Pensare sempre a Dio è impossibile
Come pregare sempre: parte prima, cap I
Autore: Padre Rodolphe Plus S.J.
Dio vive in noi. Ogni anima in grazia è portatrice dell’Altissimo, portatrice di presenza reale.
È un fatto. una realtà, una certezza.
Di fronte a questo fatto, o scoperto da poco oppure da tempo meditato, alcuni potrebbero essere tentati – e lo sono certamente – di dire: «Poiché Dio si degna di abitare continuamente in me, io non voglio avere che un desiderio: abitare continuamente con Lui nell’intimo del mio cuore. Il mio ideale sarà, ormai, non smettere un solo istante di pensare a Dio. Nostro Signore non ha forse detto che bisogna pregare sempre? Voglio dunque trasformare la mia vita in una continua preghiera.
Cominciando oggi stesso».
Che cosa vi sia di traducibile in pratica o di chimerico in questo desiderio così formulato; come conciliare le esigenze del «pregare sempre» con la necessità della nostra vita psicologica e della nostra vita quotidiana; le esortazioni ben intese del mondo invisibile che portiamo in noi, con le imperiose e legittime esigenze del mondo sensibile che ci circonda; le attrattive di una vita che vorremmo il più possibile contemplativa, con i doveri della vita attiva; in una parola: come comprendere il raccoglimento in modo da conciliare nello stesso tempo la generosità e la saggezza, ecco quanto vorremmo precisare
Tre sono i principi basilari:
1. un principio di psicologia: non si può, salvo eccezioni, applicare costantemente il proprio pensiero a Dio;
2. un principio di morale: essere uniti a Dio con la volontà è più importante che essere a Lui uniti con il ricordo;
3. un principio di ascetica: il ricordo frequente di Dio aiuta molto l’unione intima della volontà con Lui.
Oppure, più in breve e senza pregiudicare le ulteriori necessarie spiegazioni:
– pensare sempre a Dio è impossibile;
– pensare sempre a Dio non è necessario;
– pensare spesso a Dio è utilissimo.
Posti questi tre princìpi, resta da indicare come la pratica di una vita di perfetto raccoglimento sriconduca a queste tre regole:
– fare bene la propria preghiera;
– trasformare tutto in preghiera;
– seminare in tutto un po’ di preghiera.
Si impone fino dall’inizio una distinzione da cui scaturirà una grande luce: non bisogna confondere gli atti di preghiera con lo stato di preghiera. Preciseremo più avanti in che cosa consista lo stato di preghiera.
Quanto agli atti di preghiera, nessuno si può confondere. Secondo che l’orazione sarà vocale o mentale, i nostri atti di preghiera saranno parole recitate con le labbra oppure intime aspirazioni – formulate o no – che partono dal cuore, oppure slanci o silenzi unitivi. In entrambi i casi il nostro pensiero è occupato o cerca di occuparsi di Dio.
I nostri atti di preghiera sono momenti di unione affettiva della nostra mente con Dio.Questi momenti – ecco il problema – possono essere così frequenti da costituire una trama pressoché continua? O meglio. il mio pensiero può occuparsi incessantemente di Dio? Posso pensare solo a Dio?
No; e vi è una duplice impossibilità.
Anzitutto impossibilità pratica. Il nostro dovere di stato ci impone un grande numero di atti diversi dagli atti formali di preghiera: una lezione da preparare o da svolgere, un lavoro di casa o un’opera di carità, una occupazione intellettuale assorbente. E se a rigore è vero che, in mezzo alle occupazioni materiali, si può pensare ad altro senza compromettere l’azione in corso, è pur vero che un’occupazione anche solo esteriore, nella maggior parte dei casi e per la maggioranza delle persone, assorbe tutta l’attività intellettuale.
Così esige la nostra naturale debolezza. Più avanti tenteremo di dire come, con metodo e saggezza, si possa prendere qualche misura; ma il fatto rimane. Immersi nel sensibile, con l’invisibile abbiamo solo rapporti difficili e sempre frammentari. Composti, come siamo, di anima e di corpo, non ci si può chiedere – e nessuno lo può esigere – una vita da puro spirito.A questa difficoltà pratica si aggiunge una difficoltà di ordine psicologico.
Anche se le occupazioni esteriori fossero ridotte al minimo, e se l’anima – come accade nelle vocazioni contemplative – fruisse di una buona parte del suo tempo per dedicarsi all’orazione, anche allora esercizi continui di preghiera sarebbero impossibili, pena il portare entro breve lasso di tempo al male di capo e all’impotenza radicale.
Non siamo serafini. Anche gli orari dei contemplativi sono interrotti da occupazioni diverse dalla contemplazione. Nessuno può aggiungere continuamente a esercizi di preghiera altri atti di preghiera.
È dunque, un’illusione il non voler perdere in nessun momento il pensiero e il ricordo di Dio. La nostra capacità mentale non è adatta a ciò.
