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Perché l’uomo desidera Dio

Autore: Antonio Ducay

1. L’uomo desidera Dio: la persona umana è orientata verso Dio, Lo desidera e intuisce che in Lui trova la piena felicità.

«L’uomo è fatto per essere felice come l’uccello per volare», ha detto un letterato russo del XIX secolo. Tutti cercano la felicità e orientano la loro vita nel modo che ritengono più opportuno per raggiungerla. Poter godere dei beni umani che ci perfezionano e ci arricchiscono ci rende felici. Però, mentre viviamo, la felicità è sempre offuscata da un’ombra. Non solo perché, a volte, dopo aver ottenuto cose buone, ci abituiamo ad esse (cosa che succede quasi sempre quando riceviamo qualcosa che avevamo voluto avere), ma, più profondamente, perché nessun bene creato è in grado di colmare l’anelito di felicità dell’uomo e anche perché i beni creati sono passeggeri.

Siamo uomini, esseri personali di corpo e di spirito (in unità, esseri personali). La nostra dimensione spirituale ci rende capaci di andare oltre le realtà concrete con le quali intratteniamo rapporti: le persone, le istituzioni, i beni materiali, gli strumenti che ci aiutano a crescere… Conoscere i diversi aspetti della realtà non consuma, né tanto meno esaurisce, la nostra capacità di conoscere, né i nostri interrogativi; possiamo sempre conoscere cose nuove o comprenderle più profondamente. E qualcosa di simile si verifica per la nostra capacità di amare: non esiste nulla di creato che ci appaghi completamente e per sempre: possiamo amare di più, possiamo amare cose migliori. E in un modo o nell’altro, ci sentiamo spinti verso tutto questo: raggiungere obiettivi nuovi ci rende felici, desideriamo comprendere meglio i problemi e le realtà che ci circondano, trovare nuove situazioni e acquistare esperienza. Durante la nostra vita cerchiamo di compiere tutto questo e ci deprimiamo quando non ci riusciamo. Sentiamo aneliti di pienezza. Tutto questo è segno di una grandezza, del fatto che c’è in noi qualcosa di infinito, che trascende ogni realtà concreta che fa parte della nostra vita.

Il mondo è transitorio. Siamo contingenti come tutto quello che sta attorno a noi. Le persone che amiamo, i risultati che otteniamo, i beni che possediamo…, non c’è nulla che possiamo trattenere per sempre. Ci piacerebbe afferrarli, averli sempre con noi perché migliorano la nostra vita, ci tengono allegri con i loro doni e le loro qualità, ci danno gioia. Tuttavia, in fondo alla nostra coscienza sentiamo che si tratta di beni transitori, che non ci accompagneranno sempre, che a volte ci promettono una felicità che possono dare solo per poco tempo. «Ogni cosa porta in sé il marchio della caducità, nascosto fra tante promesse. Infatti l’orrore e la vergogna delle cose è la loro caducità; allora, per coprire questa piaga vergognosa e ingannare gli incauti, si mascherano con vestiti variopinti»[1]. Quest’ombra che ogni cosa terrena possiede ci tocca profondamente e, se ci pensiamo bene, ci spaventa, ci fa desiderare che non sia così, che esista una via d’uscita al nostro desiderio di vita, di pienezza. Sono gli aneliti di salvezza, presenti nel cuore dell’uomo.

Per arrivare a spiegare perché l’uomo desidera Dio, abbiamo messo in evidenza due tipi diversi di aneliti umani che indicano la “fame di trascendenza” presente nell’uomo. In seguito alle diverse esperienze trascendenti del bene, si risvegliano aneliti di pienezza (di esistenza, di verità, di bontà, di bellezza, di amore). E dopo le diverse esperienze del male e la perdita di questi beni, si risvegliano aneliti di salvezza (sopravvivenza, rettitudine, giustizia, pace). Si tratta di esperienze di trascendenza che generano una nostalgia dell’al di là. Infatti, se è vero che «l’uomo è fatto per essere felice come l’uccello per volare», è pur vero che l’esperienza ci dice che la felicità in questo mondo non è completa, che la vita non è mai pienamente soddisfacente, che essa rimane al di là dei nostri tentativi di raggiungerla, come una realtà intravista e non raggiunta. Nelle profondità dello spirito umano c’è un malessere, un desiderio mai soddisfatto, una nostalgia di felicità che mira a una segreta speranza: la speranza di una casa definitiva, nella quale il sogno di una felicità eterna, di un amore per sempre, viene esaudito. Siamo terreni, ma desideriamo l’eterno.

