apofatismo della teologia orientale. Ma questo, ripeto, è colpa più nostra che degli autori orientali, se di colpa si può parlare. Siamo noi che abbiamo operato la nefasta separazione tra teologia e spiritualità e non si può chiedere agli altri di fare una sintesi che neppure noi abbiamo ancora tentato di fare.
3. Una chance per l’Occidente
Ritorniamo al giudizio del Bardy da cui siamo partiti. Secondo esso, l’Oriente ha una visione più ottimistica e positiva dell’uomo e della salvezza, l’Occidente una visione più pessimistica. Vorrei mostrare come, anche in questo caso, la regola d’oro, nel dialogo tra Oriente e Occidente, non è quella dell’aut – aut, ma quella dell’et – et. Se la dottrina orientale, con la sua altissima idea della grandezza e dignità dell’uomo come immagine di Dio, ha messo in luce la possibilità dell’incarnazione, la dottrina occidentale, con l’insistenza sul peccato e sulla miseria dell’uomo, ne ha messo in luce la necessità. Un discepolo tardivo di Agostino, Blaise Pascal, osservava:
“La conoscenza di Dio senza quella della nostra miseria produce l’orgoglio. La conoscenza della nostra miseria senza quella di Dio produce disperazione. La conoscenza di Gesú Cristo rappresenta il giusto mezzo, perché in lui troviamo e Dio e la nostra miseria”.
Per Agostino, sant’Anselmo, Lutero, l’insistenza sulla gravità del peccato era un modo diverso per far risaltare la grandezza del rimedio procurato da Cristo. Accentuavano “l’abbondanza del peccato”, per esaltare “la sovrabbondanza della grazia” (cf. Rom 5,20). In entrambi i casi, la chiave di tutto è l’opera di Gesú, vista dagli orientali, per così dire, da destra e dagli occidentali da sinistra. Le due istanze erano entrambe legittime e necessarie. Di fronte all’esplosione di “male assoluto” nella seconda guerra mondiale, qualcuno faceva notare a che cosa aveva portato la dimenticanza di questa amara verità sull’uomo, dopo due secoli di ingenua fiducia nel progresso inarrestabile dell’uomo.
Dov’è, allora, la lacuna segnalata della nostra soteriologia, per cui abbiamo bisogno, dicevo, di guardare verso oriente? È nel fatto che, in questo modo la grazia, per quanto esaltata, ha finito, in pratica, per essere ridotta alla sua sola dimensione negativa di rimedio al peccato. Anche il grido ardito dell’Exultet pasquale: “O felice colpa che ci ha meritato un tale e così grande Redentore!”, a guardare bene, non esce dalla prospettiva di peccato e redenzione.
È proprio su questo punto, grazie a Dio, che assistiamo da tempo a un cambiamento che possiamo chiamare epocale. Tutte le Chiese d’occidente, o nate da esse, da oltre un secolo, sono attraversate da una corrente di grazia che è il movimento pentecostale e i diversi rinnovamenti carismatici da esso derivati nelle Chiese tradizionali. Non è, in realtà, un movimento nel senso corrente di questo termine. Non ha un fondatore, una regola, una spiritualità propria; neppure possiede delle strutture di governo, ma solo di coordinamento e di servizio. È, appunto, una corrente di grazia che dovrebbe diffondersi in tutta la Chiesa e disperdersi in essa come una scarica elettrica nella massa, per poi, al limite, scomparire come fenomeno a se stante.
Non è possibile ignorare più a lungo, o considerare marginale, un fenomeno che, in modi più o meno profondi, ha raggiunto centinaia di milioni di credenti in Cristo in tutte le confessioni cristiane e decine di milioni nella sola Chiesa cattolica. Ricevendo per la prima volta, il 19 Maggio del 1975, i responsabili del Rinnovamento carismatico cattolico nella Basilica di San Pietro, il Beato Paolo VI, nel suo discorso, lo definì “una chance per la Chiesa e per il mondo”.
Il teologo Yves Congar, nella sua relazione al Congresso Internazionale di Pneumatologia, tenuto in Vaticano in occasione del XVI centenario del Concilio Ecumenico di Costantinopoli del 381, parlando dei segni del risveglio dello Spirito Santo nella nostra epoca, disse:
“Come non situare qui la corrente carismatica, meglio denominata Rinnovamento nello Spirito? Esso si è diffuso come fuoco che corre sulle sterpaglie. Si tratta di ben altro che di una moda… Per un aspetto, soprattutto, esso somiglia a un movimento di risveglio: per il carattere pubblico e verificabile della sua azione che cambia la vita delle persone… È come una giovinezza, una freschezza e delle nuove possibilità in seno alla vecchia Chiesa, nostra madre” .
