San Carlo Borromeo, un riflesso del Buon Pastore
Omelia su San Carlo Borromeo in occasione della sua festa
Autore: San Giovanni Paolo II
1. “Il Signore è il mio pastore” (Sal 23, 1).
Carissimi fratelli e sorelle riuniti nel cuore di questa prestigiosa e laboriosa città per la quale san Carlo si dedicò come pastore!
Nel novembre 1584 il cardinale Carlo Borromeo, arcivescovo della Chiesa milanese, rese la sua anima a Dio. Morì all’età di 46 anni. Gli occhi fissi sul Crocifisso, diede l’ultima testimonianza a colui al quale aveva consacrato completamente la vita.
Un profilo sintetico di questa vita ci è stato presentato dall’odierna liturgia in rito ambrosiano.
Il moribondo, fissando lo sguardo su Cristo crocifisso, sembrava ripetere: “Il Signore è il mio pastore”.
2. E insieme col suo vescovo morente, tutta la Chiesa milanese sembrava ripetere le stesse parole.
Il Signore si era già rivelato – un tempo – in questa comunità ecclesiale come il Buon Pastore mediante il grande sant’Ambrogio e, nel corso dei secoli, mediante molti altri vescovi.
Ed ecco nuovamente, nell’arco del XVI secolo, il Buon Pastore trovò un suo nuovo riflesso – della statura di Ambrogio – in Carlo, della famiglia dei Borromeo, del quale commemoriamo i quattrocento anni della morte.
Chi è il Buon Pastore? È colui, che offre la vita per le pecore.
È colui, che conosce le sue pecore ed esse conoscono lui.
È colui, la cui voce ascoltano, divenendo una sola comunità di Dio, un solo gregge.
È colui che il Padre ama.
È Cristo.
Carlo Borromeo morente su un duro giaciglio s’immerge con lo sguardo e con il cuore in Cristo crocifisso, e sembra dire: “Il Signore è il mio pastore”.
La Chiesa milanese, raccolta intorno al letto del moribondo, sembra dire:
– il buon pastore
– era con noi, durante questi anni,
il pastore modellato su Cristo.
– Ecco, il buon pastore ci lascia.
Il Vangelo vera Parola di Vita
3. San Carlo Borromeo fu grande pastore della Chiesa, prima di tutto perché egli stesso seguì Cristo-Buon Pastore.
Lo seguì con costanza, ascoltando le sue parole e attuandole in modo eroico. Il Vangelo divenne per lui la vera parola di vita, plasmandone i pensieri e il cuore, le decisioni e il comportamento.
Nel sacramento del Battesimo viene concepita in noi una nuova vita. “Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita”, sembrava ripetere Carlo Borromeo come l’apostolo, fin dalla fanciullezza . . . “siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli” (1 Gv 3, 14).
Proprio quest’amore ha fatto di lui uno straordinario discepolo e seguace di Cristo-Buon Pastore.
In giovane età egli venne nominato cardinale di santa romana Chiesa e arcivescovo di Milano; fu chiamato ad essere pastore della Chiesa, perché egli stesso si lasciò guidare dal Buon Pastore.
“Il Signore è il mio pastore . . . / ad acque tranquille mi conduce. / Mi rinfranca, mi guida per il giusto cammino / per amore del suo nome” (Sal 23,1-3).
4. Quanto era importante, proprio in quell’epoca, andare “per il giusto cammino”. Quant’era importante avere in se stessi quella “alacrità” e la potenza dello Spirito da comunicare poi agli altri! Quant’era importante trovare riposo nel Signore stesso mediante la preghiera, la contemplazione e la stretta unione con lui tra le fatiche, i compiti e le sofferenze di questa vocazione straordinaria!
Non si impaurì per le minacce ed i pericoli
In mezzo a queste fatiche e lotte, proprie del servizio pastorale, Carlo Borromeo poteva ripetere, fissando gli occhi su Cristo: “Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza” (Sal 23, 4).
E così egli entrava nel suo popolo di Dio, nella sua Chiesa come vescovo e pastore, partecipando al mistero imperscrutabile di Cristo, eterno e unico pastore delle anime immortali, che abbraccia i secoli e le generazioni, innestando in essi la luce del “secolo futuro”.
5. Il secolo e la generazione in cui fu dato a Carlo di vivere e operare, non erano facili. Essi anzi appartenevano a tempi particolarmente difficili della storia della Chiesa.
Gli occhi fissi al suo Redentore e Sposo, il cardinale Borromeo sembrava ripetere col salmista: “Se dovessi camminare in una valle oscura, / non temerei alcun male, perché tu sei con me” (Sal 23, 4).
San Carlo non si impaurì per le minacce e i pericoli che sovrastavano allora la Chiesa. Li seppe affrontare. Ebbe l’umiltà e la grandezza di vedute necessarie per dare un valido contributo al fine di portare a termine l’opera allora indispensabile del Concilio di Trento.
Come è noto infatti, fin da quando era a Roma, chiamato dalla zio, il papa Pio IV, fu creato cardinale e, divenuto capo della segreteria papale, si adoperò perché il Concilio, interrotto nel 1552, riprendesse i suoi lavori e giungesse a compimento, stabilendo le linee della vera, grande riforma della quale la Chiesa aveva bisogno (H. Jedin, Carlo Borromeo, Roma 1971, p. 9). Fu un’attività intensa, che rivelò le sue eccezionali capacità di lavoro e alla quale si dedicò con ardore, nella coscienza di operare per il bene della Chiesa. Al termine del Concilio, scriveva al cardinale Morone: “È tanto il desiderio mio che ormai si attenda ad eseguire, appena sarà confermato, questo santo Concilio, conforme al bisogno che ne ha la cristianità tutta” (J. Susta, Die römische Kurie und das Konzil von Trient, Wien 1904, IV, p. 454).