Questo desiderio dà luogo alla religiosità naturale ed è una sorta di “indicatore” di Dio. L’uomo è un essere naturalmente religioso perché la sua esperienza del mondo lo induce a pensare spontaneamente ad un essere che è fondamento di tutta la realtà: quello «che tutti chiamano Dio», come diceva san Tommaso concludendo le sue famose cinque vie di avvicinamento a Dio[2]. La conoscenza di Dio è accessibile al buon senso, vale a dire, al pensiero filosofico spontaneo che esercita ogni essere umano, come risultato dell’esperienza di vita personale: la meraviglia davanti alla bellezza e all’ordine della natura, la sorpresa per il dono gratuito della vita, la gioia di percepire l’amore di altri… inducono a pensare al “mistero” dal quale tutto questo procede. Anche le diverse dimensioni della spiritualità umana, come la capacità di riflettere su se stesso, di fare progressi in campo culturale e tecnico, di percepire la moralità delle proprie azioni, dimostrano che, a differenza di altri enti corporei, l’uomo trascende l’universo materiale e tende verso un essere spirituale superiore e trascendente, che possa dare una giustificazione delle qualità immateriali dell’uomo.

Il fenomeno religioso non è, come pensava Ludwig Feuerbach, una proiezione della soggettività umana e del suo desiderio di felicità, ma sorge da una spontanea considerazione della realtà così com’è conosciuta. La negazione di Dio e il tentativo di escluderlo dalla cultura e dalla vita sociale e civile è un fenomeno relativamente recente, limitato ad alcune aree del mondo occidentale. I grandi interrogativi religiosi ed esistenziali continuano a rimanere invariabili nel tempo: si può smentire l’idea che la religione sia circoscritta ad una fase “infantile” della storia dell’uomo, destinata a scomparire con il progresso della conoscenza e della scienza.

La constatazione che l’uomo è un essere naturalmente religioso ha portato alcuni filosofi e teologi all’idea che Dio, nel crearlo, lo abbia già preparato, in qualche modo, a ricevere quel dono nel quale consiste la sua vocazione ultima e definitiva: l’unione con Dio in Gesù Cristo. Tertulliano, per esempio, notando che i pagani del suo tempo dicevano in modo naturale: “Dio è grande” o “Dio è buono”, pensò che l’anima umana fosse in qualche modo orientata verso la fede cristiana e nel suo Apologeticum scrisse: «Anima naturaliter christiana» (17, 6)[3]. San Tommaso, considerando il fine ultimo dell’uomo e l’apertura illimitata del suo spirito, affermò che gli esseri umani hanno «un desiderio naturale di vedere Dio»[4]. L’esperienza dimostra che esclusivamente con le energie umane non è possibile elevarsi fino a Dio e ciò si verifica quando Dio si rivela e manifesta il suo mistero: Dio viene incontro all’uomo e si mostra così come Egli è. Questo dinamismo è l’azione della Rivelazione.

Il Catechismo della Chiesa Cattolica ha riassunto sinteticamente alcune di queste idee: «Il desiderio di Dio è inscritto nel cuore dell’uomo, perché l’uomo è stato creato da Dio e per Dio; e Dio non cessa di attirare a sé l’uomo e soltanto in Dio l’uomo troverà la verità e la felicità che cerca senza posa»[5].


2. Perché l’uomo desidera Dio? La conoscenza razionale di Dio

L’intelletto umano può conoscere l’esistenza di Dio sviluppando ragionamenti, che, a partire da san Tommaso d’Aquino, sono stati chiamati “vie”. I ragionamenti iniziano da osservazioni del mondo creato e seguono due percorsi: le creature materiali (vie cosmologiche) e la persona umana (vie antropologiche).

