Qualcosa di grande e che sia amore: il nostro vero nome
La chiamata di Dio a ciascuno
Autore: Autori Cristiani
Il primo libro della Bibbia inizia presentando Dio creatore, che fa sorgere le cose dal nulla con la sua parola: «Sia la luce […]. Sia il firmamento […]. La terra produca germogli, erbe che producono seme e alberi da frutto […]. La terra produca esseri viventi secondo la loro specie: bestiame, rettili e bestie selvatiche secondo la loro specie […]» (Gn 1, 1-24). Quando arriva il momento di chiamare all’esistenza l’essere umano, invece, accade qualcosa di diverso. Dio non lo crea «secondo la sua specie», o secondo quello che è, ma gli dà un nome: lo chiama personalmente all’esistenza, gli dà del tu.
Se da questo preciso momento del racconto della creazione passiamo all’ultimo libro della Bibbia, ci imbattiamo in una cosa sorprendente: quel nome, che Dio ci dà nel crearci, lo riceveremo nuovamente alla fine della nostra storia. «Al vincitore – promette il Signore nell’Apocalisse – darò la manna nascosta e una pietruzza bianca sulla quale sta scritto un nome nuovo, che nessuno conosce all’infuori di chi la riceve» (Ap 2, 17). Dunque, riceviamo un nome quando nasciamo, ma ce lo daranno di nuovo alla fine della nostra vita sulla terra. Come intendere questo? Ci troviamo davanti al mistero della vocazione; un mistero personale che si chiarisce man mano che procediamo nel nostro cammino verso la vera vita.
Esseri liberi e incompiuti
Una rosa, una quercia, un cavallo non debbono prendere nessuna decisione per essere ciò che sono; semplicemente, esistono. Crescono, si sviluppano, e alla fine scompaiono. Con la persona umana, invece, non accade lo stesso.
Man mano che cresciamo, e in modo particolare durante l’adolescenza, ci rendiamo conto di non poter essere «uno dei tanti». Per qualche motivo siamo convinti di dover essere un unicum, con nome e cognome, diverso, irripetibile. Ci rendiamo conto di essere nel mondo per qualcosa e che con la nostra vita possiamo fare di questo mondo un luogo migliore. Non ci basta sapere che siamo, o come sono le cose, ma ci sentiamo spinti a sognare chi vogliamo essere e come vorremmo che fosse il mondo in cui viviamo.
C’è chi considera questo una ingenuità, una mancanza di realismo che prima o poi è necessario superare. Eppure la tendenza a sognare fa davvero parte di ciò che di più alto possediamo. Per un cristiano il desiderio di essere qualcuno, con nome e cognome, dimostra il modo in cui Dio ha voluto crearci: come esseri irripetibili. A questo disegno d’amore risponde la nostra capacità di sognare. Egli fece il mondo e lo lasciò nelle mani dell’essere umano «perché lo coltivasse e lo custodisse» (Gn 2, 15). Volle confidare nel nostro lavoro per custodire questo mondo e per farlo risplendere in tutta la sua bellezza, affinché lo amassimo «appassionatamente», come era solito dire san Josemaría[1].
Lo stesso fa Dio quando ci regala il dono della vita: ci invita a perfezionare la nostra personalità, lasciandola nelle nostre mani. Per questo aspetta che mettiamo in gioco la nostra libertà, la nostra iniziativa, tutte le nostre capacità. «Dio vuole qualcosa da te, Dio aspetta te – dice ai giovani e a tutti Papa Francesco –. […] Ti sta invitando a sognare, vuole farti vedere che il mondo con te può essere diverso. È così: se tu non ci metti il meglio di te, il mondo non sarà diverso. È una sfida»[2].
Ti chiama con il tuo nome
Simone era andato con suo fratello Andrea ad ascoltare il Battista. Era un viaggio lungo, dalla Galilea alla Giudea, però l’occasione lo meritava. Qualcosa di grande probabilmente stava per succedere, perché era ormai da molti secoli che Dio non inviava profeti al suo popolo… e Giovanni sembrava davvero uno di loro. Mentre si trova sulle rive del Giordano, Andrea incontra Gesù e passa con lui tutto un pomeriggio conversando. Quando ritorna da suo fratello Simone, gli dice: «Abbiamo trovato il Messia». E, subito, «lo condusse da Gesù» (Gv 1, 41-42). Chi sa che cosa avrà pensato Simone mentre camminava? Era possibile che il Messia, l’inviato di Dio, fosse arrivato? Era possibile che il mondo nel quale vivevano stesse per cambiare, come annunciavano le Scritture? Arrivato davanti al Maestro, «Gesù, fissando lo sguardo su di lui, disse: Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; ti chiamerai Cefa (che vuol dire Pietro)» (Gv 1, 42). Prima di cambiare il mondo, doveva cambiare la propria vita.
