Portare i nostri affanni a Dio
Spunti per pregare nel tempo ordinario
Autore: Autori Cristiani
– Il gusto per la città di Dio
– Portare i nostri affanni a Dio
– Amore per la Confessione
San Paolo, nella lettera indirizzata ai Romani, ha voluto avvertire i cristiani riguardo alla realtà del peccato, incoraggiandoli a mettersi interamente al servizio del Signore: «Il peccato dunque non regni più nel vostro corpo mortale, così da sottomettervi ai suoi desideri. Non offrite al peccato le vostre membra come strumenti di ingiustizia, ma offrite voi stessi a Dio come viventi, ritornati dai morti, e le vostre membra a Dio come strumenti di giustizia» (Rm 6, 12-13).
Come molti santi, san Paolo è consapevole di quanto lusinga il peccato e del pochissimo che realizza; del tanto che prende e del poco che offre; dell’illusione che suscita e dell’amarezza che lascia. All’uomo il peccato dà un potere soltanto apparente e fa perdere la fiducia sul potere di Dio, sino al punto che la sua presenza si sbiadisce nell’orizzonte della nostra esistenza. «Due amori dunque diedero origine a due città, alla terrena l’amor di sé fino all’indifferenza per Iddio, alla celeste l’amore a Dio fino all’indifferenza per sé. Inoltre quella si gloria in sé, questa nel Signore»[1]. Certe volte, la tentazione esalta i benefici apparenti del peccato, al punto da risultare appetibili. Tuttavia, la tentazione nasconde sempre che il peccato ci ruba il bene che perdiamo, la città che abbandoniamo, le relazioni che danneggiamo.
Nel corso della nostra vita, nell’ambito sociale e professionale, a mano a mano che prendiamo posizione, andiamo diventando quello che amiamo, andiamo identificandoci con l’oggetto delle nostre scelte e sviluppiamo una inclinazione verso i beni, reali o apparenti che siano, che perseguiamo. Se scegliamo il peccato, a poco a poco ci avviciniamo alla città degli uomini. Se scegliamo il bene, anche se può costare, il nostro cuore andrà acquisendo una connaturalità con il bene, il gusto per la città di Dio. In questo modo, acquisiremo uno sguardo che «apre a un nuovo modo spirituale di considerare le realtà terrene, la libertà di amare Dio e i fratelli e le sorelle con un cuore puro e di vivere nella gioiosa speranza della venuta del Regno di Cristo»[2].
Nella sua predicazione, Gesù insegna alla gente che scegliere bene, formare un cuore rivolto ai suoi comandamenti, è qualcosa di possibile e necessario. E per spiegare ciò che vuole condividere con i suoi ascoltatori ricorre a una parabola. Narra di un amministratore al quale il padrone ha lasciato l’incarico di gestire le sue cose. Quel servo, sapendo che il padrone era lontano e che avrebbe tardato a ritornare, si comportò in modo egoista e crudele. Quando il padrone ritornò, e lo sorprese in tale situazione, lo punì severamente. Magari quel servo aveva pensato di potersi permettere il lusso di vivere alle spalle del suo signore. Oppure, si era convinto di avere il controllo della situazione, di essere in grado di prevedere il ritorno del padrone, di coprire le cattive azioni e di presentarsi in maniera rispettabile. Ma la parabola fa vedere quanto ingannevole fosse tale sicurezza.
