Quando riusciamo a metterci in ascolto
Conoscerlo e conoscerti (IV)
Autore: Nicolás Álvarez de las Asturias
Il Signore pensò a Mosè per una missione decisiva: guidare il suo popolo in una nuova tappa della storia della salvezza. Con il suo aiuto, Israele fu liberato dalla schiavitù in Egitto e guidato fino alla terra promessa. Per sua mediazione, il popolo ebreo ricevette le tavole della Legge e le basi del culto di Dio. In che modo Mosè poté diventare quello che è diventato? In che modo raggiunse quella sintonia con Dio che, con il tempo, lo avrebbe portato a essere un gran bene per tante persone, addirittura per tutto il suo popolo e per tutti coloro che sarebbero venuti dopo?
Benché Mosè sia stato scelto da Dio fin dalla sua nascita – basta considerare la sua sopravvivenza miracolosa alla persecuzione del Faraone – è strano che non abbia incontrato il Signore se non dopo parecchi anni. Durante la gioventù non sembrava altro che un uomo comune, sicuramente preoccupato per la gente della sua razza (cfr. Es 2, 15). Forse ciò che meglio spiega questa trasformazione è la sua capacità di ascoltare il Signore. In modo analogo, per arrivare a essere quel che siamo chiamati a essere, anche noi abbiamo bisogno di trasformarci grazie all’ascolto. È vero che non è facile avere le prove di ciò che ci racconta il libro dell’Esodo, secondo cui «il Signore parlava con Mosè faccia a faccia, come un uomo parla con un altro» (Es 33, 11). È un processo che di solito dura anni – la vita intera – e spesso è necessario ricominciare a imparare a fare orazione, come se fossimo agli inizi del nostro dialogo con il Signore.
Mosè, Mosè!
Scoprire la necessità della preghiera vuol dire sapere che «Egli ci ha amati per primo» (1 Gv 4, 19) e che inoltre, seguendo la stessa logica, Egli ci ha parlato per primo: «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò. Dio li benedisse e disse loro…» (Gn 1, 27-28). Dio, che prese l’iniziativa di crearci per amore e per sceglierci in vista di una determinata missione, ci precede anche nella vita di preghiera. Nel nostro dialogo con il Signore è Lui che pronuncia la prima parola.
Questa parola iniziale si può riconoscere già nel desiderio di Dio, che Egli stesso ha seminato nel nostro cuore e che si ridesta in mille esperienze diverse. La prima apparizione a Mosè avvenne sull’Oreb, chiamato anche «il monte di Dio». Lì «l’angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco in mezzo a un roveto. Egli guardò ed ecco: il roveto ardeva nel fuoco, ma quel roveto non si consumava. Mosè pensò: “Voglio avvicinarmi a vedere questo meraviglioso spettacolo: perché il roveto non brucia?”» (Es 3, 2-3). Non si tratta di una semplice curiosità davanti a un evento straordinario, ma la chiara percezione che sta succedendo qualcosa di trascendente, di superiore a se stesso. Nella nostra vita, anche noi possiamo sorprenderci di fatti che ci fanno intravedere una dimensione più profonda della realtà. Può essere una scoperta intima di qualcosa che forse in passato ci era accaduta senza impressionarci: intuiamo la presenza di Dio riconoscendo qualcuno dei suoi doni o notando come le contrarietà ci hanno fatto maturare e ci hanno preparato ad affrontare diverse circostanze o impegni. Può essere anche una scoperta che riguarda la realtà in cui viviamo: la famiglia, gli amici, la natura… In un modo o nell’altro, sentiamo la necessità di pregare, di ringraziare, di chiedere… e ci rivolgiamo a Dio. Questo è il primo passo.
«Il Signore vide che [Mosè] si era avvicinato per vedere e Dio lo chiamò dal roveto e disse: “Mosè, Mosè!”. Rispose: “Eccomi!”» (Es 3, 4). Il dialogo si stabilisce quando il nostro sguardo incontra quello di Dio, che già ci stava guardando. E le parole – se sono necessarie – fluiscono quando lasciamo che prima arrivino le sue. Se facessimo un tentativo da soli, non potremmo pregare. Piuttosto, conviene fissare i nostri occhi nel Signore e ricordare la sua promessa consolante: sappiate che «io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28, 20).