Come appare dai Vangeli, la vita di Simon Pietro è una continua scoperta della vera identità di Gesù e della missione che gli affida. Poco dopo essere tornati in Galilea, dopo quei giorni con il Battista, Gesù appare accanto alla sua barca e gli chiede di metterla in acqua per predicare da lì. Pietro dovette acconsentire piuttosto di malavoglia, perché si era dato da fare tutta la notte e non aveva pescato nulla. Quando ebbe finito di parlare alla folla, Gesù gli fa una nuova richiesta: «Prendi il largo e calate le reti per la pesca» (Lc 5, 4). Sembra una pazzia: hanno tentato di pescare per ore, senza successo… e tutti sanno che alla luce piena del giorno i pesci non entrano nella rete… Tuttavia Pietro obbedisce e vede che le sue reti si riempiono di pesci! Chi è quell’uomo che è entrato nella sua barca? «Al vedere questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: Signore, allontanati da me che sono un peccatore» (Lc 5, 8). Ma il Maestro gli rispose: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini» (Lc 5, 10).
Chi è Simone? Un pescatore della Galilea? Tutti i suoi antenati lo erano stati. E lui stesso praticava da anni questo mestiere e pensava di essere proprio questo: un pescatore che conosceva perfettamente il suo lavoro. Ma Gesù getta nella sua vita una luce inaspettata. La vicinanza con il Signore lo ha costretto a rendersi conto di essere un peccatore. Però, un peccatore di cui Dio si è fidato e su cui vuole contare. A questa chiamata divina Pietro e suo fratello, «tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono» (Lc 5, 11). Benedetto XVI faceva questa considerazione: «Pietro non poteva ancora immaginare che un giorno sarebbe arrivato a Roma e sarebbe stato qui “pescatore di uomini” per il Signore. Egli accetta questa chiamata sorprendente di lasciarsi coinvolgere in questa grande avventura: è generoso, si riconosce limitato, ma crede in colui che lo chiama e insegue il sogno del suo cuore. Dice di sì, un sì coraggioso e generoso, e diventa discepolo di Gesù»[3].
Più avanti il Signore preciserà un po’ meglio la missione che darà un indirizzo alla sua vita: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa» (Mt 16, 18). Il progetto di Dio per noi, la sua chiamata a condividere la nostra esistenza con Lui, ha una forza pari a quella della creazione. Se l’uomo è creato mediante una chiamata personale, anche ogni chiamata personale di Dio ha in certo qual modo un potere creatore, trasformatore della realtà. Si tratta di qualcosa talmente radicale che per noi ha il significato di ricevere un nome nuovo, una vita nuova. Chi si ricorda oggi di un pescatore vissuto 2.000 anni fa sulle rive di un lago del medio oriente? Viceversa, quanti di noi veneriamo Pietro, apostolo e «fondamento visibile della sua Chiesa»[4].
Il tesoro nascosto
La missione che Gesù ci propone può cambiare la nostra vita: può riempirla di luce. Per questo, l’idea ”può darsi che Dio mi stia chiamando” appare molto allettante. Ma nello stesso tempo c’è una cosa che ci preoccupa profondamente: ci sembra che, se questa chiamata c’è, se Dio conta su di noi, perderemo la nostra libertà. Non potremo più scegliere un’altra strada! Potrà avvenire soltanto quello che Egli vorrà!
Riflettere sul percorso di Pietro può aiutarci. Quando si decise ad abbandonare ciò che aveva per seguire Gesù, perse forse la sua libertà? Non fu invece questa la decisione più libera e liberatrice della sua vita? Alcune volte ci sembra che la libertà significhi anzitutto poter scegliere, senza che niente ci influenzi. Tuttavia, ridotta a questo, la libertà si limita a scelte precise, che riescono a mala pena a illuminare alcuni istanti: scegliere se voglio mangiare hamburger o pollo, se voglio giocare a calcio o a pallacanestro, se voglio ascoltare questa o quella canzone.