Queste vie verso l’esistenza di Dio non sono propriamente “prove” nel senso che la scienza matematica o naturale dà a questo termine, ma argomenti filosofici, che risultano più o meno convincenti a seconda del grado di formazione e di riflessione della persona che li considera[6]. Non sono neppure “prove” nel senso delle scienze sperimentali (fisica, biologia, ecc.), perché Dio non è oggetto della nostra conoscenza empirica: non lo possiamo osservare, come si contempla un tramonto o una tempesta di sabbia per trarre delle conclusioni.

Le vie cosmologiche partono dalle creature materiali. La formulazione più conosciuta si deve a san Tommaso d’Aquino: sono le celebri “cinque vie” da lui elaborate. In forma sintetica e semplificata si possono riassumere in questo modo. Le due prime osservano che la successione delle cause (causa-effetto) presente nella natura non può proseguire nel passato fino all’infinito: dev’esserci un’origine, un primo motore e una prima causa. La terza via mette in evidenza che le cose che vediamo nel mondo possono esserci o non esserci e conclude che, dato che tutto è mutevole deve esistere un principio necessario immutabile, perché altrimenti non esisterebbe nulla. La quarta via considera che tutte le realtà che conosciamo posseggono qualità buone e deduce che deve esistere un ente origine di tutta la bontà. L’ultima (la quinta) osserva l’ordine e la finalità che sono presenti nei fenomeni del mondo, il fatto che hanno leggi che li regolano e conclude con l’esistenza di una intelligenza ordinatrice che giustifichi queste leggi e sia anche causa finale di tutto[7].

Oltre alle vie che partono dall’analisi del cosmo, ne esistono altre di carattere antropologico; in esse la riflessione inizia dalla realtà della persona umana. Queste vie hanno più forza se intese come convergenti anziché considerate isolatamente, una per una. In primo luogo il carattere spirituale dell’uomo, caratterizzato dalla sua capacità di pensare, dalla sua interiorità e dalla sua libertà, non sembra avere fondamento in nessuna realtà dell’universo. Né del resto avrebbe senso nell’uomo il suo desiderio insoddisfatto di felicità, se non esistesse un Dio che gliela possa dare. Inoltre notiamo nella natura umana un senso morale di solidarietà e di carità, che induce l’uomo ad aprirsi agli altri e a riconoscere in se stesso la vocazione di andare oltre l’io e i suoi interessi egoistici. Ci si interroga sul senso della vita: perché l’uomo è capace di discernere in modo non utilitarista, perché si rende conto che alcune cose concordano con la propria dignità e altre no, perché prova un senso di colpa e di vergogna quando agisce male, e invece prova un senso di felicità e di pace quando si comporta con giustizia; perché è capace di riempirsi di gioia guardando la bellezza di un tramonto, di un cielo pieno di stelle o di una meravigliosa opera d’arte. Nulla di questo si può attribuire all’opera cieca dell’universo, al prodotto impersonale delle interazioni materiali. Tutto ciò invita a concludere che esiste un essere infinitamente buono, bello e giusto, che ha messo in noi un barlume di ciò che Egli è e desidera per noi. Questa seconda opzione è più logica e soddisfacente. Sicuramente queste vie non sono ineccepibili, ma offrono una logica luminosa a colui che guarda la realtà con semplicità.

Il Catechismo della Chiesa Cattolica riassume in questo modo i ragionamenti proposti: «Con la sua apertura alla verità e alla bellezza, con il suo senso del bene morale, con la sua libertà e la voce della coscienza, con la sua aspirazione all’infinito e alla felicità, l’uomo si interroga sull’esistenza di Dio. In queste aperture egli percepisce segni della propria anima spirituale. “Germe dell’eternità che porta in sé, irriducibile alla sola materia”, la sua anima non può avere la propria origine che in Dio solo»[8].

