5 minuti

Perché vogliamo mettere sempre il dito nella piaga?

Meditazione per la seconda domenica di Pasqua

Autore: Padre Gaetano Piccolo

Cammini

Quando siamo delusi, feriti o arrabbiati, facciamo fatica a vedere una speranza, a credere che si possa ricominciare. Al contrario, ci chiudiamo in noi stessi, rimuginiamo sugli errori commessi, forse cerchiamo un colpevole e ci arrovelliamo sui se, sulle alternative della storia che oggi non sono più possibili.
I testi che formano i racconti di risurrezione non ci parlano mai di discepoli che immediatamente credono o che si convincono repentinamente che Gesù sia risorto. Anzi, vediamo dei cammini, vediamo una ricerca, vediamo un passaggio dall’incredulità a un tentativo di diventare credenti. Credo che qui in fondo troviamo il cammino a cui è chiamato il discepolo di ogni tempo.

Porte chiuse

Nel Vangelo di questa domenica per esempio l’immagine che si ripete è quella delle porte chiuse del Cenacolo. Il primo giorno della risurrezione è passato, è ormai sera, l’annuncio è stato portato, eppure i discepoli sono ancora chiusi dentro. Il luogo in cui si trovano è il Cenacolo, cioè là dove Gesù ha consegnato la sua vita per amore. Eppure, tutto sembra inutile. La paura li atterrisce.
Il Cenacolo somiglia alla nostra vita, al nostro cuore, là dove il Signore ci ha parlato, si è consegnato a noi, ci ha fatto sperimentare tante volte la sua presenza. Eppure, proprio come il Cenacolo, il nostro cuore ha le porte chiuse, forse proprio per paura. È un cuore che non si lascia andare alla speranza, un cuore diffidente, un cuore che in fondo non crede che Gesù è il Signore.
Ma proprio come davanti alle porte chiuse del Cenacolo, così davanti alle porte chiuse del nostro cuore, Gesù non si rassegna. Entra lo stesso e sta in mezzo, al centro, cioè riprende quel posto dal quale il timore, la rabbia e la delusione lo hanno espropriato.

Ferite

Un’altra caratteristica dei racconti di risurrezione è la fatica dei discepoli a riconoscere Gesù. È così anche per noi: quando siamo concentrati sulle nostre paure, difficilmente riusciamo ad accorgerci che il Signore ci è accanto. Gesù si fa riconoscere e lo fa in un modo molto preciso: mostra le sue ferite, le mani perforate dai chiodi della croce e il fianco squarciato dalla lancia. Sono i segni della sua sofferenza, perché le ferite, anche le nostre, non sono mai inutili, ma dicono chi siamo. Il nostro dolore è la nostra storia. Le nostre ferite dicono come abbiamo amato. Gesù non si vergogna e non nasconde l’umiliazione e il disprezzo che ha subito.

Segni dell’incontro

L’incontro con Gesù risorto suscita finalmente la gioia nei discepoli. Quel sentimento è il segno dell’incontro. Ma anche questo mi interroga, perché mi chiedo se noi cristiani siamo uomini e donne che esprimono gioia. Come vedremo, questo testo insiste molto sulla mancata testimonianza di coloro che hanno incontrato Gesù. E proprio il fatto che non si vedano nel volto e nelle parole dei discepoli i segni dell’incontro con Gesù, impedisce ad altri di credere nella risurrezione. Quando gli altri ci guardano, dunque, vedono che abbiamo incontrato il Signore risorto?
Gesù ripete in questo testo per tre volte (due nel primo incontro e una volta ancora alla presenza di Tommaso) l’augurio della pace, lo shalom, l’augurio di una vita piena. È come se i discepoli facessero fatica ad accogliere quell’augurio, come se in fondo non lo ritenessero possibile.
Nonostante questa fatica a credere, nonostante le paure e la diffidenza, Gesù non esita ad affidare a questi discepoli impreparati la missione fondamentale: accogliere lo Spirito santo per portare nel mondo il perdono.
Qual è dunque la missione che il Signore continua ad affidarci? Non quella di giudicare, ma la missione di perdonare, cioè diventare operai della misericordia. È così che si cambia il mondo, aiutando a perdonare, a ricostruire le relazioni, a rinnovare la fiducia reciproca.

Dubbi legittimi

Tutto questo lo possiamo raccontare, ma se non lo si vede, se non si vedono i frutti, è difficile credere che sia veramente successo. Tommaso qui è l’immagine di tutte quelle persone che non riescono a credere perché c’è una comunità che non vive quello che dice: i discepoli dicono di aver incontrato il Risorto, eppure otto giorni dopo le porte del Cenacolo sono ancora chiuse. Non è cambiato nulla. Hanno ancora paura, sono ancora pieni di sfiducia. Come può Tommaso credere che hanno incontrato Gesù? E a cosa sarebbe servito quell’incontro se non ha cambiato la vita dei discepoli?
Tommaso è detto Didimo, cioè doppio o gemello. E infatti è ambivalente perché un po’ non crede e un po’ crede, un po’ sta fuori dalla comunità un po’ ci ritorna. È gemello allora di ognuno di noi, perché tutti noi facciamo fatica a credere e a restare con costanza dentro il perimetro e le relazioni della comunità. Siamo sempre animati dai dubbi e siamo sempre in cerca di autonomia.
Ma Gesù è paziente anche e soprattutto con chi fa fatica a credere. Nonostante le porte siano ancora chiuse, Gesù entra nel nostro cuore e ancora una volta si pone in mezzo, riprendendo il posto che gli spetta. E invita anche Tommaso a mettere il dito nella piaga, cioè si fa vedere così com’è: quelle ferite sono una parola chiara, dicono che anche Tommaso è amato fino alla morte. Gesù mostra proprio a lui quelle piaghe, per dire a Tommaso e a ciascuno di noi: sono morto proprio per te!

Riaprire

Siamo felici nel momento in cui ci fidiamo di questa testimonianza. Voler vedere quelle piaghe significa che ancora non abbiamo capito in fondo al cuore che Gesù ha dato la vita per ciascuno di noi. Ma anche se ancora non riusciamo a credere, non dobbiamo disperare, perché Gesù non si spaventa e non banalizza la nostra incredulità. Verrà ancora, anche per noi, e ci accompagnerà in questo percorso di fede che ci conduce a riaprire le porte del nostro cuore.

Link alla fonte »