Dio può indubbiamente dare a un’anima speciali favori e concederle di vivere continuamente, o quasi continuamente, con il ricordo o il senso della sua presenza.
Ma allora non ci troviamo più di fronte a una presenza di Dio, risultato normale dei nostri sforzi. È Dio ad abbandonarsi al piacere di colmare la nostra imperfezione circondando l’anima con una «cappa» di raccoglimento più o meno impenetrabile ai rumori dell’esterno. Questo stato può andare dal semplice «tocco mistico», temporaneo e spesso molto breve, all’unione continua. In quest’ultimo caso la «cappa» è permanente; l’anima non possiede la cara presenza a sprazzi, ma ne gioisce stabilmente. Questo può provocare in essa, all’inizio, momenti di assorbimento che la rendono più o meno inadatta a combinarsi con il suo ambiente ordinario: ciò che vede dentro è profondamente diverso dalle scene di cartapesta in cui scorre il mondo che la circonda!
All’ultimo stadio dell’unione l’anima concilia benissimo la sua vita nella regione del sensibile con la sua vita nell’invisibile, e anche nelle occupazioni esteriori, vissute apparentemente come tutti, conserva nell’intimo il perpetuo contatto con il divino Maestro. Essa è legata ed è libera; ed è tanto più libera, quanto più è legata alla somma libertà da cui dipende nel modo più assoluto.
I maestri spirituali sono unanimi nel riconoscere che le anime favorite da quest’ultimo grado di unione con Dio sono rare. L’accordo è meno grande sul numero delle anime d’orazione dotate più o meno di periodi di raccoglimento «infuso». Tutti pensano che in ogni caso questo raccoglimento «infuso» superi il semplice potere umano, e che nessuno lo possa pretendere di diritto, neanche a prezzo dei più grandi sforzi. Ma gli uni pensano che se un’anima, psicologicamente capace e in condizioni che non la ostacoleranno in nulla, si dà alla vita perfetta, si mortifica in tutto e prega, giungerà di fatto – benché Dio non sia tenuto a concederglielo – al raccoglimento «infuso», almeno allo stato incipiente. Dio, dicono, desidera tanto donarsi che dove trova un’anima ben disposta e totalmente distaccata, le si comunicherà certamente. Certamente, sì, rispondono gli altri; ma siamo certi proprio in questo modo?
Siamo indubbiamente creati per la visione di Dio, ma al termine della nostra vita. Nel mondo della fede siamo «viatori». Dire che ogni anima mortificata è chiamata a lasciare questo mondo della fede per entrare già nel mondo del possesso diretto di Dio, non significa fare di queste anime dei «semi – viatori»? Inoltre, si obbietta ancora, non abbiamo forse esempi di persone assolutamente distaccate, che hanno vissuto a lungo, in apparenza atte a tale dono e che tuttavia non hanno mai avuto l’ombra di una grazia mistica?
Non è qui la sede per prendere posizione in questa discussione In ogni caso, il raccoglimento «infuso» – sia o non sia, di fatto, l’esito normale del raccoglimento «acquisito» – è sempre per sé stesso, e di diritto, indipendente dai nostri sforzi. Per questo non è possibile indicare una tecnica, e tanto meno una tecnica infallibile per disporsi a esso.
Difficoltà di pensare ininterrottamente a Dio, anche solo per un certo tempo
Non così per il raccoglimento detto «acquisito». Questo dipende completamente da noi, con la grazia di Dio, s’intende, ma una grazia che resta nel campo delle grazie ordinarie.
Tuttavia, è importante precisare l’estensione e i limiti di questa azione dell’uomo sulla sua immaginazione, sulla sua sensibilità, sul suo pensiero.
Sul suo pensiero l’uomo ha un dominio diretto: possiamo pensare a ciò che vogliamo. Non è lo stesso quanto all’immaginazione e alla sensibilità, sulle quali abbiamo solamente un potere indiretto: immagini e reazioni sensibili si introducono e operano in noi senza di noi, anzi, troppo spesso, contro di noi! Il nostro potere consiste unicamente nel porci in condizioni di calma, nel renderci l’ambiente favorevole. Non posso impedire a un’immagine di attraversarmi la mente, ma posso impedire a me stesso di facilitare l’entrata a certe immagini. Nonostante tutto esse forse vi entreranno, ma almeno non le avrò aiutate.
L’immaginazione e la sensibilità sono le due pazze di casa; posso limitarne le scorrerie e circoscrivere il campo delle loro evoluzioni, ma tenerle completamente a freno è impossibile. Anzi, nei momenti in cui più si desidera un po’ di pace, per esempio nella preghiera o un lavoro impegnativo, eccole insinuarsi e cominciare la loro sarabanda, a volte persino la loro ossessione.
Da queste constatazioni psicologiche elementari risulta evidente che le nostre possibilità di raccoglimento sono a un tempo grandissime e piccolissime.
