«Ringrazialo per tutto, perché tutto è buono»
Ringraziare vuol dire sapersi amato da Dio
Autore: Carlos Ayxelà
Centrare bene la propria vita: dedicarsi alle cose essenziali, apprezzare le cose che valgono, prevenire il male, trascurare le cose irrilevanti.
«Se la ricchezza è un bene desiderabile in vita, quale ricchezza è più grande della sapienza, la quale tutto produce?» (Sap 8, 5). La sapienza non ha prezzo: tutti la vorrebbero per sé. È un sapere che non ha nulla a che vedere con la cultura, ma con il gusto, con la capacità di percepire il gusto del bene. Lo esprime in modo appropriato il termine sapientia, traduzione del greco sophia nei libri sapienziali. Nel suo significato originario, sapientia denota buon gusto, buon olfatto. Il sapiente ha un palato che gli permette di assaporare ciò che è buono. Da nobis recta sapere, chiediamo a Dio, con un’antica preghiera: concedici di assaporare ciò che è buono.
La Scrittura presenta la sapienza come una conoscenza naturale, che germoglia facilmente: «facilmente è contemplata da chi l’ama e trovata da chiunque la ricerca Previene, per farsi conoscere, quanti la desiderano. Chi si leva per essa di buon mattino non faticherà, la troverà seduta alla sua porta» (Sap 6, 12-14). Tuttavia, per acquisire questa connaturalità, è necessario cercarla, desiderarla fin dal mattino. Con pazienza, con l’insistenza del salmo: «O Dio, tu sei il mio Dio, all’aurora di cerco, di te ha sete l’anima mia, a te anela la mia carne, come terra deserta, arida, senz’acqua» (Sal 63, 2). Questa ricerca è il compito di una vita. Per questo la sapienza arriva anche con gli anni. La sapienza – il Papa, facendo eco al Siracide (cfr. Sir 8, 9), lo ha detto tante volte – è una caratteristica particolare degli anziani: essi sono «la riserva sapienziale del nostro popolo». È vero che l’età può anche comportare inconvenienti come l’inasprimento di alcuni difetti del carattere, una certa resistenza ad accettare i propri limiti o una certa difficoltà a comprendere i giovani; ma, a parte tutto questo, suole essere evidente la capacità di apprezzare, di assaporare, tutto ciò che è veramente importante. E questa, in fin dei conti, è la vera sapienza.
A questo sapere si riferiva una volta san Josemaría, parlando a un gruppo di fedeli dell’Opera: «Fra trent’anni, quando getterete uno sguardo al passato, non crederete ai vostri occhi. E non potrete far altro per il resto della vita che ringraziare, ringraziare…». Con il passare degli anni emergono, soprattutto, i motivi di riconoscenza. Si affievoliscono i contorni acuminati dei problemi e delle difficoltà che forse a suo tempo ci misero in estrema agitazione, e si finisce per vederli con altri occhi, e anche con un pizzico di umorismo. Si acquisisce la prospettiva che fa capire il modo in cui Dio ha guidato una persona, come ha man mano capovolto ogni suo errore, come si è servito dei suoi sforzi… Coloro che abitavano accanto al beato Álvaro ricordano la frequenza e la semplicità con cui diceva: «Grazie a Dio». La convinzione che uno non può far altro che ringraziare contiene, dunque, un elemento essenziale della vera sapienza; e cioè, quello che Dio fa crescere nell’anima di coloro che lo cercano e che possono dire anche prima di arrivare alla vecchiaia: «Ho più senno degli anziani, perché osservo i tuoi precetti» (Sal 119, 100).
Tutto è buono
Dalle ristrettezze e dalle angustie del suo nascondiglio nella Legazione dell’Honduras, san Josemaría scriveva nel 1937 ai fedeli dell’Opera che erano sparpagliati per Madrid: «Siate molto coraggiosi! Fate in modo che tutti siano contenti: tutto è per il bene; tutto è buono». Un’altra lettera, scritta un mese dopo a coloro che stavano a Valencia, è dello stesso tenore: «Abbiate coraggio. Siate allegri se, com’è logico, vi siete rattristati. Tutto è per il bene».