Le diverse argomentazioni filosofiche utilizzate per “provare” l’esistenza di Dio non hanno come risultato necessario la fede in Lui; segnalano che questa fede è ragionevole. In realtà, queste osservazioni aiutano a concludere che Dio esiste, ma queste riflessioni richiedono anche scelte di vita che non sempre sono presenti nelle persone. Per esempio, nella cultura di oggi una conoscenza più scientifica dei processi della natura può contrapporsi alle vie cosmologiche, perché anche se l’universo manifesta un certo ordine, bellezza e finalità nei suoi fenomeni, possiede anche una notevole dose di disordine, di caos e di tragedia; molti fenomeni apparentemente si svolgono in modo fortuito (caso, caos) e possono essere causa di tragedie cosmiche. In modo analogo, chi ritiene che la persona umana è soltanto un animale un po’ più sviluppato degli altri, il cui comportamento è regolato dalle pulsioni necessarie, non accetterà le vie personali che si riferiscono alla moralità o alla trascendenza dello spirito, dato che identifica la sede della vita spirituale (mente, coscienza, anima) con la corporeità degli organi cerebrali e dei processi neuronali.

A queste obiezioni, se chi le pone è disposto ad ascoltare, si può rispondere. Taluni, ben preparati, ritengono che il disordine e il caso possono avere un posto nella finalità generale dell’universo (e pertanto in un progetto creatore di Dio). Albert Einstein ha detto che nelle leggi della natura «si rivela una ragione tanto superiore che tutta la razionalità del pensiero e degli ordinamenti umani è, a paragone, un riflesso assolutamente insignificante»[9]. Analogamente, si può dimostrare con riferimento alla ragione e alla fenomenologia umana, l’auto-trascendenza della persona, il libero arbitrio che opera nelle scelte -benché dipendano e siano in qualche misura condizionate dalla natura -e l’impossibilità di ridurre la mente al cervello. Pertanto è necessario dare ascolto al Compendio del Catechismo quando afferma che a partire «dal mondo e dalla persona umana, l’uomo, con la sola ragione, può con certezza conoscere Dio come origine e fine dell’universo e come sommo bene»[10]. È necessario precisare che la conquista di questa certezza richiede la comprensione di alcuni aspetti complessi della realtà, che offrono abbondante margine di discussione e, proprio per questo, le vie razionali di accesso a Dio non risultano, di frequente, realmente convincenti.


3. Perché l’uomo desidera Dio? Come è vista la trascendenza oggi.

Malgrado il fenomeno della globalizzazione, gli atteggiamenti riguardo a Dio e alla visione religiosa della vita presentano notevoli differenze nelle diverse parti del mondo. In termini generali, per la maggior parte delle persone il riferimento alla trascendenza – anche se espressa in forme religiose e culturali molto diverse – continua ad essere un aspetto importante della vita.

Il quadro generale mette in evidenza la posizione peculiare del mondo occidentale, e soprattutto dell’Europa, dove una serie di fattori storici e culturali hanno determinato un diffuso atteggiamento di rifiuto o di indifferenza nei confronti di Dio o nei confronti di quella che è stata storicamente la religione dominante in Occidente: il cristianesimo. Questa situazione può essere formulata secondo le parole del sociologo della religione Peter Berger, nell’idea secondo cui nella società occidentale la fede cristiana è rimasta senza una sua “struttura di plausibilità”, sicché, se in epoche passate bastava lasciarsi guidare per essere cattolico, ai nostri giorni basta lasciarsi guidare per non esserlo più. Si può dire che il desiderio di Dio sembra essere scomparso nella società occidentale: «Per larghi settori della società Egli non è più l’atteso, il desiderato, quanto piuttosto una realtà che lascia indifferenti, davanti alla quale non si deve nemmeno fare lo sforzo di pronunciarsi»[11].

Le cause di questo cambiamento sono molte. Da una parte, i grandi progressi scientifici e tecnici degli ultimi due secoli, che tanti benefici hanno apportato all’umanità, hanno però suscitato una mentalità materialista che considera le scienze sperimentali le uniche forme valide di conoscenza razionale. Si è diffusa una concezione del mondo secondo la quale è autentico soltanto ciò che è suscettibile di una verifica empirica, ciò che si può vedere e toccare. Questo riduce le “prospettive della razionalità”, in quanto, oltre a svalutare le forme non scientifiche di conoscenza (la fiducia, per esempio, in ciò che altri ci dicono), porta a interessarsi solo della ricerca di strumenti che rendono la vita più confortevole e piacevole. Tale presa di posizione non è essenziale. Esaminare la misteriosa bellezza e grandezza del mondo creato non induce a idolatrare la scienza, ma può spingere ad ammirare le meraviglie che Dio ha posto nella sua creazione. Oggi, come nel passato, molti scienziati continuano ad aprirsi alla trascendenza quando scoprono la perfezione contenuta nell’universo.

