Patroni d'Italia
Discorso in occasione dell'Udienza Generale sui Patroni d'Italia
Autore: Papa Pio XII
Ammirevole spettacolo e al tutto degno della universale paternità apostolica, Venerabili Fratelli e diletti Figli, fu più volte, in secoli dal nostro lontani, il vedere in questo insigne tempio di Santa Maria sopra Minerva i Successori di Pietro, Nostri Antecessori, venuti con solenne corteo a celebrare i divini misteri nella dolce festività della Santissima Annunziata, e onorare con mano amorevole la pubblica distribuzione alle fanciulle di doti claustrali e nuziali, estimatori, com’erano, della verginità sacra a Dio e della onesta maternità familiare, vegliante, insieme con gli angeli celesti, sulle candide culle, nidi di angeli umani. A tale lieta storica ricordanza l’animo Nostro esulta in mezzo al Nostro amato popolo che Ci circonda devoto; e nella visione del passato, se pur bello di altra luce, contempliamo rinnovato e ripresentato, in festa di duplice e novissima aureola, lo splendore di questo altare, sotto cui dormono le venerate spoglie di una vergine eroica, sposa di Cristo, paladina della Chiesa, madre del popolo, angelo di pace all’italica famiglia. Al Nostro sguardo accanto a lei leva la fronte un poverello, vestito di saio e cinto di una corda, dall’aspetto serafico, dalle mani e dai piedi segnati di cicatrici, dall’occhio che contempla il cielo, i monti e le valli, il valico dei fiumi e dei mari, e nel suo amore e nel suo saluto abbraccia l’agnello e il lupo, gl’infelici e i felici, i concittadini e gli estranei. Sono questi, o Italia, i tuoi alti Patroni al cospetto di Dio, il quale pure ti ebbe privilegiata fra tutte le sponde del Mediterraneo e degli oceani, stabilendo in te, attraverso le mirabili vicende di un popolo prode, ignaro del consiglio e della mano divina, la sede e l’impero pacifico del Pastore universale delle anime redente dal sangue di Cristo. Caterina e Francesco, sotto il beatificante ciglio di Dio, guardano Roma e le regioni italiche, perché l’amore, che nutrirono quaggiù vivendo e operando, non si spegne nel cielo, ma si rinfiamma nell’imperituro amore di Dio.
La carità, che non viene meno verso Dio e verso i fratelli e fa che a Dio la mente dell’uomo rivolga se stessa e le sue azioni, è religione, che, quanto più sale al cielo e adora, tanto più nel ridiscendere in mezzo agli uomini si espande e grandeggia, illumina e riscalda, come i raggi emananti dal sole. E sole di Siena fu Caterina, a quel modo che sole di Assisi fu Francesco. I loro raggi furono luce e calore non solo dell’Umbria e della Toscana, ma ancora delle terre e del cielo d’Italia, e oltre i confini delle Alpi e del mare. Due anime giganti in fragili corpi: anima di virago la vergine di Siena; anima di cavaliere il giovane di Assisi. Uguali e diverse; perché è vanto della santità il pareggiare i suoi eroi nell’ardore e nel fuoco dello spirito; come è arte sua il differenziarli nelle vie e nelle opere anche di un medesimo bene, e rendere l’uno più pronto a conversare cogli umili, l’altra più presta a trattare coi grandi; l’uno vestito del suo scuro saio di Patriarca della milizia francescana, l’altra in abito candido sotto il nero manto domenicano.
Il manto domenicano e il saio francescano, che già per le sue vie la Città eterna vide in Domenico e in Francesco abbracciarsi con palpito di perenne amicizia, oggi s’incontrano nell’ombra di questo glorioso tempio innanzi alla tomba di Caterina da Siena, e si uniscono fraternamente nell’esaltare in Roma i due primari Patroni celesti d’Italia. Se le sacre spoglie di Domenico e di Francesco sono lontane, qui presenti stanno i figli dell’uno e dell’altro Patriarca; e dalle loro labbra esce una voce che fa un solo coro risonante dei nomi di Caterina e di Francesco e li avvolge nella stessa lode e invocazione, cui non vale a dividere o scemare il tempo che li separa, mentre li congiunge una medesima santa idea di lotta e di pace per Cristo, per la Chiesa e per l’Italia.
