Perseverare nella preghiera
Come pregare sempre - Parte seconda - la pratica - Cap 1 bis
Autore: Padre Rodolphe Plus S.J.
Consideriamo accettate e rispettate due importanti condizioni per il buon esito dell’orazione: preparazione e lavoro attivo.
Non resta che perseverare.
L’atmosfera che avvolge la nostra anima è simile a quella che circonda il nostro corpo: non sempre splende il sole. Vi sono giorni tristi e grigi, senza parlare del periodico ritorno dell’oscurità.
Nell’orazione distinguiamo dunque tre casi: consolazione, desolazione, calma.
Niente di più facile che perseverare nella preghiera quando Dio dona la consolazione; è superfluo dimostrarlo.
Segnaliamo tuttavia qualche ostacolo che tende non tanto a far abbandonare la preghiera, quanto a diminuirne il frutto.
Il primo ostacolo consiste nel confondere la consolazione sensibile con i veri «tocchi» di raccoglimento infuso e immaginarsi, perché si è provato «gusto» nell’orazione, di essere stati favoriti con grazie mistiche. Ciò può anche essere avvenuto, ma non sempre è così. A questi casi si applica il consiglio di san Giovanni della Croce; dopo aver detto: «Non allontanatevi mai da un’amorosa attenzione verso Dio»- parole che non fanno al caso nostro- aggiunge una considerazione che ci riguarda da vicino: «Ma non desiderate mai di ottenere favori singolari».
Vuol forse dire che non dobbiamo desiderare la più stretta unione possibile con Dio? Certo che dobbiamo desiderarla! Ma, come dicono i teologi, altro è desiderare la pienezza sempre più vasta di grazia santificante – gratia gratum faciens- il che è vivamente consigliato; altro è desiderare grazie «date gratuitamente» – gratiae gratis datae: visioni, rivelazioni, ecc.- il che è imprudente. San Giovanni della Croce allude evidentemente a queste ultime.
Del resto le anime favorite da autentici doni mistici sono di solito ben lontane dal desiderarli, specialmente all’inizio; ne hanno piuttosto paura. È compito del direttore esperto incoraggiare queste anime se vede in loro solida pietà e vera mistica. Questi due elementi uniti sono meno rari di quel che credono certi intransigenti e meno frequenti di quel che immaginano certi ottimisti.
Un altro ostacolo dello stato di consolazione è credere che Dio sia contento di noi perché ci sentiamo soddisfatti di noi stessi.
Ieri siamo stati disturbati da distrazioni ossessionanti; abbiamo lottato coraggiosamente, ma ne siamo usciti senza grande entusiasmo… Oggi abbiamo toccato «il settimo cielo», una consolazione dopo l’altra, ma con poco sforzo da parte nostra: faceva tutto il Signore.
Sarebbe ingenuità concludere che la meditazione di oggi sia stata superiore a quella di ieri. In realtà, il valore della meditazione dipende dall’intensità della nostra carità in quel momento, ed è ben possibile che io abbia esercitato una maggiore carità ieri nella lotta, che non oggi nella consolazione. In teoria la misura del merito non è stabilita dallo sforzo con cui operiamo, ma dalla carità; in pratica, però, la misura della carità -e dunque anche del merito- è proprio lo sforzo.
Il padre Lancizio, gia citato a proposito della preparazione all’orazione, nota molto esattamente: «Credere di aver mal meditato perché nell’orazione non abbiamo provato alcun affetto devoto, è uno scrupolo da non accettare». E precisa ciò che invece merita un rimprovero:
«Se prima della meditazione non respingiamo i pensieri estranei.
«Se durante la meditazione non respingiamo le distrazioni al primo avviso della coscienza.
«Se non meditiamo per tutto il tempo stabilito.
«Se assumiamo una posizione poco rispettosa, tale da farci arrossire se vi fossimo sorpresi da una persona devota.
«Se permettiamo agli occhi di guardare ciò che accade o alle orecchie di ascoltare quel che si dice attorno a noi».
E conclude: «All’infuori di questi casi la meditazione è sempre buona». Questo per calmare le inquietudini di molti e stimolare lo zelo di altri.
Accanto ai momenti di consolazione, occorre fare i conti con la desolazione, che costituisce la grossa pietra d’inciampo per la maggior parte delle anime devote.
È importante conoscere il sistema che Dio adotta ordinariamente per fare progredire le anime nella santità. Agli inizi, di solito, le colma di consolazioni. Per dare un’idea di ciò che Lui e, per liberarci dalla tirannia delle apparenze e per darci il gusto delle cose spirituali, il Signore semina a profusione i suoi favori: attrattive numerose e confortanti, fervore ardente di carità, continuo desiderio di conversare con Lui… L’anima si sente attratta; come non rallegrarsi di così dolce compagnia? Salgono spontanee alle labbra le parole di san Pietro sul monte Tabor: «Signore, è bello per noi restare qui» (Mt 17, 4).