È la realizzazione più evidente di quella “novella Pentecoste” che san Giovanni XXIII aveva in mente nel convocare il Concilio. Ciò che, in questo momento, vorrei mettere in luce è un punto preciso: in che senso e sotto quale aspetto si può dire che questa realtà è una chance, cioè una opportunità, per la Chiesa Cattolica e le Chiese nate dalla Riforma? Io penso per questo: essa permette di rimontare la china e restituire alla salvezza cristiana il ricco ed esaltante contenuto positivo, riassunto nel dono dello Spirito Santo. Lo scopo primario della vita cristiana appare di nuovo, come diceva san Serafino di Sarov, “l’acquisizione dello Spirito Santo”. San Giovanni Paolo II, in un discorso tenuto ai responsabili del Rinnovamento carismatico cattolico, nel 1998, disse:
“Il Movimento Carismatico Cattolico, […] quasi nuova Pentecoste, ha suscitato nella vita della Chiesa una straordinaria fioritura di aggregazioni e movimenti, particolarmente sensibili all’azione dello Spirito […]. Quanti fedeli laici hanno potuto sperimentare nella propria vita la stupefacente potenza dello Spirito e dei suoi doni! Quante persone hanno riscoperto la fede, il gusto della preghiera, la forza e la bellezza della Parola di Dio, traducendo tutto ciò in un generoso servizio alla missione della Chiesa! Quante vite cambiate in profondità!”
Non dico che tra le persone che si riconoscono in questa “corrente di grazia” tutti vivano queste caratteristiche, ma so per esperienza che tutti, anche i più semplici, sanno di che si tratta e aspirano a realizzarle nella loro vita. La stessa immagine esterna che si da della vita cristiana è diversa: è un cristianesimo gioioso, contagioso, vissuto nella potenza e nell’unzione dello Spirito Santo, che non ha nulla del tetro pessimismo che Nietzsche rimproverava ad esso. Il peccato non è affatto banalizzato perché uno dei primi effetti della venuta del Paraclito nel cuore dell’uomo è quello di “convincerlo di peccato” (cf. Gv 16,8). Lo so io che devo a un’esperienza del genere la mia sofferta e riluttante arresa a questa grazia, trentotto anni fa!
Non si tratta di aderire a questo “movimento” – o ad alcun movimento -, ma di aprirsi all’azione dello Spirito, in qualsiasi stato di vita uno si trovi. Lo Spirito Santo non è monopolio di nessuno, tanto meno del movimento pentecostale e carismatico. L’importante è non rimanere fuori dalla corrente di grazia che attraversa, sotto diverse forme, la cristianità intera; vedere in essa una iniziativa di Dio e una chance per la Chiesa, e non una minaccia o una infiltrazione estranea al cattolicesimo.
Una cosa può sciupare questa chance, ed essa viene, ahimè, dal suo stesso interno. La Scrittura afferma il primato dell’opera santificatrice dello Spirito sulla sua attività carismatica. Basta leggere di seguito 1 Corinzi 12 e 13, sui diversi carismi e sulla via migliore di tutte che è la carità. Sarebbe un compromettere questa opportunità, se l’enfasi sui carismi, e in particolare su alcuni di essi più appariscenti, finisse per prevalere sullo sforzo per una autentica vita “in Cristo” e “nello Spirito”, basata sulla conformazione a Cristo e quindi sulla mortificazione delle opere della carne e sulla ricerca dei frutti dello Spirito.
Spero che il prossimo ritiro mondiale del clero, organizzato in giugno qui a Roma, in preparazione al 50oanniversario del Rinnovamento Carismatico cattolico nel 2017, serva a riaffermare con forza questa priorità, pur continuando a incoraggiare in tutti i modi l’esercizio dei carismi, così utili e necessari, secondo il Concilio Vaticano II, “al rinnovamento e alla maggiore espansione della Chiesa”.
Lasciamo ai fratelli ortodossi di discernere se questa corrente di grazia è destinata soltanto a noi, Chiese dell’occidente e nate da esse, oppure se una nuova Pentecoste è ciò di cui anche l’oriente cristiano, per altro verso, ha bisogno. Nel frattempo, non possiamo fare a meno di ringraziarli per aver coltivato e tenacemente difeso lungo i secoli un ideale di vita cristiana bello ed esaltante, di cui tutta la cristianità ha beneficiato, anche attraverso lo strumento silenzioso dell’icona.
Abbiamo svolto le nostre riflessioni sulla comune fede dell’Oriente e dell’Occidente, avendo davanti a noi, in questa cappella, l’immagine della Gerusalemme celeste con santi ortodossi e cattolici riuniti in gruppi misti, a tre a tre. Ad essi chiediamo di aiutarci a realizzare, nella Chiesa di quaggiù, la stessa fraterna comunione di amore che essi vivono nella Gerusalemme celeste.
Ringrazio il Santo Padre e voi Venerabili Padri, fratelli e sorelle, del benevolo ascolto e auguro a tutti Buona Pasqua!
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