Prendete, mangiate: questo è il mio corpo!
Riflessioni sul mistero eucaristico
Autore: Cardinale Raniero Cantalamessa
Continuiamo le nostre riflessioni sul mistero eucaristico.
L’oggetto della catechesi mistagogica di oggi è la parte centrale della Messa, la Preghiera eucaristica, o Anafora, che ha al suo centro la consacrazione. Facciamo su di essa due tipi di considerazione: una liturgica e rituale, l’altra teologica ed esistenziale.
Dal punto di vista rituale e liturgico, abbiamo oggi una risorsa nuova che non avevano i Padri della Chiesa e neppure i dottori medievali. La risorsa nuova di cui disponiamo è il riavvicinamento tra cristiani ed ebrei. Fin dai primissimi giorni della Chiesa, diversi fattori storici portarono ad accentuare la differenza tra cristianesimo e giudaismo, fino a contrapporli tra di loro, come fa già Ignazio di Antiochia . Distinguersi dagli ebrei – nella data della Pasqua, nei giorni di digiuno, e in tante altre cose – diviene una specie di parola d’ordine. Un’accusa spesso rivolta ai propri avversari e agli eretici è quella di “giudaizzare”.
La tragedia del popolo ebraico e il nuovo clima di dialogo con l’ebraismo, iniziato dal Concilio Vaticano II, hanno reso possibile una migliore conoscenza della matrice ebraica dell’Eucaristia. Come non si capisce la Pasqua cristiana se non la si considera come il compimento di quello che la Pasqua ebraica preannunciava, così non si capisce a fondo l’Eucaristia se non la si vede come il compimento di quello che gli ebrei facevano e dicevano nel corso del loro pasto rituale. Un primo risultato importante di questa svolta è stato che oggi nessuno studioso serio avanza più l’ipotesi che l’Eucaristia cristiana si spieghi alla luce della cena in voga presso alcuni culti misterici dell’ellenismo, come si è tentato di fare per oltre un secolo.
I Padri della Chiesa ritennero le Scritture del popolo ebraico, ma non la loro liturgia, alla quale non avevano più modo di accedere, dopo la separazione della Chiesa dalla Sinagoga. Essi perciò utilizzarono le figure contenute nelle Scritture – l’agnello pasquale, il sacrificio di Isacco, quello di Melchisedec, la manna -, ma non il concreto contesto liturgico in cui il popolo ebraico celebrava tutte queste memorie, e cioè il pasto rituale celebrato, una volta l’anno nella cena pasquale (il Seder) e settimanalmente nel culto sinagogale. Il primo nome con cui l’Eucaristia è designata nel Nuovo Testamento da Paolo è quello di “pasto del Signore” (kuriakon deipnon) (1 Cor 11, 20), con evidente riferimento al pasto ebraico da cui si differenzia ormai per la fede in Gesù. L’Eucaristia è il sacramento della continuità tra Antico e Nuovo Testamento, tra ebraismo e cristianesimo.
L’Eucaristia e la Berakah ebraica
È questa la prospettiva in cui si colloca Benedetto XVI nel capitolo dedicato all’istituzione dell’Eucaristia nel suo secondo volume su Gesù di Nazaret. Seguendo l’opinione ormai prevalente degli studiosi, egli accetta la cronologia giovannea secondo cui l’ultima cena, di cui parla il Quarto Vangelo, non fu una cena pasquale, ma fu un solenne pasto di addio (appunto, l’”ultima cena”!) e ritiene che si possa “tracciare lo sviluppo dell’eucharistia cristiana, cioè del canone, dalla beraka ebraica” .
Per varie ragioni culturali e storiche, dalla Scolastica in poi, si è cercato di spiegare l’Eucaristia alla luce della filosofia, in particolare delle nozioni aristoteliche di sostanza e di accidenti. Era anche questo un mettere a servizio della fede le conoscenze nuove del momento e, dunque, un imitare il metodo dei Padri. Ai nostri giorni, dobbiamo fare lo stesso con le nuove conoscenze di ordine, questa volta, storiche e liturgiche più che filosofiche. Esse hanno il vantaggio di essere le categorie con cui pensava e parlava Gesú, che non erano certo i concetti aristotelici di materia e forma, sostanza e accidenti, ma quelle di segno e realtà e di memoriale
Sulla scorta di alcuni studi recenti, soprattutto quello di Louis Bouyer, vorrei cercare di mostrare la vivida luce che cade sull’Eucaristia cristiana quando collochiamo i racconti evangelici dell’istituzione sullo sfondo di ciò che sappiamo del pasto rituale ebraico. La novità del gesto di Gesù non risulterà diminuita, ma esaltata al massimo.