Un secondo aspetto, legato al precedente, è la secolarizzazione della società, vale a dire quel processo per cui molte realtà che in precedenza erano collegate con le nozioni, le credenze e le istituzioni religiose hanno perduto questa dimensione e ormai sono considerate in termini puramente umani, sociali o civili. Questo aspetto è legato a quello precedente, perché il progresso scientifico ha permesso di conoscere le cause di molti fenomeni naturali (nel campo della salute, dei processi vitali, delle scienze umane) che in precedenza si consideravano spesso in diretta relazione con la volontà di Dio. Per esempio, anticamente una peste si poteva ritenere un castigo divino per i peccati degli uomini, mentre oggi è considerata frutto di condizioni igieniche, di vita, ecc. che possiamo precisare e determinare. In se stessa questa migliore conoscenza della realtà è una cosa buona, e inoltre aiuta a purificare l’idea che abbiamo del modo di agire di Dio, che non è una delle tante cause dei fenomeni della natura. Dio è a un altro livello, risponde alle domande ultime che noi uomini ci facciamo: il significato della vita, del destino finale di ciascuno, della gioia e del dolore, ecc. La scienza non riesce a dare una spiegazione a questo livello, per cui, quando le persone si pongono domande più profonde, normalmente si collocano in uno spazio nel quale Dio diventa imprescindibile.

Un altro aspetto importante dell’indebolimento dell’orientamento verso Dio nella cultura attuale dell’Occidente è determinato da un atteggiamento individualista che influisce sul modo di pensare della collettività. Questo atteggiamento è conseguenza del processo di emancipazione che ha caratterizzato la cultura fin dal periodo dell’Illuminismo (XVIII secolo). Questa trasformazione, come le precedenti, ha anche alcuni aspetti positivi, dato che è contrario alla dignità umana che, con pretesti religiosi o di altro tipo, l’uomo sia posto “sotto tutela” e sia costretto a prendere decisioni in nome di dottrine imposte che risultano poco chiare. In concomitanza, ha preso piede una nuova opzione: è meglio non dipendere da nessuno e non legarsi a nessuno, per non rimanere vincolato e così poter fare quello che ognuno desidera. Chi non ha sentito dire, magari con formulazioni diverse, affermazioni come questa: la cosa principale è “essere autentici”, “vivere la propria vita” e viverla a nostro piacimento? Questo atteggiamento induce a trattare le relazioni in maniera utilitarista, badando che non abbiano vincoli né li creino, che non siano d’intralcio alla spontaneità personale. Sono ammesse solo relazioni che producono soddisfazione.

Secondo questa prospettiva, una relazione seria con Dio risulta fastidiosa e l’assoggettamento ai suoi precetti non viene percepito come mezzo che libera dal proprio egoismo; di conseguenza, la religione avrà spazio solo nella misura in cui dia pace, serenità, benessere e non sia impegnativa. Ecco perché l’atteggiamento individualista dà luogo a forme di religiosità blande, con scarsi contenuti e senza legami istituzionali: questo è l’effetto del soggettivismo e dell’affettività, e che cambiano frequentemente a seconda delle necessità personali.

Si potrebbero aggiungere altri aspetti nel descrivere la mentalità che oggi domina nelle società occidentali. Alcune caratteristiche come il culto della novità e del progresso, il desiderio di condividere, con altri, emozioni forti, il predominio della tecnologia che contrassegna il modo di lavorare, coltivare le relazioni o riposare… hanno senza dubbio una risonanza nell’atteggiamento verso la realtà trascendente e verso il Dio cristiano. È anche vero che c’è molto di positivo in questi processi: le società occidentali hanno conosciuto un lungo periodo di pace, di sviluppo materiale, sono diventate più partecipative e hanno fatto in modo di includere tutti i loro membri in questi processi benefici. In tutto questo c’è molto di cristiano. Eppure è del pari evidente che attualmente molti si rifiutano di parlare di Dio e mostrano, spesso, indifferenza o rifiuto.