Dio fece grande e operosa in Caterina la donna; operoso e grande in Francesco l’uomo, esaltando in essi, con tratti di divine e somme immagini, le radici dell’umana famiglia, e coronando ambedue del sigillo di stimmate di passione ineffabile, in Francesco aperte, in Caterina (lei vivente) invisibili, quasi a dimostrare che anche sotto il velo della carne con un medesimo dolore si vive e si opera nell’amore. È il mistero della vita e dell’opera dei santi, degli eroi e delle eroine di Cristo: di sublimarsi nell’amore per inabissarsi in un dolore, che è imitazione di Cristo, compassione degl’infelici, sacrificio e olocausto di se stessi per la loro rigenerazione e concordia, restaurazione dei costumi, rimedio dei mali, lotta per il bene e per la pace, vittoria e trionfo della verità nella giustizia e nella carità dei fratelli e dei popoli; in un dolore che non soffoca o spegne il sorriso sul labbro, né la benignità della parola o nel cuore il balzo della tenerezza e l’ardore del coraggio. Non è forse questo il gaudio di Paolo negli affanni delle sue tribolazioni? «Superabundo gaudio in omni tribulatione nostra » [1].
Caterina era nata con un cuore di donna e un ardimento di martire, con una mente pronta e un animo virile; e in lei voi vedete un fulgido esempio di ciò che in tempi agitatissimi può la donna forte. Se, di sotto a quest’altare, si levasse viva in mezzo a noi, ne udireste, meglio che dalle mirabili sue lettere, l’ardente e mite impeto di uno zelo apostolico, vibrante in voce di vergine, la quale altra patria non conosce che il cielo, e in cielo vorrebbe cambiata anche la patria di quaggiù. La Chiesa di Cristo, ella scrive, è un glorioso giardino, dove Dio mette i suoi lavoratori che lo coltivino, e quei lavoratori siamo tutti noi; in un modo, tutti i fedeli cristiani, i quali debbono lavorare con umili e sante orazioni e con vera obbedienza e riverenza alla Santa Chiesa; in altro modo, coloro che sono posti per ministri dei santi sacramenti a pascere e nutrire spiritualmente i credenti; in terzo modo, coloro che servono la Chiesa fedelmente dell’avere e della persona per il suo incremento e la sua esaltazione, « virilmente affaticandosi con vera e santa intenzione per la dolce sposa di Cristo. È questa (dice la vergine Senese) la più dolce fatica, e di più utilità, che alcuna altra fatica del mondo » [2]. Tutto è dolce per lei, che di dolcezza insapora la croce e la morte, il cielo e la terra. E in questo servigio della Chiesa voi ben comprendete, diletti Figli, come Caterina precorra i nostri tempi, con una azione che amplifica l’anima cattolica e la pone al fianco dei ministri della fede, suddita e cooperatrice nella diffusione e difesa del vero e nella restaurazione morale e sociale del vivere civile. « Ora è il tempo dei martiri novelli…», essa esclamava, « però che, servendo alla Chiesa e al Vicario di Cristo, servite a… Cristo crocifisso » [3]. E l’eroica vergine di Siena, sorretta dalla visione e dal mandato del suo dolce Gesù, combatté per la Chiesa e per il Vicario di Cristo; nuova Debora, liberatrice della sua gente [4], nuova Giuditta senza ferro. Se per lei la Chiesa era il giardino dei cristiani, era pure insieme la vigna del Signore, nella quale conviene lavorare la vigna dell’anima nostra e la vigna del prossimo [5], che è quella dei fratelli per sangue, per vicinato, per patria; tra i quali si sentì figlia, sorella, madre di affetto, di compassione e di aiuto.