L’anello di congiunzione tra l’antico e il nuovo rito è dato dalla Didachè, uno scritto dell’era apostolica che possiamo considerare il primo abbozzo di anafora eucaristica. Il rito sinagogale era composto da una serie di preghiere chiamate “berakah” che in greco viene tradotto con “Eucarestia”. All’inizio del pasto, ciascuno a turno prendeva in mano una coppa di vino e, prima di portarla alle labbra, ripeteva una benedizione che la liturgia attuale ci fa ripetere quasi alla lettera al momento dell’offertorio: “Sii benedetto, Signore, nostro Dio, Re dei secoli, che ci hai dato questo frutto della vite”.
Ma il pasto cominciava ufficialmente solo quando il padre di famiglia, o il capo della comunità, aveva spezzato il pane che doveva essere distribuito tra i commensali. E, infatti, Gesù prende il pane, recita la benedizione, lo spezza e lo distribuisce dicendo: “Questo è il mio corpo che è dato per voi.” E qui il rito – che era solo una preparazione- diventa la realtà.
Dopo la benedizione del pane si servivano i piatti consueti. Quando il pranzo sta per finire, i commensali sono pronti per il grande atto rituale che conclude la celebrazione e le dà il significato più profondo. Tutti si lavano le mani, come all’inizio. Finito questo, avendo davanti a se una coppa di vino mescolato con acqua, colui che presiede invita a fare le tre preghiere di ringraziamento: la prima per Dio creatore, la seconda per la liberazione dall’Egitto, la terza perché continua al presente la sua opera. Conclusa la preghiera, la coppa passava di mano in mano e ciascuno beveva. Questo, il rito antico compiuto tante volte da Gesù in vita.
Luca dice che dopo aver cenato Gesù prese il calice dicendo: “Questo calice è la nuova Alleanza nel mio Sangue che è sparso per voi “. Qualcosa di decisivo avviene nel momento in cui Gesù aggiunge queste parole alla formula delle preghiere di ringraziamento, cioè alla berakah ebraica. Quel rito era un banchetto sacro nel quale si celebrava e si ringraziava un Dio salvatore, che aveva redento il suo popolo per stringere con esso un’alleanza d’amore, conclusa nel sangue di un agnello. Ora, al momento cioè in cui Gesù decide di dare la vita per i suoi come il vero Agnello, egli dichiara conclusa quella vecchia Alleanza che tutti insieme stavano celebrando liturgicamente. In quel momento, con poche e semplici parole, egli stringe con i suoi la nuova ed eterna Alleanza nel suo Sangue.
Aggiungendo le parole “fate questo in memoria di me”, Gesù conferisce una portata duratura al suo dono. Dal passato, lo sguardo si proietta verso il futuro. Tutto quanto egli ha fatto finora nella cena è messo nelle nostre mani. Ripetendo quello che lui ha fatto, si rinnova quell’atto centrale della storia umana che è la sua morte per il mondo. La figura dell’agnello pasquale che sulla croce diventa evento, nella cena ci è dato come sacramento, cioè come memoriale perenne dell’evento.
Sacerdote e vittima
Questo, dicevo, per quanto riguarda l’aspetto liturgico e rituale. Passiamo ora all’altra considerazione, quella di tipo personale ed esistenziale, in altre parole al ruolo che ricopriamo noi, sacerdoti e fedeli, in tale momento della Messa. Per comprendere il compito del sacerdote nella consacrazione è di importanza vitale conoscere la natura del sacrifico e del sacerdozio di Cristo perché è da essi che deriva il sacerdozio cristiano, sia quello battesimale comune a tutti, sia quello dei ministri ordinati.
Noi non siamo più, in realtà, «sacerdoti secondo l’ordine di Melchisedec»; siamo sacerdoti «secondo l’ordine di Gesù Cristo»; all’altare agiamo «in persona Christi», rappresentiamo cioè il Sommo Sacerdote che è Cristo. Su questo tema, il Simposio sul sacerdozio, tenuto in questa Aula nel mese scorso, ha detto infinitamente di più di quello che posso dire io in questa mia breve riflessione (preparata, tra l’altro, prima di quella data), ma pure è necessario dire qualcosa qui per la comprensione dell’Eucaristia.