In una società con queste caratteristiche, refrattaria al trascendente, un cristiano sarà convincente solo se, prima di tutto, porge una testimonianza di vita autentica e virtuosa. La testimonianza e la parola: sono entrambe indispensabili, ma la testimonianza ha la priorità. All’inizio ricordavamo che «l’uomo è fatto per essere felice come l’uccello per volare». La felicità è legata all’amore e il cristiano, attraverso la sua fede autentica, è convinto che non c’è amore più vero dell’amore che Dio ha per noi: quello che Gesù Cristo ha mostrato sulla Croce e che comunica nell’Eucaristia. La modalità efficace per riconquistare la società, che ha voltato le spalle a Dio, è l’impegno coerente del cristiano, quando manifesta, con la propria vita, la presenza di questo amore e di questa felicità.

«Non tutte le soddisfazioni producono in noi lo stesso effetto: alcune lasciano una traccia positiva, sono capaci di pacificare l’animo, ci rendono più attivi e generosi. Altre invece, dopo la luce iniziale, sembrano deludere le attese che avevano suscitato e talora lasciano dietro di sé amarezza, insoddisfazione o un senso di vuoto»[12]. La felicità di quelli che credono solamente a ciò che si può vedere o toccare, o sono dominati da una concezione utilitaristica della vita, o quella dell’individualista che non si vuole legare a niente, è passeggera, “dura finché dura”, e ha bisogno di essere continuamente rinnovata perché non dà altro di sé. Quasi sempre è una felicità che non migliora le persone. Invece, quelli che seguono il Signore con tutto il cuore conducono una vita diversa e sperimentano una felicità diversa: più profonda, più duratura, che produce frutti in se stessi e negli altri.

Non è superfluo rileggere il famoso testo della Epistola a Diogneto (V e VI), che descrive la vita dei primi cristiani: «I cristiani non si differenziano dagli altri uomini né per territorio, né per il modo di parlare, né per la foggia dei loro vestiti […]. Risiedono in città sia greche che barbare, così come capita, e pur seguendo nel modo di vestirsi, nel modo di mangiare e nel resto della vita i costumi del luogo, si propongono una forma di vita meravigliosa e, come tutti hanno ammesso, incredibile. Abitano ognuno nella propria patria, ma come fossero stranieri; rispettano e adempiono tutti i doveri dei cittadini, e si sobbarcano tutti gli oneri come fossero stranieri; ogni regione straniera è la loro patria, eppure ogni patria per essi è terra straniera. Come tutti gli altri uomini si sposano ed hanno figli, ma non ripudiano i loro bambini. Hanno in comune la mensa, ma non il letto. Vivono nella carne, ma non secondo la carne. Vivono sulla terra, ma hanno la loro cittadinanza in cielo. Osservano le leggi stabilite ma, con il loro modo di vivere, sono al di sopra delle leggi. Amano tutti, e da tutti vengono perseguitati. Anche se non sono conosciuti, vengono condannati; sono condannati a morte, e da essa vengono vivificati. Sono poveri e rendono ricchi molti; sono sprovvisti di tutto, e trovano abbondanza in tutto. Vengono disprezzati e nei disprezzi trovano la loro gloria; sono colpiti nella fama e intanto viene resa testimonianza alla loro giustizia. Sono ingiuriati, e benedicono; sono trattati in modo oltraggioso, e ricambiano con l’onore. Quando fanno dei bene vengono puniti come fossero malfattori; mentre sono puniti gioiscono come se si donasse loro la vita. I Giudei muovono a loro guerra come se fossero gente straniera, e i pagani li perseguitano; ma coloro che li odiano non sanno dire la causa del loro odio. Insomma, per parlar chiaro, i cristiani rappresentano nel mondo ciò che l’anima è nel corpo».

Antonio Ducay

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