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Discorso ai Giovani I

Omelia

Autore: San Basilio Magno

I
Molte sono le ragioni, ragazzi miei, che mi spingono a darvi quei consigli che giudico i migliori e che credo possano esservi utili, nel caso li seguiate. Infatti l’essere arrivato a questa età, l’aver affrontato ormai molte prove e l’aver preso parte abbastanza alle alterne vicende della sorte che tutto insegna, mi hanno reso tanto esperto delle cose umane da poter mostrare la via più sicura a chi da poco si è incamminato lungo il sentiero della vita.

Per grado di parentela io vengo subito dopo i vostri genitori, così che non nutro per voi meno affetto di loro. D’altra parte, se non interpreto male i vostri sentimenti, credo che neanche voi, guardando me, sentiate la mancanza dei vostri genitori. Se dunque farete tesoro delle mie parole, sarete al secondo posto della graduatoria di merito stilata da Esiodo; altrimenti, senza che sia io a dovervi dire qualcosa di spiacevole, basterà che vi ricordiate dei suoi versi: «Ottimo è colui che da se stesso vede ciò di cui ha bisogno; buono chi segue ciò che gli viene mostrato da altri; ma chi non è capace né dell’una né dell’altra cosa, è del tutto inetto».

Non meravigliatevi poi se a voi, che pur frequentate ogni giorno la scuola e avete familiarità con i più illustri degli antichi scrittori grazie alle opere che ci hanno lasciato, io dico d’averci personalmente trovato qualche cosa di davvero utile. Io vengo a consigliarvi appunto questo: non bisogna che voi, affidando a questi personaggi una volta per tutte il timone della vostra intelligenza, come si fa con una nave, li seguiate dovunque vi portino, ma, accogliendo quanto hanno di utile, sappiate anche ciò che bisogna lasciai perdere. Comincerò dunque a spiegarvi quali siano queste cose e con quali parametri debbano essere valutate.

II

Noi, ragazzi miei, crediamo che la vita dell’uomo in questo mondo non abbia un valore assoluto, né consideriamo o definiamo vero bene ciò che circoscrive la sua utilità entro i limiti di questa vita. Perciò non riteniamo degna di essere desiderata né la nobiltà di nascita né la forza fisica o la bellezza o la statura del corpo, né gli onori del mondo né il potere e nemmeno ciò che si potrebbe dire grande tra le cose umane. E neppure invidiamo quelli che posseggono tali beni, ma ci spingiamo ben oltre con la speranza e facciamo tutto nella prospettiva di un’altra vita.

Di conseguenza, affermiamo che bisogna amare e ricercare con tutte le forze tutto ciò che ci aiuta a raggiungere una tale vita; quanto invece non ci orienta ad essa va trascurato come cosa di nessuna importanza. Come sia poi questa vita e dove e in che modo noi la vivremo, sarebbe troppo lungo da spiegare rispetto allo scopo che qui mi sono proposto, e ci vorrebbero interlocutori più maturi di voi. Per darvi un’idea di ciò che intendo, basterà forse dire solo questo, che, cioè, se uno potesse abbracciare col pensiero e mettere insieme tutta la felicità che c’è stata al mondo da quando gli uomini esistono, scoprirebbe che essa non è paragonabile nemmeno alla più piccola parte di quei beni; anzi, troverebbe che la totalità dei beni di quaggiù è distante per valore dal più piccolo bene di lassù più di quanto l’ombra e il sogno sono lontani dalla realtà. O piuttosto, per usare un esempio più appropriato, quanto l’anima è sotto ogni aspetto più preziosa del corpo, tanta è l’una vita è differente dall’altra.

A quest’altra vita ci conduce la Parola di Dio con l’insegnamento dei suoi misteri. Ma fin tanto che per l’età non siamo in grado di comprenderne il senso profondo, ci esercitiamo con l’occhio dell’anima su altri libri non del tutto diversi, come su ombre e specchi, imitando quelli che fanno le esercitazioni militari. Questi, una volta acquisita esperienza nei movimenti delle braccia e nella marcia cadenzata, da questo addestramento ricavano poi profitto per le vere battaglie. Dobbiamo anche noi credere di aver dinanzi una battaglia, la più dura di tutte le battaglie, per la quale dobbiamo fare tutto e sforzarci il più possibile per prepararci ad essa; e bisogna consultare poeti, storici, oratori e tutte quelle persone da cui possa venirci un qualche aiuto per il bene della nostra anima.

Come i tintori che, solo dopo aver preparato con trattamenti particolari la stoffa che deve ricevere la tintura, vi applicano il colore vivo, il rosso porpora o qualunque altro, così anche noi, se vogliamo che rimanga indelebile in noi l’idea del bene, solo dopo essere stati preparati con gli studi profani, comprenderemo i misteri dei sacri insegnamenti. Così, una volta abituati a guardare il sole riflesso nell’acqua, potremo fissare il nostro sguardo direttamente nella luce.