La Lettera agli Ebrei spiega in che consiste la novità e l’unicità del sacerdozio di Cristo: «Egli entrò una volta per sempre nel santuario, non mediante il sangue di capri e di vitelli, ma in virtù del proprio sangue, ottenendo così una redenzione eterna» (Eb 9, 12). Ogni sacerdote offre qualcosa di esterno a se stesso, Cristo offrì se stesso; ogni altro sacerdote offre vittime, Cristo si offrì vittima!
Sant’Agostino ha racchiuso in poche parole la natura di questo nuovo genere di sacerdozio in cui sacerdote e vittima sono la stessa persona: «Ideo sacerdos quia sacrificium», sacerdote perché vittima . Lo studioso francese René Girard ha definito questa novità del sacrificio di Cristo come “il fatto centrale nella storia religiosa dell’umanità”, che ha posto fine per sempre all’intrinseca alleanza tra il sacro e la violenza.
In Cristo, è Dio che si fa vittima. Non sono più gli esseri umani che offrono sacrifici a Dio per placarlo e renderselo favorevole; è Dio che sacrifica se stesso per l’umanità, consegnando alla morte per noi il suo Figlio unigenito (cf Gv 3, 16). Gesù non è venuto con il sangue altrui, ma con il proprio sangue; non ha messo i suoi peccati sulle spalle di altri – animali o creature umane –, ma ha messo i peccati degli altri sulle sue spalle: «Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce» (1 Pt 2, 24). Tutto questo significa che nella Messa noi dobbiamo essere nello stesso tempo sacerdoti e vittime.
Alla luce di ciò, riflettiamo sulle parole della consacrazione: «Prendete, mangiate: questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi». Voglio dire, a questo proposito, la mia piccola esperienza, come, cioè, sono giunto a scoprire la portata ecclesiale e personale della consacrazione eucaristica. Ecco come io vivevo il momento della consacrazione nella santa Messa i primi anni del mio sacerdozio: chiudevo gli occhi, chinavo il capo, cercavo di estraniarmi da tutto ciò che mi circondava per immedesimarmi in Gesù che, nel Cenacolo, pronunciò per la prima volta quelle parole: «Accipite et manducate: Prendete, mangiate…». La liturgia stessa inculcava questo atteggiamento, facendo pronunciare le parole della consacrazione a voce bassa e in latino, chinati sulle specie.
Poi ci fu la riforma liturgica del Vaticano II. Si cominciò a celebrare la Messa guardando l’assemblea; non più in latino, ma nella lingua del popolo. Questo mi aiutò a capire che quel mio atteggiamento, da solo, non esprimeva tutto il significato della mia partecipazione alla consacrazione. Quel Gesù del Cenacolo non esiste più! Esiste ormai il Cristo risorto: il Cristo, per essere esatti, che era morto, ma ora vive per sempre (cf Ap 1, 18). Ma questo Gesù è il «Cristo totale», Capo e corpo inscindibilmente uniti. Dunque, se è questo Cristo totale che pronuncia le parole della consacrazione, anch’io le pronuncio con lui. Le pronuncio, sì, «in persona Christi», in nome di Cristo, ma anche «in prima persona», cioè a nome mio.
Dal giorno in cui capii questo, cominciai a non chiudere più gli occhi al momento della consacrazione, ma a guardare –almeno qualche volta – i fratelli che ho davanti, o, se celebro da solo, penso a coloro che devo incontrare nella giornata e ai quali devo dedicare il mio tempo, o penso addirittura a tutta la Chiesa e, rivolto a essi, dico con Gesù: «Prendete, mangiatene tutti: questo è il mio corpo che voglio dare per voi… Prendete, bevete: questo è il mio sangue che voglio versare per voi».
In seguito è venuto sant’Agostino a togliermi ogni dubbio. «In ciò che offre, la Chiesa offre se stessa»: «In ea re quam offert, ipsa [Ecclesia] offertur» , scrive in un famoso passo del De civitate Dei. Più vicino a noi, la mistica messicana Concepción Cabrera de Armida, familiarmente chiamata Conchita, morta nel 1937 e beatificata da papa Francesco nel 2019, al suo figlio gesuita, in procinto di essere ordinato sacerdote, scriveva queste parole: “Ricordati, figlio mio, quando terrai in mano l’Ostia Santa, tu non dirai: ‘Ecco il corpo di Gesù, ecco il suo sangue’, ma dirai: ‘Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue’: cioè deve operarsi in te una trasformazione totale, devi perderti in lui, essere un altro Gesù” .