E come lavorasse l’anima sua, non lo dicono forse i gigli virginei del suo cuore e il fuoco della carità, onde fu innamorata di Dio e del prossimo? Nella breve giornata dei suoi trentatré anni, quanto non fece questa angelica vergine d’Italia! Dall’opera di lei comprenderete l’indole e la tristezza del suo tempo, quando la sede di Pietro era esule dall’Urbe, quando Roma vedovata era in preda alle fazioni, quando i municipi italiani venivano parteggiando e fieramente guerreggiandosi, quale per i guelfi, quale per i ghibellini. Nell’azione di questa donna forte splende tutto ciò ch’è di vero, di onesto, di giusto, di santo, di amabile, tutto ciò che fa buon nome, che è virtù e lode di disciplina [6]. A lei la massima gloria di aver ricondotto a Roma il Pontefice, impresa, a cui non valse la più armoniosa lira del suo secolo temprata dalla dolcezza italica. Per Urbano VI Caterina fu la rinata Matilde di Canossa; e con lettere a regine, a principi, a municipi, gli mantenne fedele l’Italia, umiliando l’avversario con l’esaltazione della vittoria riportata a Marino dall’esercito di Alberico da Barbiano.
In Roma morirà l’eroica donna; moriva nel settimo lustro dei suoi anni pieni di ardente vita; moriva fra la sua famiglia spirituale commossa, presente l’addoloratissima sua madre. Spettacolo memorando e sublime in quell’ora della nascita, non alla terra, ma al cielo! Moriva pregando per il Papa e per la Chiesa, divina tutrice della fede e della gloria d’Italia; e nella tranquillità della morte, aspettando la risurrezione rinnovatrice di vita più fulgida e non caduca, Noi la contempliamo sotto quest’ara e invochiamo il suo potente nome a protezione non solo di Roma, ma dell’Italia tutta.
Accanto a questa santa eroina di Siena degno è che s’invochi il nome del santo eroe di Assisi: Francesco, cavaliere amante della povertà di Cristo, ambiziosa del cielo ch’è suo, padre delle sacre legioni degli amici del popolo, suscitatore della carità diffusiva di pace e di bene fra gli uomini e nelle famiglie. E veramente egli, in tempi non meno tristi, precorse Caterina, e, al pari di lei, fu all’Italia un’aurora di rinnovamento spirituale e pacifico. Ignudo atleta fra i famelici dell’oro, con un cuore più largo che la miseria umana, sprezzatore di ogni dispregio, era pure stato il fiore dei giovani, prodigo e amante del lusso, il sonatore e il cantore delle allegre comitive, il guerriero prigioniero di Perugia, prostrato da Dio nel cammino verso le Puglie, per risorgere vaso di elezione a portare il nome di Cristo in mezzo al popolo e alle genti.
L’amore dei poveri e degl’infermi lo fece tra i poveri il più povero; perché nel povero contemplava l’immagine di Cristo; perché in questa gran valle della umanità sono più gli umili ed i poveri che i grandi ed i fortunati, a quel modo che sono più le valli e le pianure che i monti sulla faccia della terra. Mistiche nozze innanzi al duro suo genitore contrasse con la povertà, ascendendo con lei il sentiero della vita, lieto e operoso, fino al monte dalla nudità crocifissa sigillata nelle sue carni. Una tale nudità di beni terrestri lo collocò superiore agli onori e alle irrisioni, agli allettamenti e ai disagi, a tutto ciò che il mondo chiama beni e mali, largendogli quella ricchezza di spirito, che, nulla avendo, ha ogni cosa, perché nulla vuole, o, per meglio dire, nulla vuole, perché nel suo nulla trova ogni cosa, avendo deposto ogni desiderio di quaggiù per riporre ogni brama nel Padre celeste che nutre gli uccelli dell’aria e veste i gigli del campo.
Il poverello di Assisi, coperto di un saio ricamato di gloriosi squarci, avuto da un pezzente in cambio delle sue ornate vesti, levava, qui in Roma, sulle soglie dell’antica basilica del Principe degli Apostoli, la bandiera della povertà, quanto più lacera, tanto più bella, e apriva un nuovo cammino ai campioni della santità e della virtù, ai moderatori delle passioni umane, ai conciliatori delle discordie cittadine, ai restauratori della convivenza familiare e sociale, ai rinnovatori della pubblica pace e tranquillità. Quanti mossero sulle sue orme i piedi! Quanti si adunarono sotto le stuoie delle sue capanne alla Porziuncola! Quante vergini con Chiara di Assisi furono sue discepole! Quanti Frati Minori e Terziari guardarono a lui!