III

Se dunque tra le lettere profane e quelle sacre c’è qualche affinità, il conoscerle entrambe ci sarà senz’altro utile; in caso contrario, il metterle a confronto e capirne la differenza servirà non poco a confermarci nella scelta migliore. Ma a che cosa potremo paragonare i due insegnamenti per farcene un’immagine adeguata? Come una pianta ha sì per suo proprio carattere quello di caricarsi di frutti nella giusta stagione, ma porta anche come ornamento le foglie che stormiscono sui rami, così anche l’anima, sebbene il suo frutto caratteristico sia la verità, non è sconveniente che si circondi di sapienza profana come di foglie che diano al frutto riparo e un aspetto piacevole. Si dice del resto che il grande Mosè, così famoso nel mondo per la sua saggezza, solo dopo aver esercitato la mente nelle scienze degli Egiziani, si dette alla contemplazione dell’Essere. E come lui, ma in epoca più recente, dicono che il saggio Daniele prima abbia imparato a Babilonia la sapienza dei Caldei e si sia poi dedicato allo studio delle cose divine.

IV

Si è già detto abbastanza che questi insegnamenti profani non sono inutili per l’anima. Rimarrebbe da dire in che modo voi dobbiate accostarvi ad essi.

Prima di tutto, per cominciare dai poeti, non bisogna prestare attenzione indistintamente a tutto quel che troviamo presso di loro, dal momento che alcuni trattano argomenti di ogni genere; ma quando vi narrano le imprese o i discorsi di uomini virtuosi, bisogna amarli ed imitarli e cercare soprattutto di essere simili a loro. Ma ogni qualvolta passano a rappresentare uomini malvagi, bisogna rifuggire queste letture, tappandoci le orecchie non meno di quanto i poeti dicono che Ulisse rifuggì il canto delle Sirene. Infatti, l’abitudine ai discorsi cattivi è come una via verso le azioni. Bisogna pertanto custodire l’anima con ogni cura, affinché attraverso la dolcezza delle parole non assumiamo, senza accorgercene, qualcosa di deleterio, come chi insieme al miele beve i veleni.

Dunque non loderemo i poeti quando rappresentano persone che insultano o dicono scurrilità o amoreggiano o si ubriacano, né quando riducono la felicità ad una tavola imbandita e a canti dissoluti. E ancor meno daremo loro ascolto quando trattano dei loro dei, e soprattutto quando ne parlano come se fossero molti e discordi tra loro. Presso di loro, infatti, il fratello è in contrasto col fratello, il padre con i figli e c’è guerra implacabile tra figli e genitori. Lasceremo poi agli attori gli adulteri degli dei, i loro amori ed accoppiamenti alla luce del giorno, e soprattutto quelli del loro capicoro, ossia del sommo Giove, come lo chiamano, del quale si raccontano cose che se si dicessero degli animali farebbero comunque arrossire. Lo stesso devo dire dei prosatori soprattutto quando scrivono per sedurre gli uditori. Degli oratori poi non imiteremo l’arte volta all’inganno. Né nei tribunali né in altra circostanza, infatti, ci è permessa la menzogna, a noi che abbiamo scelto la via diritta e vera della vita e a cui la legge vieta di intentare processi. Ma piuttosto sceglieremo quegli scritti nei quali è lodata la virtù o condannato il vizio.

Come dai fiori le altre creature ricavano solo il piacere del profumo o del colore, mentre le api vi attingono anche il miele, allo stesso modo da questi scritti, quanti non vi cercano soltanto il fascino e la dolcezza, possono ricavare anche un qualche giovamento per l’anima. Dobbiamo appunto accostarci a tali opere seguendo in tutto l’esempio delle api. Esse non si posano indistintamente su tutti i fiori né cercano di portar via tutto da quelli sui quali si posano; ma prendendo soltanto quanto è necessario al loro lavoro, lasciano perdere il resto. E anche noi, se siamo saggi, una volta attinto da quelle opere quanto ci è utile ed è conforme alla verità, il resto lo trascureremo. E come nel cogliere una rosa evitiamo le spine, così nel cogliere in questi libri quanto ci è utile, staremo attenti a ciò che è dannoso.

Come prima cosa, dunque, bisogna esaminare bene ciascun aspetto di tali studi e adeguarli al nostro scopo, sistemando, secondo il proverbio dorico, la pietra a fil di piombo.