Ecco, dunque, che una fede che confida in Dio è un ingrediente di fondamentale importanza in una orazione sincera. Spesso il modo migliore di cominciare a pregare è chiedere al Signore che ci insegni Lui. È quello che fecero gli apostoli ed è la via che san Josemaría ci ha invitato a percorrere: «Se non ti senti preparato, va’ da Gesù come andavano da Lui i discepoli: Insegnaci a pregare! E vedrai tu stesso che lo Spirito Santo viene in soccorso della nostra debolezza, poiché noi non sappiamo né che cosa si deve chiedere nella preghiera né come convenga chiederlo; ma lo Spirito in persona intercede per noi con gemiti inesprimibili, inenarrabili, poiché non esistono mezzi adeguati a descrivere la loro profondità».
«Togliti i sandali dai piedi»
Alla fine di alcuni giorni di ritiro spirituale, la beata Guadalupe Ortiz de Landázuri scriveva a san Josemaría: «Del mio rapporto intimo con Dio, della mia orazione… le ho già parlato altre volte; quando metto un po’ di impegno, il Signore, mi rende tutto facile e io mi lascio conquistare del tutto». L’iniziativa dell’orazione – e l’orazione stessa – sono un dono di Dio. Nello stesso tempo, bisogna anche domandarsi qual è il nostro ruolo. Il dialogo con il Signore è una grazia, e proprio per questo non è qualcosa di semplicemente passivo, perché per riceverla occorre, in qualche modo, volerla ricevere.
Oltre a disporsi in modo ricettivo, che altro si può fare per avere una vita di intensa orazione? Un buon inizio può essere renderci conto, innanzi tutto, chi siamo, rispondendo con un atteggiamento di riverenza e di adorazione. Nel dialogo del monte Oreb, «Dio disse: Non ti avvicinare! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è una terra santa! E disse: Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe. Mosè allora si velò il viso, perché aveva paura di guardare verso Dio» (Es 3, 5-6).
Togliersi i sandali e coprirsi il volto fu la risposta del più grande profeta del popolo d’Israele nel suo primo incontro con Dio. Con questi gesti dimostrava la propria consapevolezza di stare davanti al Dio trascendente. Qualcosa di simile possiamo fare noi quando ci avviciniamo a Gesù nel tabernacolo in atteggiamento di adorazione. Durante una veglia di preghiera, davanti a Gesù sacramentato, Benedetto XVI si esprimeva con parole che ci suggeriscono come adorare il Signore: «Qui nell’Ostia sacra Egli è davanti a noi e in mezzo a noi. Come allora, si vela misteriosamente in un santo silenzio e, come allora, proprio così svela il vero volto di Dio. Egli per noi si è fatto chicco di grano che cade in terra e muore e porta frutto fino alla fine del mondo (cfr Gv 12, 24). Egli è presente come allora a Betlemme. Ci invita a quel pellegrinaggio interiore che si chiama adorazione. Mettiamoci ora in cammino per questo pellegrinaggio e chiediamo a Lui di guidarci».
Nella nostra orazione l’atteggiamento di adorazione si può manifestare in modi diversi. Davanti al Santissimo, per esempio, ci inginocchiamo, come segno della piccolezza nei confronti di Dio. E quando, per molteplici motivi, non fosse possibile pregare davanti al Santissimo, possiamo sempre compiere alcuni atti equivalenti come guardare all’interno della nostra anima per scoprirvi il Signore e mettere l’anima in ginocchio, recitando con calma ogni parola della preghiera iniziale o di un’altra preghiera che ci ricordi che siamo alla sua presenza.