Saper indirizzare il nostro cuore verso il bene non è qualcosa che si ottiene da un giorno all’altro. Il Signore, come al servitore della parabola, ci concede il tempo necessario in modo che, con la sua grazia e con la nostra libertà, impariamo a volgere verso di lui le nostre aspirazioni e i nostri sogni, perché è proprio questo che ci farà felici. E ciò si traduce in situazioni concrete nel nostro quotidiano che, se vissuto autenticamente, ci fa scoprire la felicità che viene dal vivere vicino a Dio. «Se, per esempio, un giovane desidera diventare medico, dovrà intraprendere un percorso di studi e di lavoro che occuperà alcuni anni della sua vita, di conseguenza dovrà mettere dei limiti, dire dei “no”, anzitutto ad altri percorsi di studio, ma anche a possibili svaghi e distrazioni, specialmente nei momenti di studio più intenso. Però, il desiderio di dare una direzione alla sua vita e di raggiungere quella meta – arrivare medico era l’esempio – gli consente di superare queste difficoltà. Il desiderio ti fa forte, ti fa coraggioso, ti fa andare avanti sempre perché tu vuoi arrivare a quello: “Io desidero quello”»[3]. Per questo, san Josemaría era solito utilizzare l’immagine della lotta quando parlava della santità: un cammino lungo il quale avremo delle prove da superare ma anche la pace. «Quando c’è amore c’è lealtà, vale a dire capacità di donazione, di sacrificio, di rinuncia. E nel bel mezzo della donazione, del sacrificio e della rinuncia, pur con il tormento delle contrarietà, si trovano la felicità e la gioia; una gioia che nulla e nessuno potrà toglierci»[4].
La Confessione è un mezzo che il Signore ci ha dato per orientare il nostro cuore verso di lui. Quando ricorriamo a questo sacramento è Gesù che ci invita e ci incoraggia. «Il nostro aiuto è nel nome del Signore: egli ha fatto cielo e terra» (Sal 124, 8). Ed è nel suo nome che il sacerdote perdona i peccati. Per chi si confessa dopo molto tempo, si tratta di un momento che non lascia indifferenti. Ma chi vi ricorre frequentemente può, magari, pensare che le proprie confessioni siano un poco ripetitive. Riguardo a ciò, san Josemaría ricordava che «il Signore ha istituito il Sacramento della Penitenza non solo per perdonare i peccati, ma per darci fortezza e avere l’occasione di ricevere un orientamento e un aiuto spirituale»[5]. Significa che, anche se a noi può sembrare una confessione abitudinaria, Dio ci sta dando la sua grazia per affrontare le lotte che formano le nostre giornate e per liberarci del peccato: «Vi voglio ribelli, liberi da ogni legame, perché vi voglio — Cristo ci vuole! — figli di Dio. Schiavitù o filiazione divina: questo è il dilemma della nostra vita»[6].
In ogni confessione troviamo il padre della parabola che ci aspetta e che desidera ardentemente il nostro ritorno a casa. «Troppo spesso pensiamo che la Confessione consista nel nostro andare a Dio a capo chino. Ma non siamo anzitutto noi che torniamo al Signore; è Lui che viene a visitarci, a colmarci della sua grazia, a rallegrarci con la sua gioia. Confessarsi è dare al Padre la gioia di rialzarci. Al centro di quanto vivremo non ci sono i nostri peccati, ci saranno, ma non sono al centro; il suo perdono: questo è il centro»[7]. Per questo, san Josemaría spingeva i suoi figli ad amare questo sacramento: «A me dà molta gioia ricorrere a questo mezzo della grazia, perché so che il Signore mi perdona e mi rende forte. Sono anche convinto che, con la pia pratica della Confessione sacramentale, si impara ad avere più dolore e, quindi, più amore»[8]. Chiediamo alla Madonna di aiutarci a sperimentare la gioia di ricevere il Signore in casa nostra ogni volta che ci accostiamo al sacramento della Confessione.
[1] Sant’Agostino, La città di Dio, 14, 28.
[2] Francesco, Omelia, 15-VIII-2014.
[3] Francesco, Udienza, 12-X-2022.
[4] San Josemaría, È Gesù che passa, n. 75.
[5] San Josemaría, Appunti da una predicazione, 8-X-1972, citato in Vita quotidiana e santità nell’insegnamento di san Josemaría (III), E. Burkhart – J. López, p. 455.
[6] San Josemaría, Amici di Dio, n. 38.
[7] Francesco, Omelia, 25-III-2022.
[8] San Josemaría, A tu per tu con Dio, n. 259.