Tutto è buono, tutto è per il bene. In queste parole traspaiono due testi della Scrittura. Da un lato, il crescendo della gioia di Dio durante la creazione, che si conclude nella costatazione che «quanto aveva fatto […] era cosa molto buona» (Gn 1, 31); dall’altro, la massima di san Paolo: «tutto concorre al bene per coloro che amano Dio» (Rm 8, 28) , che san Josemaría condensava in una esclamazione: «omnia in bonum!». Alcuni anni prima, nel Natale del 1931, i due testi s’intrecciano in una annotazione che più tardi darà lo spunto per un punto di Cammino. Tutto è buono, tutto è per il bene. La riconoscenza per le cose buone e la speranza che Dio saprà trarre un bene da ciò che sembra cattivo: Abituati a innalzare il cuore a Dio, in rendimento di grazie, molte volte al giorno. Perché ti dà questo e quest’altro. Perché ti hanno disprezzato. Perché non hai ciò di cui hai bisogno o perché lo hai.
Perché ha fatto così bella sua Madre, che è anche Madre tua. Perché ha creato il sole e la luna e quell’animale e quella pianta. Perché ha fatto eloquente quell’uomo, e te impacciato nel parlare…
Ringrazialo di tutto, perché tutto è buono.
Come si può osservare subito, la sequenza dei motivi di gratitudine non segue un ordine particolare: se tutto è buono, lo è la prima cosa che ci si presenta, e la successiva, e l’altra ancora…; tutte quante sono motivo di gratitudine. «Perché ha creato il sole e la luna e quell’animale e quella pianta». Guarda dove vuoi, sembra dirci san Josemaría: non troverai altro che motivi di riconoscenza. In queste righe, infine, si riflette una ammirazione traboccante davanti alla bontà di Dio; uno stupore che ricorda il cantico delle creature di san Francesco, dove tutto è motivo di gratitudine: «Sii lodato, o mio Signore, per sorella luna e le stelle […]. Sii lodato, o mio Signore, per fratello vento e per l’aria serena e nuvolosa e ogni tempo, grazie al quale dai il nutrimento alle tue creature […]. Sii lodato, o mio Signore, per quelli che perdonano per il tuo amore».
«Perché ti dà questo e quest’altro». Quante cose ci dà Dio, e quanto facilmente ci abituiamo. La salute, che è stata chiamata «il silenzio degli organi», è forse un esempio paradigmatico: suole accadere che la diamo per scontata finché il corpo comincia a farsi notare; e forse soltanto allora apprezziamo, non avendola più, la perfetta salute. Qui la gratitudine consiste, in parte, nel prendere l’iniziativa, nell’affinare l’udito in modo da percepire il silenzio, la discrezione con la quale Dio ci regala tante cose. «Le misericordie di Dio ci accompagnano giorno per giorno. Basta che abbiamo il cuore vigilante per poterle percepire. Siamo troppo inclini ad avvertire solo la fatica quotidiana […]. Se però apriamo il nostro cuore, allora possiamo, pur immersi in essa, constatare continuamente anche quanto Dio sia buono con noi; come Egli pensi a noi proprio nelle piccole cose, aiutandoci così a raggiungere quelle grandi».
La gratitudine non è soltanto una risposta a un debito di riconoscenza. È molto di più: proprio perché consiste nell’assaporare ciò che è buono, ringraziare Dio è godere con Lui le cose buone che ci dà, perché in compagnia delle persone amate si gode sempre di più. Persino le cose più prosaiche possono essere allora motivo per star bene, per non prendersi troppo sul serio, per scoprire la gioia di vivere «tra le piccole cose della vita quotidiana, come risposta all’invito affettuoso di Dio nostro Padre: “Figlio, per quanto ti è possibile, trattati bene […]. Non privarti di un giorno felice” (Sir 14,11.14). Quanta tenerezza paterna si intuisce dietro queste parole! ».
Tutto è per il bene
Ricordarsi di ringraziare per le cose buone che Dio ci dà è già di per sé una sfida. Che dire delle cose meno gradevoli? «Perché ti hanno disprezzato»: perché ti hanno trattato con freddezza, con indifferenza; perché ti hanno umiliato; perché non hanno apprezzato i tuoi sforzi… «Perché non hai ciò di cui hai bisogno o perché lo hai». È quanto meno sorprendente la tranquillità con la quale avere e non avere qui appaiono sotto lo stesso segno. È davvero possibile ringraziare Dio per la mancanza di salute, di lavoro, di tranquillità? Rendere grazie perché ti manca tempo – quante volte questo ci fa soffrire –; perché ti manca il coraggio, le forze, le idee; perché questo o quello ti è riuscito male… Ebbene sì: anche allora, ci dice san Josemaría, rendi grazie a Dio.