Esiste, tuttavia, un altro tipo di scelta che può gettare una luce completamente nuova sulla nostra vita; renderla più felice, più libera: sono momenti nei quali mettiamo in gioco la vita interamente; decidiamo chi vogliamo essere. Qui la libertà si mostra nella sua più autentica ampiezza, nella sua capacità di liberare. Non siamo più alle prese con decisioni precise, ma con decisioni esistenziali. Come quando uno decide di sposarsi con una persona che considera il più grande tesoro del mondo. O, in modo simile, come quando una persona giovane decide di diventare medico, sapendo che questo comporterà per lui una serie di impegni e di sacrifici non piccoli. Uno si dona a una persona o abbraccia una missione, rinunciando a tutto il resto. Naturalmente questo condizionerà le sue scelte future; eppure, non considera questo passo come una rinuncia, ma come la scommessa per un amore o per un progetto che riempirà la sua vita. E così, con il tempo, il suo nome non sarà più soltanto quello che aveva dopo il battesimo: ora sarà anche «il marito o la moglie di…», o «il dottor…». Il suo nome, la sua identità, prende forma; la sua vita va acquistando un senso, una direzione.
Gesù si presenta a noi proprio con una scelta di questo tipo. Egli ci ha creato con alcuni doni, con alcune qualità che ci fanno essere in un modo o in un altro. Più tardi, nel corso della nostra vita, ci fa scoprire un tesoro, una missione che sta quasi nascosta nel nostro intimo. «Il Regno dei Cieli è simile a un tesoro nascosto in un campo; un uomo lo trova e lo nasconde di nuovo, poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo» (Mt 13, 44). In realtà, il tesoro è Egli stesso – il suo Amore incondizionato –; e la missione è la stessa che Egli ha ricevuto dal Padre. Se l’ho scoperto, non ho più bisogno di cercarlo. Posso abbracciarlo con la mia intera vita e permettere che Egli dia forma a tutta la mia esistenza. Come Pietro, apostolo, Pietra sulla quale si fonda la Chiesa; come Paolo, apostolo delle genti; come Maria, la schiava del Signore, la Madre del Salvatore.
Abbracciare questo compito – che in realtà equivale ad abbracciare Gesù e seguirlo – ci induce a lasciare tutto il resto. Nulla, infatti, può liberarci tanto quanto la verità intorno a noi stessi: veritas liberabit vos (Gv 8, 32). Così, come san Paolo, potremo affermare: «Quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo» (Fil 3, 7-9) e vivere in Lui.
Forse ci lascia un po’ disorientati scoprire la vicinanza di Gesù, il fatto che voglia contare su di noi. D’altra parte, se ci fermiamo a riflettere su questo punto, vediamo che quello che ci chiede coincide perfettamente con ciò che siamo, con le nostre qualità e con quel che abbiamo vissuto… Sembra che siamo nati per questo. Il nome nuovo si presenta allora come qualcosa che era già lì, fin dalla creazione del mondo… Dio ci ha fatti per questo. E tuttavia, forse ci sembra troppo. «Questo tesoro, questa missione… per me? Veramente Dio è venuto e ha fatto attenzione a me?».
Mettere in gioco tutti i miei doni e le mie qualità
Dio non ci chiama soltanto in un determinato momento della nostra vita: lo fa continuamente. Nello stesso modo, la nostra risposta si prolunga durante tutta la nostra esistenza al ritmo delle chiamate ad amare ogni giorno in un modo rinnovato. «Da quando gli hai detto “sì”, il tempo sta cambiando il colore dell’orizzonte – ogni giorno, più bello – che risplende più ampio e luminoso. Ma devi continuare a dire “sì”»[5].
San Pietro disse “sì” al Signore molte volte. Come quella volta in cui tutti quelli che avevano seguito il Maestro se ne andarono scandalizzati sentendolo parlare del Pane di Vita (cfr. Gv 6, 60-71), o quando Gesù insistette a lavargli i piedi, benché a lui sembrasse assurdo (cfr. Gv 13, 6-10). Pietro rimase accanto a Gesù, confessando ancora una volta la propria fede. Tuttavia l’apostolo non aveva capito del tutto la logica del Signore. Continuava a sognare una manifestazione gloriosa del Signore, che lo avrebbe immediatamente fatto potente, trionfatore, famoso nel mondo intero. Ebbe bisogno di alcuni anni per scoprire che non era questo il modo di agire di Dio. Dovette provare la tristezza di rinnegare Gesù tre volte, tradendolo. Dovette fare i conti con la propria debolezza. Tuttavia alla fine comprese, perché non aveva mai smesso di guardare Gesù. «Il Signore convertì Pietro – che lo aveva rinnegato tre volte – senza nemmeno rivolgergli un rimprovero: con uno sguardo di Amore»[6]. Infatti, alla fine, la vocazione è un invito a guardare Gesù, a lasciarsi guardare da Lui, a condividere la sua vita, a tentare di imitarla. Fino alla donazione, piena d’amore, della propria vita.
