Sai Affidarti? Il segreto della vita cristiana non è essere perfetti, ma lasciarsi salvare
Meditazione a partire da Lc 18,9-14
Autore: Don Flavio Maganuco
XXX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO C)
Sir 35,15-17.20-22 – Sal 33(34) – 2Tm 4,6-8.16-18 – Lc 18,9-14
SAI AFFIDARTI?
Il segreto della vita cristiana non è essere perfetti, ma lasciarsi salvare.
“9 Disse ancora questa parabola per alcuni che presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri: 10 «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. 11 Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. 12 Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo. 13 Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore. 14 Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro, perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato”.
Ammettiamolo; ci piace essere autosufficienti, ci dà un senso di appagamento che solo poche cose riescono a dare alla stessa maniera; ma purtroppo ci sono anche momenti in cui la vita ti costringe a metterti nelle mani di qualcun altro.
Ricordo una volta, dopo un piccolo intervento, in cui per qualche giorno non potevo guidare. Dipendevo da chi mi accompagnava, da chi mi faceva la spesa, da chi si ricordava di me. E mentre una parte di me provava gratitudine, un’altra si sentiva vulnerabile, quasi “inutile”. È strano: se non stiamo attenti, essere aiutati a volte può fare più male che bene, perché ci mette davanti alla nostra fragilità. Ci ricorda che non siamo onnipotenti, che non controlliamo tutto. E dentro quella scoperta si nasconde sempre una punta d’orgoglio ferito.
Forse perchè viviamo in una società che ci ha convinti che valiamo solo se produciamo, se risolviamo da soli, se non diamo fastidio a nessuno. La “cultura dello scarto”, come la chiamava Papa Francesco, comincia proprio lì: nel pensare che chi non produce e non è autonomo non serve più. E Dio solo sa quanta paura e quanta tristezza questa condizione può mettere nel cuore dell’uomo.
La buona notizia è che Dio, proprio nelle letture che abbiamo ascoltato oggi, rovescia questa logica. Lui, dice il Siracide, “non è parziale a danno del povero”, ma “ascolta la supplica dell’oppresso”.
In parole povere, Dio ascolta chi non può fare da sé. Dio si china su chi non ha più voce.
È in fin dei conti quello che accade nella parabola del Vangelo di oggi: due uomini salgono al tempio. Uno porta davanti a Dio i suoi meriti, la sua “produttività”; l’altro, solo la sua povertà. Il primo si racconta perfetto; il secondo si riconosce fragile.
E Gesù conclude: “Questi tornò a casa giustificato, a differenza dell’altro.”
Perché? Perché Dio non cerca superuomini, ma cuori veri.
Perché il Vangelo non è mai un perfezionamento della logica umana: è un rovesciamento.
Dove noi vediamo un vincente, Dio riesce a vedere se invece c’è un cuore vuoto. Dove noi scartiamo, Dio comincia a costruire.
Dove noi non abbiamo più difese, Dio può finalmente entrare.
Il pubblicano non è promosso per pietà: ma perchè ha lasciato spazio a Dio. La grazia entra solo dove l’orgoglio si fa da parte.
Essere “giustificati” non significa che Dio chiude un occhio, come se facesse finta di niente. Significa che Lui ci rende giusti davanti a Sé, non perché lo siamo, ma perché ci lasciamo amare così come siamo. È un dono, non una conquista.
San Paolo lo spiega bene ai Romani: “Giustificati per fede, abbiamo pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo” (Rm 5,1).
In altre parole, la giustizia di Dio non è un tribunale, è una relazione.
Non è il premio per chi non ha sbagliato, ma la guarigione per chi si lascia toccare dalla Misericordia.
Il fariseo voleva convincere Dio del proprio valore; il pubblicano, invece, ha permesso a Dio di restituirglielo.
Ecco perché torna a casa “giustificato”: perché non si è difeso da Dio, ma si è lasciato difendere da Lui.
Come quando, dopo aver cercato mille ragioni per scusarti, ti lasci abbracciare e ti rendi conto che l’altro non ti chiede spiegazioni, ma solo di restare.
Come quando non ti senti più all’altezza e invece scopri che sei amato proprio lì, dove ti credevi da buttare.
Il Salmo ci fa entrare in questa verità con parole meravigliose:
“Il Signore è vicino a chi ha il cuore spezzato, egli salva gli spiriti affranti.”
Non ci piace, ma c’è un livello di vicinanza di Dio che si può sentire non quando siamo forti, ma solo quando siamo spezzati; c’è “un’allegria” che possiamo sperimentare solamente nella povertà. Perchè è lì che il Signore si fa prossimo. È lì che ci libera da tutte le nostre angosce. Non liberandoci dalle difficoltà, ma liberandoci dalla paura di affrontarle soli.
Quante volte ve l’ho detto: La fede non è una polizza assicurativa contro il dolore, ma la certezza che dentro ogni dolore non siamo mai abbandonati.
E allora il povero non è solo chi non ha soldi. È chi non ha più difese, chi non ha più ruoli da giocare, chi non ha più maschere da tenere su.
È la madre che ammette di non sapere più come educare suo figlio;
è il giovane che smette di fingere di avere tutto sotto controllo;
è l’anziano che non riesce più a fare da solo e accetta fra mille paure e umiliazioni di lasciarsi aiutare.
Povero è anche colui che, come Paolo nella seconda lettura, può dire nonostante le proprie sconfitte: “Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede.”
Paolo non parla da vincitore, ma da uomo liberato: sa che non ha più forza, ma si sente forte in Dio. “Il Signore mi è stato vicino e mi ha dato forza.”
Anche questa è spiritualità dell’affidamento: non un lasciarsi andare, ma un lasciarsi tenere. Non un rinunciare a lottare, ma farlo nella certezza che Qualcuno combatte con te.
Come quando ti aggrappi alla mano di chi ti sta accanto mentre tutto trema.
Come quando attraversi un momento buio e non capisci più nulla, ma senti che qualcuno cammina al tuo fianco.
Come quando non hai più parole per pregare, Ed è il tuo respiro, che diventa preghiera.
Quando ti affidi così, non smetti di agire: agisci diversamente. Non per paura, ma per fiducia.
Non per dovere, ma per gratitudine.
E allora cominci davvero a “benedire il Signore in ogni tempo”, come dice il Salmo.
Non perché tutto va bene, ma perché non smetti di credere che Lui è buono, anche quando tutto va male.
Chi vive così, non si vanta di sé, ma si gloria nel Signore. E chi ascolta, “si rallegra”, perché finalmente scopre che la felicità non nasce dal controllo, ma dalla fiducia.
Questa fiducia, oggi, ancora una volta, possiamo tornare a celebrarla nell’Eucaristia.
Ricordiamocelo: su questo altare, Dio si fa vicino: prende la nostra povertà, la benedice e la trasforma in comunione.
Ci dona la forza che ha dato a Paolo, la pace che ha dato al pubblicano, la consolazione che ha promesso a chi ha il cuore spezzato.
E mentre riceviamo il Corpo di Cristo, Dio ci dice: “Non sarà condannato chi in me si rifugia.” Allora torniamo a casa “giustificati”, come il pubblicano, ma anche forti come Paolo.
Non più schiacciati dalle nostre fragilità, ma esaltati dalla Grazia che ci rialza.
Perché il segreto della vita cristiana non è essere perfetti, ma lasciarsi salvare.
E quando impariamo questo, anche la debolezza diventa un luogo di gloria.
Usciamo con questa corona: liberi e forti in Lui.
Perché il Signore è davvero vicino a chi ha il cuore spezzato, e salva — sempre — gli spiriti affranti. Amen