Questo atteggiamento ci rimanda alle contrarietà che san Josemaría attraversava quando scriveva le lettere citate sopra mentre si trovava nella Legazione dell’Honduras, e al contesto delle sofferenze dal quale nacque l’appunto che sta all’origine di questo punto di Cammino. L’invito a essere grato per le cose contrarie, che appare in modo più esplicito qualche pagina dopo, trae origine da un’appunto di cinque giorni prima: «Paradossi di un’anima piccola. Se Gesù ti manda eventi che il mondo chiama buoni, piangi in cuor tuo, considerando la Sua bontà e la tua malizia: se Gesù ti manda eventi che la gente qualifica cattivi, rallegrati in cuor tuo, perché Egli ti dà sempre quello che conviene e dunque è l’ora bella di amare la Croce».
Malgrado la loro vicinanza nel tempo, questa considerazione è inserita in un altro capitolo di Cammino, uno dei due dedicati all’infanzia spirituale. Viene così alla luce una chiave che permette di comprendere il clima spirituale della disposizione di rendere grazie a Dio «per tutto, perché tutto è buono». Se la gratitudine è un segno della sapienza dovuta all’età e alla vicinanza con Dio, nasce soltanto dove c’è un atteggiamento di «abbandono pieno di speranza» nelle mani di Dio; un atteggiamento che san Josemaría scoprì per via dell’infanzia spirituale: «Hai visto come ringraziano i bambini? Imitali dicendo come loro, a Gesù, nelle occasioni favorevoli e in quelle avverse: “Come sei buono! Che buono!…”».
Ringraziare per le cose negative, naturalmente, non è cosa spontaneamente facile. In realtà, in un primo momento può sembrare anche una cosa teatrale o anche ingenua: come se negassimo la realtà, come se cercassimo consolazione in… un racconto per bambini. Eppure, ringraziare in queste situazioni non equivale a non vedere, ma a vedere oltre. Abbiamo difficoltà a ringraziare perché avvertiamo la perdita, la contrarietà, il guaio. Il nostro sguardo è ancora molto legato alla terra, come succede al bambino al quale sembra che il mondo sia crollato perché gli si è rotto un giocattolo, perché ha inciampato o perché vorrebbe continuare a giocare. Al momento è un piccolo dramma, ma poco dopo sicuramente non ci penserà più. «Nella vita interiore è assai vantaggioso a noi tutti essere […] come quei piccoli che sembrano fatti di gomma, che sanno godere persino dei loro capitomboli, perché si rimettono subito in piedi per continuare le loro scorribande e perché hanno anche, se è necessario, il conforto dei genitori».
La gratitudine di cui ci parla san Josemaría non è una sorta di cappa che copre le cose sgradevoli, come per magia, ma un gesto con il quale eleviamo lo sguardo a Dio nostro Padre, che ci sorride. Così si fa strada la fiducia, un abbandono che mette in secondo piano la contrarietà, benché ci continui a pesare. Essere grato quando qualcosa ci rincresce significa accettare: «La maniera migliore di esprimere gratitudine a Dio e alle persone è accettare tutto con gioia». Sicuramente la prima cosa che viene fuori non è un grido di gioia; probabilmente tutto il contrario. Anche così, benché l’anima si ribelli, ringraziamo: «Signore, non è possibile…, non può essere…, però grazie»; accettiamo: «io vorrei avere più tempo, più forze…, io vorrei che quella persona mi trattasse meglio…, io vorrei non avere questa difficoltà, questo difetto. Però Tu ne sai di più». Chiediamo a Dio di aggiustare le cose come sembra a noi che debbano essere, ma rasserenati dal fatto che Egli sa quello che fa e che trae il bene da dove forse noi vediamo soltanto negatività.