Tutto questo non si applica soltanto ai sacerdoti ordinati, ma a tutti i battezzati.
Un testo famoso del Concilio così si esprime:
I fedeli, in virtù del regale loro sacerdozio, concorrono all’oblazione dell’Eucaristia…Partecipando al sacrificio eucaristico, fonte e culmine di tutta la vita cristiana, offrono a Dio la Vittima divina e se stessi con Essa; così tutti, sia con la oblazione che con la santa comunione, compiono la propria parte nell’azione liturgica, non però ugualmente, ma chi in un modo e chi in un altro .
Ci sono due corpi di Cristo sull’altare: c’è il suo corpo reale (il corpo «nato da Maria Vergine», morto, risorto e asceso al cielo) e c’è il suo corpo mistico che è la Chiesa. Ebbene, sull’altare è presente realmente il suo corpo reale ed è presente misticamente il suo corpo mistico, dove «misticamente» significa: in forza della sua inscindibile unione con il Capo. Nessuna confusione tra le due presenze che sono distinte, ma inseparabili.
Poiché ci sono due «offerte» e due «doni» sull’altare – quello che deve diventare il corpo e il sangue di Cristo (il pane e il vino) e quello che deve diventare il corpo mistico di Cristo –, ecco che ci sono anche due «epiclesi» nella Messa, cioè due invocazioni dello Spirito Santo. Nella prima si dice: «Ora ti preghiamo umilmente: manda il tuo Spirito a santificare i doni che ti offriamo, perché diventino il corpo e il sangue di Gesù Cristo»; nella seconda, che si recita dopo la consacrazione, si dice: «Dona la pienezza dello Spirito Santo perché diventiamo in Cristo un solo corpo e un solo spirito. Lo Spirito Santo faccia di noi un sacrificio perenne a te gradito».
Ecco come l’Eucaristia fa la Chiesa: l’Eucaristia fa la Chiesa, facendo della Chiesa un’Eucaristia! L’Eucaristia non è solo, genericamente, la sorgente o la causa della santità della Chiesa; ne è anche la «forma», cioè il modello. La santità del cristiano deve realizzarsi secondo la «forma» dell’Eucaristia; deve essere una santità eucaristica. Il cristiano non può limitarsi a celebrare l’Eucaristia, deve essere Eucaristia con Gesù.
Il corpo e il sangue
Ora possiamo tirare le conseguenze pratiche di questa dottrina per la nostra vita quotidiana. Se nella consacrazione siamo anche noi che, rivolti ai fratelli, diciamo: «Prendete, mangiate: questo è il mio corpo. Prendete, bevete: questo è il mio sangue», dobbiamo sapere cosa significano «corpo» e «sangue», per sapere ciò che offriamo.
La parola «corpo» non indica, nella Bibbia, una componente, o una parte, dell’uomo che, unita alle altre componenti che sono l’anima e lo spirito, forma l’uomo completo. Nel linguaggio biblico, e quindi in quello di Gesù e di Paolo, «corpo» indica tutto l’uomo, in quanto vive la sua vita in un corpo, in una condizione corporea e mortale. «Corpo» indica, dunque, tutta la vita. Gesù, istituendo l’Eucaristia, ci ha lasciato in dono tutta la sua vita, dal primo istante dell’incarnazione all’ultimo momento, con tutto ciò che concretamente aveva riempito tale vita: silenzio, sudori, fatiche, preghiera, lotte, umiliazioni. Non la “vita” in astratto, ma il “vissuto”.
Poi Gesù dice: «Questo è il mio sangue». Cosa aggiunge con la parola «sangue», se ci ha già donato tutta la sua vita nel suo corpo? Aggiunge la morte! Dopo averci donato la vita, ci dona anche la parte più preziosa di essa, la sua morte. Il termine «sangue» nella Bibbia non indica, infatti, una parte del corpo, cioè una parte di una parte dell’uomo; indica un evento: la morte. Se il sangue è la sede della vita (così si pensava allora), il suo «versamento» è il segno plastico della morte. L’Eucaristia è il mistero del corpo e del sangue del Signore, cioè della vita e della morte del Signore!