Roma vide più volte Francesco pellegrino per le sue vie; lo vide prono innanzi al Pontefice approvante la Regola di lui; lo vide stringersi al petto Domenico; e vide ambedue venerare come Madre la Santa Chiesa Romana, fratelli nel servirla, nel propagarla e nel difenderla, com’erano fratelli nella sequela del primo consiglio di Cristo.
La povertà di Cristo non impiccolisce il cuore, non restringe né spegne l’ardimento dell’animo generoso, ma alleggerisce il fardello della via, mette le ali al piede, infiamma lo zelo per accendere in ogni terra quel fuoco, che il Redentore era venuto a portare quaggiù. Così l’amore di Cristo trae Francesco dalla sua Tebaide, lo fa araldo del Vangelo, apostolo e adunatore di apostoli, pacificatore e padre di mistici cavalieri della pace e del bene, annunziatore del regno dei cieli nell’Umbria, nell’Italia, nell’Europa, nel mondo. La sua parola risonò in Assisi, nella valle di Spoleto, per le regioni italiche; i suoi piedi lasciarono orme per le strade di Spagna, sul suolo di Egitto, della Siria e della Palestina, di là dall’Adriatico; ascoltarono la sua voce popoli di diverse lingue e costumi, il Sultano del Nilo, gli uccelli della foresta. Ardente il suo cuore palpitava per tutte le creature di Dio, e a lui erano fratelli e sorelle il sole, la luna e le stelle, il vento, l’acqua, il fuoco, la nostra madre terra.
Messaggero del gran Re, se dai Capitoli generali dei suoi frati diletti diffuse missionari per l’Europa e nell’Africa, fortemente amò il paese, dove Dio gli aveva dato così dolce luogo nativo, e di qua e di là dall’Appennino peregrinò sovente, spargendo colla parola della fede e coll’esempio della virtù il profumo di quella santità cortese, lieta, amorosa di Dio e della natura, ardente della mansuetudine e della pace di Cristo, che coi suoi figli fece dell’Italia la terra di Francesco, a lui fervidamente devota, stringendo col cingolo francescano pontefici e re, ricchi e poveri, felici e sventurati, famiglie e popolani di ogni condizione e di ogni età.
Invocate dunque, o Romani, invocate, o diletti figli d’Italia, Francesco di Assisi e insieme a lui Caterina da Siena, quali alti Patroni vostri innanzi a Dio. Ai piedi di molti eroi di santità già vi inchinate pregando, implorando, ringraziando, lodando, e la vostra devozione e pietà, la quale più fervida e filiale si innalza alla Regina dei santi, sale al cielo non meno gradita a lei che al divino suo Figlio, glorificatore dei santi. Ma Dio, come nella varietà delle stelle del firmamento, esalta talora, nella schiera dei suoi eroi, anime da lui plasmate a cose grandi, le prepara ai turbini dei tempi, le fa portenti della loro età e dei secoli, specchi di virtù e di operosità, modelli e sproni ai posteri, nelle vicende tristi e liete del vivere civile, a rinnovare e raffermare se stessi nel bene in pro della famiglia, dei concittadini, per la Chiesa e per la patria. Tali anime eroiche Noi vediamo in Caterina e in Francesco. Che se la gran donna, che qui veneriamo ed esaltiamo, non varcò, come Francesco, i mari, né si spinse fra i barbari e gl’infedeli, non ne ebbe meno ardimentoso il cuore; e anch’ella, pacificando nel cristiano costume l’Italia, adoperandosi e soffrendo per la Chiesa e per il Pontificato Romano, soffrì e operò a onore d’Italia e a bene universale dei popoli. Sono due fulgidissime glorie d’Italia, Caterina e Francesco; in essi, ancor più che nelle virtù cavalleresche, nelle arti, nelle lettere e nelle scienze, trionfa il nome italiano. Seppero stringere in un amore i fratelli e Dio, e non mai disgiungere il servire a Dio dal servire i fratelli.