Per essere grati delle cose negative, sempre con parole dello stesso tipo del «grazie per tutto», è necessario «credere come credono i bambini, amare come amano i bambini, abbandonarsi come sanno abbandonarsi i bambini». Al di là della forma particolare che assume questo abbandono nella vita interiore di ciascuno, questo atteggiamento prospetta la convinzione che davanti a Dio siamo molto piccoli e che lo sono anche le nostre cose. Malgrado questo, al Signore appaiono importanti, a Lui più che a nessun altro al mondo. Nasce da qui, in realtà, la gratitudine di sapersi amato: grazie perché stai qui accanto a me; grazie perché queste cose a Te importano. Pur nell’apparente lontananza di Dio, avvertiamo allora la sua vicinanza: lo contempliamo nella vita ordinaria, perché i problemi fanno parte della vita ordinaria. Nascosto tra le avversità, nasce così il motivo più profondo per cui ringraziamo per le cose buone e per le cose cattive: grazie, perché dovunque scopro l’Amore. Il vero motivo del ringraziamento, la radice stessa del ringraziamento, è che Dio mi ama e che tutto nella mia vita è occasione di amare e di sapermi amato.
Nella sofferenza per quello che ci manca, per l’indifferenza, per i difetti, per le conseguenze dei nostri errori… si nascondono, dunque, le opportunità per ricordare, per risvegliare in noi l’Amore di Dio. Ci rendiamo conto che, sebbene ci costi rinunciare a certe cose, sebbene ci costi accettare il dolore o le limitazioni, che cosa ci toglie tutto questo, in fondo, se abbiamo l’Amore di Dio? «Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il percolo, la spada?» (Rm 8, 35).
In tal modo appare possibile rendere «grazie per tutto, perché tutto è buono». La follia cristiana di essere grati di tutto trae origine dalla filiazione divina. Chi si è reso conto di avere un Padre che lo ama, in realtà, non ha bisogno di altro. A un Padre buono, soprattutto. si è grati. Così è l’amore di Gesù per suo Padre: Gesù è totalmente grato, perché ha ricevuto ogni cosa da suo Padre. D’altra parte essere cristiano vuol dire entrare in questo amore, in questa gratitudine: Ti rendo grazie, Padre, perché mi ascolti sempre (cfr. Gv 11, 41-42).
Non dimenticare di ringraziare
«Benedici il Signore, anima mia, non dimenticare tanti suoi benefici» (Sal 103, 2). Nella Scrittura Dio ci invita spesso a ricordare, perché sa che abitualmente viviamo immemori, come i bambini che mentre giocano non si ricordano dei loro genitori. Dio lo sa e lo comprende. Ma ci attira dolcemente tra le sue braccia e ci sussurra in mille modi: ricorda. Pertanto, ringraziare è anche una questione di memoria. Per questo il Papa parla spesso di «memoria grata».
La disposizione a ringraziare per quello che ci infastidisce, per quanto stupefacente possa apparire, in realtà aiuta a ricordarsi di rendere grazie a Dio per le cose gradevoli. Del resto, la vita di ogni giorno ci offre molte occasioni per fare memoria: fermarsi un istante a benedire la tavola, a ringraziare perché Dio ci dà qualcosa da mettere in bocca; dedicare un certo tempo del ringraziamento della Messa o della nostra orazione personale per ringraziarlo per le cose ordinarie della vita, per scoprire ciò che hanno di straordinario: un lavoro, un tetto, persone che ci amano; essere grati per le gioie degli altri; vedere un dono di Dio, e un altro, e un altro ancora, nelle persone che ci prestano un servizio… Ci sono anche dei momenti in cui la vita ci viene incontro con un briciolo di bellezza: le luci di un tramonto, un’attenzione inattesa verso di noi, una sorpresa gradita… Sono occasioni per constatare, tra il grigiore della vita quotidiana, il colore dell’Amore di Dio.
Dalla più profonda antichità, le culture del mondo hanno visto nell’avanzamento del giorno verso la notte una immagine della vita. La vita è come una giornata e una giornata è come la vita. Per questo, se il ringraziamento è una caratteristica della sapienza di chi ha vissuto molto, com’è bello concludere la giornata ringraziando. Quando ci fermiamo alla presenza di Dio per esaminare la giornata, Dio gradirà che gli siamo grati per tante cose «etiam ignotis»: anche per quelle che non conosciamo; e gli chiederemo perdono, con una fiducia di figli, anche per non aver ringraziato a sufficienza.
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