La nube lo coprì
In un secondo momento del suo dialogo con Dio, Mosè ricevette le tavole della Legge. La scena è tremenda e, nello stesso tempo, di grande intimità: «La Gloria del Signore venne a dimorare sul monte Sinai e la nube lo coprì per sei giorni. Al settimo giorno il Signore chiamò Mosè dalla nube. La Gloria del Signore appariva agli occhi degli Israeliti come fuoco divorante sulla cima della montagna. Mosè entrò dunque in mezzo alla nube e salì sul monte. Mosè rimase sul monte quaranta giorni e quaranta notti» (Es 24, 16-18).
Quella nube, oltre a manifestare la gloria di Dio ed essere figura anticipata della presenza dello Spirito Santo, favoriva un clima di intimità nel dialogo tra il profeta e il suo creatore. Questo ci dimostra che per pregare è necessario esercitarsi in alcune capacità che favoriscano l’intimità con Dio: amore per il silenzio, esteriore e interiore, costanza e una disciplina dell’ascolto che permetta di percepire la sua voce. A volte ci costa apprezzare il silenzio, e se nell’orazione non sentiamo niente, cercheremo di riempire il tempo con parole, letture o anche immagini e suoni. Però è possibile che, pur comportandoci con buone intenzioni, così non riusciamo ad ascoltare il Signore. Forse abbiamo bisogno di una conversione al silenzio, che è più di un semplice tacere. Durante l’estate del 1932 San Josemaría si segnò un appunto, successivamente inserito in Cammino, che fa vedere in modo espressivo come il dialogo con Dio tenderà sempre a passare per questa via: «Il silenzio è come il portinaio della vita interiore».
Mentre i suoni esterni e le passioni interne ci allontanano da noi stessi, il silenzio favorisce il nostro raccoglimento e ci invita a interrogarci sulla nostra stessa vita. L’attivismo o la loquacità durante l’orazione non ci avvicinano a Dio, né ci permettono un’attività profonda. Se siamo agitati, non ci rimane tempo per raccoglierci, per riflettere in profondità, mentre il silenzio – interiore ed esteriore – ci conduce all’incontro con il Signore, a meravigliarci davanti a Lui. Infatti, l’orazione richiede un silenzio non semplicemente negativo, vuoto, ma che sia pieno di Dio e ci porti a scoprire la sua presenza. Come notava la beata Guadalupe: «Andare in fondo a questo silenzio fino ad arrivare dove c’è solo Dio; dove neppure gli angeli, senza il nostro permesso, possono entrare». E lì «adorare Dio, lodarlo e dirgli cose tenere». Questo è il silenzio che permette di ascoltare Dio.
Si tratta, in definitiva, di far convergere la nostra attenzione – intelligenza, volontà, affetti – in Dio, per lasciarci interpellare da Lui. Perciò possiamo farci le domande che suggeriva papa Francesco: «Ci sono momenti in cui ti poni alla sua presenza in silenzio, rimani con Lui senza fretta, e ti lasci guardare da Lui? Lasci che il suo fuoco infiammi il tuo cuore? Se non permetti che Lui alimenti in esso il calore dell’amore e della tenerezza, non avrai fuoco, e così come potrai infiammare il cuore degli altri con la tua testimonianza e le tue parole?».
Oltre al silenzio è ugualmente necessaria la costanza, perché pregare costa. Occorre tempo e impegno, come accadde a Mosè, che stette sei giorni coperto dalla nube e soltanto al settimo ricevette la parola del Signore. Si richiede, prima di tutto, una costanza interiore per mantenere un orario più o meno fisso per l’orazione e una durata precisa. Questa è stata una raccomandazione continua nella vita di san Josemaría: «Meditazione. Per un tempo fisso e a ora fissa. Altrimenti, finirà per adattarsi ai nostri comodi: questo è mancanza di mortificazione. E l’orazione senza mortificazione è poco efficace». Questa costanza, se è mossa dall’amore, sarà la porta d’ingresso per un rapporto di amicizia con Dio, che sarà riempito con il dialogo, perché Egli non s’impone: ci parla soltanto se noi lo desideriamo. La costanza, da parte nostra, è un modo di manifestare e coltivare un desiderio ardente di ricevere le sue parole di affetto.