Piccolissime, perché memoria e immaginazione cercano incessantemente e nostro malgrado di distrarci, e Dio solo sa come! San Gerolamo, nella solitudine del deserto, era perseguitato dal pensiero delle feste romane; sant’Antonio abate da fantasmagorie, che artisti e pittori hanno rappresentato in modo tanto suggestivo.
Grandissime, perché siamo sempre padroni, in ogni momento, di riportare virilmente la nostra mente al suo soggetto; padroni, soprattutto, di allontanare da noi in una misura molto vasta le cause preventive di distrazione.
Tutti i maestri insistono su questo punto quando parlano della preparazione remota all’orazione.
Chi si getta a corpo morto nel mondo, nelle frivolezze, nei piaceri anche innocenti, non ha ragione di lamentarsi se poi rimane a lungo senza riuscire ad occuparsi di Dio, o se si trova arido e senza pensieri al momento della preghiera. Il contrario sarebbe sorprendente.
Ho un bel provare a pregare, si dice talora, non giungo a nulla. Basta che mi metta in ginocchio perché subito, come uno stormo di passeri su delle briciole, le distrazioni si abbattano ne a mia mente e la becchino senza lasciarmi un attimo di riposo.
Non avete seminato voi stessi le briciole accogliendo tutte le distrazioni possibili, le conversazioni inutili, le letture frivole, le curiosità vane e il resto? Appena vi fermate, l’immaginazione si dà alla pazza gioia. Non vi sembra naturale?
C’è tutta un’arte di conservare limpido il pensiero, di purificare la mente, di decantare le immagini e di setacciare le impressioni. Se ogni fantasia può entrare in noi come in un mulino e gettare sotto la macina ciò che le piace, presto, invece della farina di grano puro, quanta paglia inutile si troverà! Di chi sarà la colpa?
Poiché si distrugge realmente soltanto ciò che si sostituisce, il problema non sarà tanto nell’allontanare dall’immaginazione e dalla sensibilità immagini e impressioni inutili, quanto nel suggerire alle due facoltà materia proficua; ci si dovrà dunque sforzare di vivere abitualmente con una riserva di immagini e impressioni sante e feconde.
Da ciò una sorta di circolo vizioso interessante.
Per custodire il raccoglimento abituale, il mezzo migliore sarà la fedeltà all’orazione.
Per pregare bene, la condizione migliore sarà il raccoglimento abituale.
Non senza ragione sant’Ignazio raccomanda, a chi vuole pregare con profitto, di preparare l’argomento della meditazione fin dalla sera precedente, per «occupare» la memoria. Poi addormentarsi pensando all’argomento scelto e, appena alzati, intrattenervisi tranquillamente per tutto il tempo della levata. È un consiglio da maestro di ascetica, ma anche da maestro di psicologia. Inoltre, al momento della preghiera, se si è soli, raccomanda di non mettersi subito in ginocchio, ma di restare in piedi a qualche passo dal luogo della meditazione e riflettere alcuni istanti sulla presenza di Dio, poi, baciare la terra per umiliare il corpo e associarlo all’atteggiamento religioso dell’anima.
È la preparazione prossima, che così completa l’opera della preparazione remota. Si è tentati di ritenere tutto questo minuzia, ma chi ha seriamente cercato di pregare, non ignora che bisogna invece chiamarlo saggezza e accorto buon senso.
Passare alla preghiera, come fanno alcuni, appena usciti da un’occupazione impegnativa senza alcuna transizione e poi sperare che, appena in ginocchio, si produca il silenzio interiore e abbondino i pensieri divini, è un errore. L’uomo è tutto di un pezzo. Non vi sono in lui compartimenti stagni, ma entra con tutto se stesso in ogni fase della sua attività. Necessitano prodigi di abilità per lasciare alla porta quanto non si vuole inginocchiare. Talora si ha un bel da fare: con tutta la buona volontà non si riesce a restare padroni di sé durante la preghiera. A maggior ragione non si riuscirà se una volontà previdente non ne ha preservato la soglia.
In senso inverso, la pratica dell’orazione servirà da miglior preparazione alla vita di raccoglimento.
Si tratta di introdurre in noi un deposito di immagini e di impressioni utili per la preghiera. Niente ci aiuterà meglio dell’abitudine quotidiana di una volontaria presa di contatto con Dio. Giustamente la fondatrice delle Oblate del Sacro Cuore, Louise Thérèse de Montaignac, diceva: «Abituarsi ad amare ad ore determinate attira la felice abitudine di rientrare in Dio ad ogni momento».
Sperare di vivere raccolti senza darsi alla preghiera è un calcolo errato e una pesante illusione. Pregare quando si deve e si può, e nel migliore dei modi, è il mezzo più idoneo per imparare a pregare sempre. Ritorneremo sull’argomento.
Gli autori definiscono questo genere di raccoglimento, raccoglimento infuso; lo distinguono cosi da quello che è frutto dei nostri sforzi, che denominano raccoglimento acquisito (ma che meglio si direbbe conquistato).