La chiamata di Pietro assunse la sua forma definitiva quel giorno, in riva al mare di Galilea, nel suo incontro da solo con Gesù risuscitato. Poté chiedergli perdono…, ricordarsi di quanto lo amava con le sue povere forze; e dirglielo di nuovo. Il Maestro rispose: «Pasci le mie pecorelle» (Gv 21, 17); poi aggiunse: «Seguimi» (Gv 21, 19). Con questo era detto tutto, perché Pietro aveva scoperto ormai che seguire Gesù è amare fino all’estremo, in un cammino meraviglioso di donazione e di servizio a tutti: un cammino, non una meta. Il medesimo cammino che dobbiamo percorrere ogni giorno della nostra vita, tenuti per mano da Gesù.
Una vita piena
Pietro morì martire a Roma. La tradizione colloca il luogo del martirio, per crocifissione, sulla collina vaticana. Quando conobbe la sentenza , probabilmente avrà ripercorso mentalmente tutta la sua vita. La sua gioventù, il suo carattere forte e deciso, il suo lavoro nel mare di Galilea. L’incontro con Gesù, e, da quel momento, quante cose belle! Gioie e dolori. Le tante persone che avevano attraversato la sua vita. Tanto amore. Sì, la sua vita era molto cambiata. Ne era valsa la pena.
Quando conobbe Simone, sulle rive del Giordano, il Signore non vedeva soltanto un uomo già fatto, con certe caratteristiche. Vedeva in lui Pietro: la Pietra sulla quale avrebbe edificato la sua Chiesa. Quando guarda noi, vede tutto il bene che faremo nella nostra vita. Vede i nostri talenti, il nostro mondo, la nostra storia, e ci propone di aiutarlo, piccoli come siamo. Non ci chiede di fare cose impossibili, ma semplicemente di seguirlo.
Noi siamo come siamo, né più né meno, e questo modo di essere ci rende idonei a seguire il Signore e servirlo nella Chiesa. Con il suo aiuto, siamo chiamati a trovare il modo migliore di farlo. Ciascuno secondo il modo che Dio ha pensato per lui: «Abbiamo doni diversi secondo la grazia data a ciascuno di noi. Chi ha il dono della profezia la eserciti secondo la misura della fede; chi ha un ministero attenda al ministero; chi l’insegnamento, all’insegnamento; chi l’esortazione, all’esortazione. Chi dà, lo faccia con semplicità; chi presiede, lo faccia con diligenza; chi fa opere di misericordia, le compia con gioia» (Rm 12, 6-8).
Pietro rinunciò a essere il pescatore di Betsaida tanto sicuro di sé, e così Dio poté farlo, con Cristo, mediatore tra la terra e il Cielo. La sua storia si è ripetuta molte volte nel corso dei secoli. Anche oggi. I primi giovani che fecero parte dell’Opus Dei misero i propri talenti nelle mani di Dio e produssero un frutto che essi non avrebbero potuto immaginare. È ciò che san Josemaría assicurava: «Sognate e la realtà supererà i vostri sogni». O come il Papa diceva ai giovani a conclusione di una veglia di preghiera: «Il Signore benedica i vostri sogni»[7].
La chiamata di Gesù tira fuori il meglio da tutti noi, per metterlo a servizio degli altri, per portarlo a pienezza. È ciò che vediamo in Pietro. E noi, che abbiamo scoperto quanto Egli ci ama e che conta su di noi, vogliamo essere attenti alla sua chiamata: oggi, e ogni giorno della nostra vita. E così, quando lo incontreremo, ci darà «una pietruzza bianca sulla quale sta scritto un nome nuovo, che nessuno conosce all’infuori di chi la riceve» (Ap 2, 17): riconosceremo… il nostro vero nome.
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