Oltre la costanza esteriore, si richiede una costanza interiore, come parte della disciplina dell’ascolto: abbiamo bisogno di concentrare l’intelligenza che tende a disperdere, di muovere la volontà che non cessa di amare e di alimentare gli affetti che alcune volte vengono a mancare. Questo può stancare, soprattutto se bisogna farlo spesso, perché gli stimoli che ci distraggono sono numerosi. Nello stesso tempo, l’ascolto disciplinato non si può confondere con un’eccessiva rigidezza o con alcuni esercizi di concentrazione troppo metodici, perché l’orazione fluisce in accordo con molte circostanze. Soprattutto fluisce dove Dio permette – «il vento soffia dove vuole» (Gv 3, 8) -, ma anche scorre in accordo con la nostra situazione particolare. A volte passiamo gran tempo pensando alle persone che amiamo, pregando il Signore per loro, e questo può essere già un dialogo d’amore.
Alcuni consigli concreti che favoriscono un ascolto disciplinato possono essere: rifuggire da una tendenza dispersiva, per potersi dedicare ed essere presente durante il dialogo, senza pensare ad altre cose; privilegiare la disposizione di chi va per imparare, riconoscendo umilmente il nostro nulla e il suo tutto, magari servendoci di giaculatorie o di brevi preghiere; fare al Signore domande aperte, lasciandogli la possibilità di rispondere quando vorrà, o semplicemente dicendogli che siamo disposti a fare quello che ci indicherà; seguire il ritmo e la direzione in cui ci portano le considerazioni del suo amore, evitando le distrazioni con altri pensieri collaterali; imparare a tenere la mente libera per lasciarci sorprendere da Lui e per sognare con i sogni di Dio, senza la pretesa di controllare troppo l’orazione. In questo modo, ci andiamo aprendo al mistero a alla logica del Signore, e questo ci permette di accettare con pace il fatto di ignorare dove ci porterà.
«Mostrami la tua gloria!»
Quando cominciamo a fare orazione, ci aspettiamo ragionevolmente che il Signore ci parli, come di fatto avviene alcune volte. Tuttavia, potrebbe essere frustrante per noi che alla fine di un incontro non avessimo ascoltato nulla, o molto poco. In ogni caso è necessario conservare la certezza che nell’orazione c’è sempre frutto. Sul monte Sinai Mosè «gli disse: Mostrami la tua gloria!». Sembra che il Signora voglia appagare questo desiderio: «Farò passare davanti a te tutto il mio splendore e proclamerò il mio nome: Signore, davanti a te. Farò grazia a chi vorrò far grazia e avrò misericordia di chi vorrò aver misericordia». Tuttavia d’improvviso le sue parole assumono una piega che potrebbe sembrare deludente: «Ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo […]. Quando passerà la mia Gloria, io ti porterò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano finché sarò passato. Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere» (Es 33, 18-23). Se Mosè si fosse sentito frustrato per non essere riuscito a vedere il volto di Dio, come era suo desiderio, avrebbe potuto rinunciare al suo tentativo o abbandonare il desiderio si avere futuri incontri. Invece, si lasciò portare da Dio e così riuscì a essere colui «con il quale il Signore parlava faccia a faccia» (Dt 34, 10).
La chiave dell’orazione non consiste nell’ottenere risultati tangibili, e ancor meno nell’essere occupati per un certo tempo. Quello che cerchiamo mediante il dialogo con il Signore non è un risultato immediato, ma essere capaci di arrivare fino a quel punto, a quello stato vitale, per così dire, nel quale l’orazione si identifica sempre più con la propria vita: pensieri, affetti, aspirazioni… Si tratta di stare con il Signore, rimanendo poi alla sua presenza l’intera giornata. In definitiva, il frutto principale dell’orazione è vivere in Dio. Così l’orazione è concepita come una comunicazione di vita: vita ricevuta e vita vissuta, vita accolta e vita donata. Non importa, allora, che non abbiamo sentimenti accesi o luci seducenti. In un modo molto più semplice, il tema della nostra orazione sarà – come ci diceva san Josemaría – il tema della nostra vita, e viceversa, perché l’intera nostra vita si trasformerà in autentica preghiera, procedendo «ora come un fiume ampio, calmo e sicuro»