Ora, venendo a noi, cosa offriamo noi, offrendo il nostro corpo e il nostro sangue, insieme con Gesù, nella Messa? Offriamo anche noi quello che offrì Gesù: la vita e la morte. Con la parola «corpo», doniamo tutto ciò che costituisce concretamente la vita che conduciamo in questo mondo, il nostro vissuto: tempo, salute, energie, capacità, affetto, magari soltanto un sorriso. Con la parola «sangue», esprimiamo anche noi l’offerta della nostra morte. Non necessariamente la morte definitiva, il martirio per Cristo o per i fratelli. È morte tutto ciò che in noi, fin d’ora, prepara e anticipa la morte: umiliazioni, insuccessi, malattie che immobilizzano, limitazioni dovute all’età, alla salute: tutto ciò, in una parola, che ci «mortifica».
Tutto ciò esige, però, che noi, appena usciti dalla Messa, ci diamo da fare per realizzare ciò che abbiamo detto; che realmente ci sforziamo, con tutti i nostri limiti, di offrire ai fratelli il nostro «corpo», cioè il tempo, le energie, l’attenzione; in una parola, la nostra vita. Bisogna, dunque, che, dopo aver detto ai fratelli: «Prendete, mangiate», noi ci lasciamo realmente «mangiare» e ci lasciamo mangiare soprattutto da chi non lo fa con tutta la delicatezza e il garbo che ci aspetteremmo. Sant’Ignazio di Antiochia, andando a Roma per morirvi martire, scriveva: «Io sono frumento di Cristo: che io sia macinato dai denti delle fiere, per diventare pane puro per il Signore» . Ognuno di noi, se si guarda bene intorno, ha di questi denti acuminati di fiere che lo macinano: sono critiche, contrasti, opposizioni nascoste o palesi, divergenze di vedute con chi ci sta intorno, diversità di carattere.
Proviamo a immaginare cosa avverrebbe se celebrassimo con questa partecipazione personale la Messa, se dicessimo veramente tutti, al momento della consacrazione, chi ad alta voce e chi silenziosamente, secondo il ministero di ognuno: «Prendete, mangiate». Un sacerdote, un parroco e, a maggior ragione, un vescovo, celebra così la sua Messa, poi va: prega, predica, confessa, riceve gente, visita malati, ascolta… Anche la sua giornata è Eucaristia. Un grande maestro di spirito francese, Pierre Olivaint (1816-1871), diceva: «Al mattino, nella Messa, io sono sacerdote e Gesù è vittima; lungo la giornata, Gesù è sacerdote e io vittima». Così un sacerdote imita il «buon Pastore», perché realmente dà la vita per le sue pecorelle.
La nostra firma sul dono
Vorrei riassumere, con l’aiuto di un esempio umano, cosa avviene nella celebrazione eucaristica. Pensiamo a una numerosa famiglia in cui c’è un figlio, il primogenito, che ammira e ama oltre misura il proprio padre. Per il suo compleanno vuole fargli un regalo prezioso. Prima però di presentarglielo chiede, in segreto, a tutti i suoi fratelli e sorelle di apporre la loro firma sul dono. Questo arriva dunque nelle mani del padre come segno dell’amore di tutti i suoi figli, indistintamente, anche se, in realtà, uno solo ha pagato il prezzo di esso.
E’ ciò che avviene nel sacrificio eucaristico. Gesù ammira ed ama sconfinatamente il Padre celeste. A lui vuol fare ogni giorno, fino alla fine del mondo, il dono più prezioso che si possa pensare, quello della sua stessa vita. Nella Messa, egli invita tutti i suoi fratelli e sorelle ad apporre la loro firma sul dono, di modo che esso giunge a Dio Padre come il dono indistinto di tutti i suoi figli, anche se uno solo ha pagato il prezzo di tale dono. E che prezzo!
La nostra firma sono le poche gocce d’acqua che vengono mescolate al vino nel calice. Esse non sono che acqua, ma mescolate nel calice diventano un’unica bevanda. La firma di tutti è l’Amen solenne che l’assemblea pronuncia, o canta, al termine della dossologia: “Per Cristo, con Cristo e in Cristo, a te Dio Padre onnipotente nell’unità dello Spirito Santo, ogni onore e gloria per tutti i secoli dei secoli…AMEN!
Sappiamo però che chi ha firmato un impegno ha poi il dovere di onorare la propria firma. Questo vuol dire che, uscendo dalla Messa, dobbiamo fare anche noi della nostra vita un dono d’amore al Padre e per i fratelli. Noi – ripeto – non siamo chiamati solo a celebrare l’Eucaristia, ma anche ad farci eucaristia. Che Dio ci aiuti a realizzarlo questo!
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