Ammirate dunque, diletti Figli, questi due eroi di tempra italiana, cui la fede sublima al cielo; e di lassù li invoca benigni e potenti, se altri mai, protettori del diletto popolo italiano, così vicino alla sede di Pietro. Quest’ora, diletti Figli, per voi, per tutti, grandi e piccoli, felici e infelici, per il mondo dei popoli, per l’Italia, è ora di preghiera e d’invocazione del patrocinio e dell’aiuto dei santi; mentre il turbine della guerra, scatenatosi dalle profondità delle passioni e degli egoismi umani, travolge nobili nazioni in lacrimevoli lotte per terra, per mare e nel cielo, rumoreggiando oscuro e minaccioso al di là delle barriere delle Alpi; mentre Dio, signore dell’universo, dal quale dipendono gl’imperi e che solo è Colui il quale innalza e abbassa i troni e rende vani i pensieri dei popoli [7], guarda quaggiù se vi sia uomo che mediti su tante rovine e se ne accori, e porga la mano alla giustizia che richiama la pace. Presso questo Dio, che perdonando fa più manifesta la sua potenza, imploriamo l’intercessione dei nostri insigni protettori, Caterina e Francesco, custodia e difesa d’Italia.
O Gesù, Verbo onnipotente, Re dei secoli, che al dividere che faceste le genti e al separare i figli di Adamo, fissaste i termini dei popoli [8] e entro i confini d’Italia eleggeste e stabiliste il luogo santo, ove siede il vostro Vicario, guardate benigno questo popolo e questa terra da voi prediletta, bagnata dal sangue dei Principi dei vostri Apostoli e di tanti martiri, consacrata dalle virtù e dall’opera di tanti vostri Vicari, vescovi, sacerdoti, vergini e servi buoni e fedeli. Qui la fede in voi brillò sempre immacolata, santificò gli antri e i rifugi dei vostri credenti, purificò i templi dei falsi dèi e innalzò a voi basiliche d’oro dall’una all’altra sponda dei mari che ne circondano; qui il vostro popolo più e più si strinse intorno ai vostri altari, dimentico dei dissensi, ansioso della concordia degli animi; e qui questo medesimo popolo implora da Voi, o Re divino delle nazioni, che corroboriate della vostra grazia e del vostro favore l’intercessione, che a protezione nostra in modo più alto e particolare affidiamo, presso il vostro trono di benignità e di misericordia, ai vostri due gran Servi Francesco e Caterina. Ascoltate, o Gesù, la nostra preghiera, che per le loro mani presentiamo a voi. Voi li amaste, voi li avete fatti grandi e potenti; Voi amate anche noi, che umilmente vi preghiamo; e il vostro infinito amore vi tiene presente in questo altare, cibo e bevanda a noi, pellegrini verso il cielo, in una valle di miserie e di timori e pericoli. Per il celeste patrocinio dei gloriosi vostri Servi trionfi in noi la vostra grazia, il vostro perdono, la munificenza vostra, la pace vostra. Trionfate, o gran Dio, in noi, nelle famiglie, in tutte le terre italiche, nelle pianure e nei monti, nei palazzi e nei tuguri, nei chiostri e nei pubblici uffici, nella gioventù e nella vecchiaia, nelle aurore e nei crepuscoli della vita. Trionfate nel mondo, o Dio degli eserciti; e quella pace, che il vostro cuore dona all’Italia, quella pace che voi lasciaste ai vostri Apostoli e noi invochiamo per tutti gli uomini, quella pace ritorni in mezzo ai popoli e alle nazioni, che l’oblio del vostro amore separa, che il rancore avvelena, che la vendetta accende. O Gesù, disperdete il turbine di morte che preme sull’umanità da voi redenta: fate un solo ovile pacifico dei vostri agnelli fedeli e randagi; sicché tutti vi ascoltino e seguano la vostra voce; tutte le genti vi adorino e vi servano, e tutte in una medesima fede, speranza e amore salgano dal corso irrevocabile del tempo a inabissarsi nella pace ineffabile dell’eternità beata. Così sia.
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