V

E siccome alla nostra vita, quella vera, dobbiamo tendere per mezzo della virtù ed è a questa che molti elogi sono stati fatti dai poeti, dai prosatori e ancor più dai filosofi, bisogna dedicarsi in modo particolare a questo genere di scritti. Non è infatti piccolo vantaggio che nell’animo dei ragazzi si crei una certa familiarità e dimestichezza con la virtù, poiché gli insegnamenti ditali scrittori si imprimono nel profondo del loro animo ancora tenero e sono di per sé indelebili. Con quale altra intenzione pensiamo che Esiodo abbia scritto questi versi, che tutti recitano, se non per esortare i giovani alla virtù? «La via che conduce alla virtù è all’inizio aspra, difficile, piena di molto sudore e fatica e malagevole».

Perciò non è da tutti accedervi, a causa della sua ripidità, o giungere facilmente alla cima, una volta intrapresa la salita. Però chi è arrivato in alto può vedere come essa sia piana e bella, come sia facile, agevole e migliore dell’altra che conduce al vizio e che, come disse questo stesso poeta, è affollata per la sua stessa accessibilità. A me infatti sembra che Esiodo per nessun’altra ragione abbia scritto queste cose se non per esortarci alla virtù, per invitare tutti ad essere virtuosi e perché, lasciandoci scoraggiare dalle difficoltà, non desistiamo dal raggiungere la meta. E naturalmente se anche qualche altro ha elogiato la virtù in modo analogo, dobbiamo accogliere le sue parole, dal momento che ci conducono allo stesso fine.

Io ho sentito dire da una persona abile nell’interpretare il pensiero del poeta che tutta la poesia di Omero è un elogio della virtù e che tutto in lui, eccetto quanto è marginale, porta a questo. Emblematici quei versi in cui parla del condottiero dei Cefalleni salvato nudo dal naufragio: prima infatti dice che la principessa solo al vederlo provò un senso di rispetto, tanto era lontano dal doversi vergognare di apparire nudo, proprio perché il poeta lo rappresentò adorno di virtù a mo’ di vesti; poi anche dagli altri Feaci fu stimato tanto degno che, abbandonando la mollezza nella quale vivevano, lo ammiravano e lo invidiavano tutti; e nessuno dei Feaci avrebbe allora desiderato essere altro che Ulisse, e per giunta Ulisse scampato da un naufragio.

In questi versi quell’interprete del pensiero del poeta sosteneva che Omero dice quasi gridando: O uomini, dovete preoccuparvi della virtù, che sopravvive al naufragio e farà apparire il naufrago, restituito nudo alla spiaggia, più onorevole dei fortunati Feaci. Ed è proprio così! E mentre gli altri beni non appartengono al proprietario più che a qualsiasi altra persona, passando dall’uno all’altro come nel gioco dei dadi, la virtù è l’unico possesso che non ci può essere tolto e rimane durante la vita e anche dopo la morte. Appunto per questo anche Solone mi pare abbia detto ai ricchi: «Noi non scambieremo la nostra virtù con la loro ricchezza, poiché quella è stabile, le ricchezze degli uomini invece passano dall’uno all’altro».

Un analogo concetto esprimono quei versi di Teognide in cui dice che Dio, chiunque egli sia, fa pendere la bilancia delle sorti umane ora da una parte ora da un’altra: «Ora sono ricchi, ora non possiedono nulla».

Ed anche il sofista Prodico di Ceo filosofeggia con parole simili in qualcuno dei suoi scritti riguardo al vizio e alla virtù: anche a lui dobbiamo volgere la nostra attenzione, perché non è un autore da trascurare. Questo è pressappoco il ragionamento di Prodico, per quel che ricordo del suo pensiero; le parole precise mi sfuggono, so solo che, semplicemente e senza metrica, raccontava che quando Eracle era giovanissimo, più o meno della vostra età, mentre stava decidendo quale delle due vie percorrere, o quella che attraverso la fatica conduce alla virtù o l’altra ben più comoda, gli si presentarono due donne: erano la Virtù e il Vizio. Esse, pur tacendo, lasciavano immediatamente intravedere dal loro atteggiamento la differenza. L’una infatti, ricercatamente acconciata per apparire bella, straripava di sensualità e si trascinava dietro tutto lo sciame dei piaceri; ostentava tutto ciò e, promettendo ancor di più, cercava di attrarre a sé Eracle. L’altra invece era magra e smorta, austera nello sguardo, e diceva cose del tutto diverse: non prometteva nulla di voluttuoso né di dolce, ma sudori senza fine e fatiche e pericoli, per terra e per mare; premio di tutto ciò era divenire dio, come diceva il racconto di Prodico; e appunto questa Eracle finì per seguire.

VI

E quasi tutti coloro che si sono guadagnati una certa fama per la loro saggezza, chi più chi meno, ciascuno secondo le proprie forze, hanno tessuto nei loro scritti l’elogio della virtù. Questi noi dobbiamo ascoltare, cercando di tradurre nella nostra vita le loro parole. Perché colui che conferma con i fatti quella filosofia che altri predicano solo a parole, «è il solo saggio, gli altri sono ombre che si agitano».