Ma, a un tratto, tutto cambia. Dopo un periodo più o meno lungo le attrattive si spengono, bruscamente o in modo progressivo. Dopo uno splendido sole, cala la notte e le tenebre sono tanto più scure, quanto più la luce era stata smagliante; si ha la sensazione di entrare improvvisamente, in pieno giorno, in un’oscura galleria o in una miniera.
Qui il Signore attende le anime al varco. La maggior parte -smarrite e meno devote di quanto sembrasse- abbandonano tutto appena non trovano più nell’orazione le consolazioni divine; infatti, non seguivano Dio per amore, ma per godere i suoi favori spirituali. Si credevano generose -e forse le si considerava tali- e invece erano, almeno in parte, impercettibilmente egoiste: non cercavano Dio, ma se stesse.
Il Signore vuole che si badi, per così dire, non alle sue mani, ma al suo cuore; non a ciò che concede, bensì a ciò che Egli è. Al momento giusto, quindi, ritira le consolazioni sensibili e abbandona l’anima alle risorse della pura fede: vuole rendersi conto se l’anima cerca Lui o i suoi doni. Dio vuole essere solo nell’anima. Vuole essere amato per se stesso; quindi presto o tardi, alle anime che intende elevare ai supremi gradi dell’orazione, ritrae tutto il sensibile: l’anima deve rimanere sola con Lui solo. Ecco la ragione di quelle strane purificazioni, attive e passive («notte dei sensi, notte dello spirito»), per le quali il Signore fa passare le sue anime predilette, Vuole giungere al punto in cui nell’anima non vi sia che Lui. Quando gli autori spirituali parlano della solitudine di Dio nell’anima alludono a questa divina esigenza.
Beati coloro che, sorretti da una generosità sapiente e fervorosa, rimangono orientati al fine e perseverano infaticabili, malgrado le prove non comuni e drammatiche delle aridità e delle desolazioni.
Attenzione! È in simili frangenti che si rivelano anime veramente «interiori»; a che serve una devozione che si pratica solo quando «fa piacere»? Se qualcuno dei nostri lettori fosse in questo momento nelle tenebre della desolazione, accanto al Salvatore nell’orto dell’agonia, sappia che dalla perseveranza nell’orazione dipende il conseguimento di grazie di cui neanche sospettano il valore, superiori in virtù santificatrice a tutto ciò che potrebbero desiderare.
Resta ancora una parola da dire sull’orazione in stato di calma.
Il perseverare in essa non richiede evidentemente tutta la fatica necessaria per la preghiera desolata, ma vuole tuttavia un certo impegno.
Ciò è dovuto innanzi tutto al fatto che l’Invisibile, tranne i casi in cui si possegga un grande spirito di fede, non ci attira molto; ora, mettersi a pregare significa proprio cercare il contatto con l’Invisibile.
Inoltre, per raggiungere l’Invisibile o semplicemente per cercarlo, occorre distaccarsi dalle apparenze in cui si compiace il nostro gusto sensibile. Mosè, per incontrarsi con Dio sul Sinai, abbandona i sandali alle falde del monte e si distacca faticosamente dalla pianura. La salita ci spaventa, mentre ci piace camminare in pianura, con i piedi -s’intende- comodamente calzati. Quanti, se fossero sinceri, dovrebbero abbandonare ben più dei loro sandali!
L’anima generosa, invece, rischia di paralizzare i suoi slanci per una difficoltà di tutt’altro genere. Adorare, lodare, ringraziare… ben lo vorrebbe; anzi, è forse il suo più vivo desiderio. Ma con che cosa adorare, lodare e ringraziare il Signore? Essa non ha nulla di suo, è la povertà stessa: come potrà mai adeguare la sua povera preghiera all’infinita di Dio? Come fare salire all’Altissimo qualcosa che ne valga la pena, che non sia una derisione o addirittura un insulto! Dio è Dio, essa e… essa. Come oserà accostarsi alla maestà divina? È la lotta di Giacobbe con l’Angelo: si è sconfitti in partenza e la vittoria è sempre dell’Angelo.
Sono in troppi a non avere un esatto concetto di preghiera o a manifestare, nella pratica, di non aver compreso a sufficienza quel che san Paolo chiama «il mistero cristiano», cioè il mistero della nostra «incorporazione» a Gesù Salvatore e della «identificazione» con nostro Signore nell’unita di un solo corpo mistico: «Io sono la vite, voi i tralci», (Gv 15, 5). Gesù Cristo è il capo e noi siamo le membra.
Per chi vive nella luce di questa splendida dottrina non esiste difficoltà. È vero, se dovessi amare Dio, se dovessi lodarlo con qualche cosa di «me stesso» o di «mio», mi troverei assolutamente incapace di farlo: ogni mio omaggio al Signore in questa vita si rivelerebbe inadeguato. Tuttavia non è questo che si richiede. Solo Gesù Cristo è in grado di offrire al Padre una gloria degna del Padre; ma, per l’insigne misericordia di Dio, sono costituito una sola cosa con il Redentore. Il Verbo, per salvarci, non si è accontentato di farsi uomo divenendo uno di noi, ma ha voluto che ciascuno di noi divenisse qualcosa di Lui. Questo mistero ci da la chiave per comprendere tutto. Non si tratta di amare con qualcosa di «mio», ma di pregare avendo a disposizione la preghiera di Gesù Cristo; il quale, per completarsi misticamente, ha voluto la mia partecipazione costituendomi parte integrante della sua persona. La mia preghiera è di per sè insignificante, ma la «Sua» ha un valore infinito! Ebbene, io ho la possibilità, il potere di appropriarmi della «Sua» preghiera; anzi, ne ho il dovere.
Con il battesimo ho ricevuto il potere di offrire -non in nome della comunità cristiana, perché solo il sacramento dell’ordine me lo permetterebbe, ma per mio proprio conto- Gesù al Padre celeste. In questo consiste il sacerdozio spirituale di tutti i cristiani di cui parla san Pietro, funzione così bella che il primo papa ha definito «sacerdozio regale». Alcuni non gradiscono questa espressione applicata al semplice fedele; non bisogna respingerla, ma interpretarla correttamente. Essa è splendida e la realtà che esprime è sublime.
Pregare «cristianamente», nel vero senso della parola, come accade tutte le volte che la Chiesa prega, significa offrire Gesù Cristo al Padre in virtù del sacerdozio comune acquisito con il battesimo. Nella maggior parte delle preghiere mettiamo un po’ troppo di noi stessi; non che la buona volontà sia eccessivamente generosa o che il dono di noi stessi non sia ardentemente desiderato dal Signore; «troppo di noi» vuole dire che non c’è abbastanza «Gesù Cristo» nella nostra offerta.
La terra e il cielo: siamo abituati a semplificare le cose, ma a torto; in realtà dimentichiamo il terzo termine. Fra la terra e il cielo, in mezzo ai due, c’è Gesù, il mediatore divino con il quale siamo una cosa sola.
La vera formula dei nostri rapporti con Dio nell’orazione è espressa da san Paolo: «Vita vestra est abscondita cum Christo in Deo». «La vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio» (Col 3, 3).
Consideriamo il rispettivo valore dei tre termini: Dio, Gesù Cristo e noi.
– Noi: zero. Non siamo esentati dal versare la nostra goccia d’acqua nel vino del calice, ma proprio ciò ci fa capire qual è la nostra parte: una piccola goccia d’acqua di nessun valore.
– Gesù Cristo, con la sua mediazione infinita presso il Padre, a gloria del Padre stesso e per la redenzione del mondo.
– Dio. Al vertice di ogni cosa la santissima Trinità, a cui ogni onore e gloria.
È il per ipsum, et cum ipso, et in ipso della Messa: per Cristo, con Cristo e in Cristo. Spesso non c’è abbastanza Gesù Cristo nella nostra preghiera di alter Christus.
«Dovete dimenticare totalmente voi stessi», consiglia il padre Guillore -e dopo quanto abbiamo detto, queste parole non rischiano di essere fraintese -«fissando lo sguardo su due cose soltanto: le divine operazioni di Gesù, che tenete fra le mani come un tesoro da offrire; e il Padre celeste a cui le offrite. Rivestirsi di Cristo consiste in questo».
Può forse esistere una spiritualità più dolce e più profondamente cristiana?
«Non posso più fermare lo sguardo su di me; con questo -scrive un’anima intimamente unita a Cristo- non voglio dire di non vedere più la mia miseria; anzi, l’esperienza delle ripetute cadute mi permette di conoscerle fino in fondo. Ma cos’è tutto ciò, di fronte all’infinità di Dio? Mi sembra che soffermarmi sulle mancanze costituisca un’ingiuria al Signore, che ha pagato i nostri debiti e ci mette a disposizione i suoi meriti infiniti. Se non avessi Gesù non oserei accostarmi al Padre: ma, appoggiata al Redentore, rivestita di Cristo, mi sento ardita perché ricca di tutti i suoi tesori».