Il che mi fa venire in mente il paragone di un pittore che rappresentasse un uomo di straordinaria bellezza, e quest’uomo fosse in realtà tale quale egli l’ha riprodotto nel suo ritratto. Poiché lodare splendidamente la virtù in pubblico e fare lunghi discorsi suquesto tema, e poi in privato stimare il piacere più della temperanza e il guadagno più della giustizia, è cosa, direi, che si addice ad attori che calcano la scena, i quali spesso recitano il ruolo di re e di potenti, mentre non sono né re né potenti e forse neppure uomini liberi. Un musicista del resto non accetterebbe di avere una lira scordata né il direttore di un coro dei coristi che non fossero perfettamente intonati: e ci potrà invece essere qualcuno che sia in disarmonia con se stesso e che conduca una vita non coerente con le sue parole? Ma dirà con Euripide che «la lingua ha giurato, ma il cuore ne è rimasto esente» e cercherà di sembrare onesto invece di esserlo? Ma questo è il massimo della disonestà, se dobbiamo credere a Platone, ossia l’apparire onesti senza esserlo!

VII

Accogliamo, pertanto, quelle opere che contengono insegnamenti sulla virtù. E poiché le azioni virtuose degli antichi sono giunte a noi o per tradizione diretta oppure conservate negli scritti dei poeti o dei prosatori, non dobbiamo trascurare l’utile che possiamo trarne.

Per esempio, un individuo della piazza insultava Pericle, senza che questi gli desse importanza; e così per tutto il giorno continuarono l’uno a ricoprirlo d’insulti senza tregua, l’altro a non farci caso. Scesa ormai la sera e fattosi buio, quando quello si decise a malincuore ad andarsene, Pericle lo fece accompagnare con una torcia per non sprecare neanche quell’occasione di esercitare la virtù.

Un altro esempio. Un tale, infuriato contro Euclide di Megara, lo minacciò giurando che l’avrebbe ucciso; di rimando, l’altro giurò che l’avrebbe calmato e fatto desistere dalla collera. Quanto sarebbe bene richiamare alla memoria qualcuno di questi esempi quando si è presi dall’ira! Non bisogna infatti dar retta a quella tragedia che dice: «Basta lo sdegno ad armare la mano contro i nemici».

La cosa migliore sarebbe non lasciarsi affatto trasportare dall’ira e, se ciò non è facile, perlomeno non permettere di andar troppo oltre, usando come freno la ragione.

Ma torniamo ad occuparci di esempi di virtù. Un tizio, avventatosi contro Socrate, il figlio di Sofronisco, prese a colpirlo senza risparmio in pieno viso. Socrate non oppose resistenza, ma lasciò che il forsennato sfogasse tutta la sua rabbia, al punto che il viso gli diventò tutto gonfio dai pugni. Quando poi quello smise di picchiarlo, si dice che Socrate non fece altro che scriversi sulla fronte: Opera del tale, proprio come uno scultore firma la sua statua. E questa fu la sua vendetta.

Credo sia bene che i ragazzi della vostra età imitino questi esempi, che sostanzialmente concordano con i nostri principi. Il comportamento di Socrate, infatti, è molto simile al nostro comandamento, che ci prescrive di porgere l’altra guancia a chi ci percuote. Altro che vendicarsi! L’esempio di Pericle e di Euclide è invece in sintonia con quell’altro comandamento che insegna a sopportare chi ci perseguita e a tollerare pazientemente la loro ira, e anche conquello che ci esorta a pregare per il bene dei nemici, e non a maledirli. E così chi si sarà formato su questi esempi, non riterrà impossibile attuare gli insegnamenti del Vangelo.

Non vorrei tralasciare neppure l’aneddoto di Alessandro, il quale, dopo aver fatto prigioniere le figlie di Dario, pur famose per la loro straordinaria bellezza, non si degnò neppure di vederle, poiché giudicava vergognoso che chi aveva vinto degli uomini si lasciasse vincere da donne. Ebbene, questo esempio coincide col precetto evangelico, secondo cui: «Chi ha guardato una donna per desiderio, anche se di fatto non ha commesso adulterio, solo per aver accolto il desiderio nel suo cuore, non è esente da colpa».

Anche l’esempio di Clinia, uno dei discepoli di Pitagora, è difficile credere che si accordi con i princìpi cristiani per puro caso e non invece per volontà di emulazione. Che cosa fece? Costui, pur essendogli possibile evitare una multa di tre talenti con un semplice giuramento, preferì pagare anziché giurare, anche se avrebbe giurato il vero. Pare quasi che avesse già udito quel comandamento che ci proibisce di giurare.

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