6. La via del rinnovamento indicata allora dal Concilio di Trento fu da lui accolta come norma per la sua attività nella sede milanese.
Una volta che a Roma, come membro di un’apposita commissione cardinalizia, aveva contribuito alla determinazione delle direttive generali per l’applicazione del Concilio, sentì poi urgente il bisogno, quando fu investito della responsabilità pastorale per la Chiesa milanese, di tradurre nei fatti quelle direttive secondo le possibilità e le esigenze particolari di quella comunità ecclesiale. Dopo aver quindi dato prova, a Roma, della vastità e profondità dei suoi disegni di rinnovamento, seppe anche mostrare, a Milano, una straordinaria capacità di calare quei principi nella concretezza delle situazioni (Ivi). Come scrisse di lui il cardinale Seripando, egli era “uomo di frutto e non di fiore, di fatti e non di parole” (M. De Certau, Dizionario biografico degli italiani, 20, Roma 1977, p. 263). Perciò volle applicare i canoni della riforma passando immediatamente all’azione; e bisogna dire che egli seppe incontrare nel clero, nei religiosi e soprattutto nel popolo di Dio una generosa disponibilità alle sue aspettative pastorali.
La premura di san Carlo di realizzare le disposizioni del Concilio Tridentino appare innanzitutto dal suo impegno per l’istituzione dei seminari, oggetto di uno dei più importanti decreti dell’assemblea conciliare. Tale decreto era stato approvato il 15 luglio del 1563 e appena l’anno successivo san Carlo, ancora residente a Roma, fondò a Milano il primo seminario, affidandolo ai padri della Compagnia di Gesù. Negli anni seguenti istituì altri seminari minori.
Un altro campo, in cui san Carlo appare per eccellenza il “vescovo del Concilio di Trento”, è quello dell’istituzione dei concili provinciali e dei sinodi diocesani, voluti appunto a Trento, e che risorgevano dopo una lunga dimenticanza risalente al medioevo. Anche da queste assemblee ecclesiali appare chiarissima nel Borromeo la consapevolezza, del tutto conforme all’ispirazione tridentina, che la riforma dovesse cominciare dalla testimonianza di buoni pastori e buoni sacerdoti: “Io sono deciso – scriveva a papa Pio IV (citato da C. Orsenigo, Vita di Carlo Borromeo, Milano 1911, pp. 107-108) – di incominciare dai prelati la riforma prescritta a Trento: è questa la strada migliore per ottenere l’obbedienza nelle nostre diocesi. Noi dobbiamo marciare per i primi: i nostri soggetti ci seguiranno più facilmente”.
La legislazione conciliare e sinodale fece di san Carlo il creatore di un nuovo diritto ecclesiastico locale, che ha lasciato la sua impronta, nella vostra diocesi, fino ad oggi. Egli però voleva essere innanzitutto pastore, e per questo corredò le norme emanate con una serie minuziosa di disposizioni, che mostrarono la concretezza del suo senso pastorale. Aveva poi acquistato una conoscenza precisa dei bisogni del suo popolo mediante un gran numero di visite pastorali, durante le quali cercò di valorizzare la funzione delle parrocchie.
A questo proposito, il mio predecessore papa Paolo VI ebbe a dire giustamente che una delle note più caratteristiche del di lui episcopato fu l’intento di “creare una santità di popolo, una santità collettiva, di fare santa tutta la comunità” (G. B. Montini, Discorsi sulla Madonna e sui Santi, Milano 1965, p. 346).
7. Dice la liturgia odierna: “Se dovessi camminare in una valle oscura, non temerei alcun male, perché tu sei con me”.
Carlo Borromeo ha avuto un cuore sempre largamente aperto ai poveri e ai bisognosi.
Ha saputo soffrire con i sofferenti.
L’amore di Cristo, che praticava verso ciascuno di essi, gli permise di non temere alcun male.
Ciò si manifestò in modo particolare quando Milano, durante la peste, che ivi infierì, divenne veramente quella “valle oscura” della disgrazia umana, di cui parla il salmista. In quell’occasione egli volle, come Cristo, “amare i suoi fino alla fine” (cf. Gv 13, 1), ed essere pronto a dare la vita per le pecorelle. Di fatto corse effettivamente questo rischio, esponendosi al contagio con la sua presenza in mezzo agli appestati, ai quali portava il suo aiuto e il suo conforto della sua parola e dei sacramenti.
Con il suo zelo e il suo prestigio finì per trovarsi alla direzione dell’opera di soccorso, provvedendo alla pubblicazione di un direttorio per l’assistenza dei malati e portando ordine e disciplina in simile drammatico frangente” (citato dal M. Bendiscioli, in Storia di Milano, X, Milano 1957, p. 245).
La peste fu così per lui occasione per rinsaldare la sua unione con la popolazione milanese, più che mai amata in quel momento. Ne aveva visto la sciagura, quando era “affamata, angustiata e bisognosa di essere continuamente soccorsa per vivere”; ne vide poi, grazie anche alla sua opera, la risurrezione: “O bontà e grazia di Dio – disse nell’omelia della fine del 1576 – come sono ora mutate le cose? Come sono subito reparate quelle rovine nostre? Come restituita la sanità, rinnovata la speranza della prima grandezza?”. Si vede qui l’umiltà del santo che in questo ritorno della vita riconosce la potenza del dito di Dio, come prima, nell’evento della peste, aveva riconosciuto un salutare richiamo alla penitenza e ai valori eterni.
8. Quando il 3 novembre 1584 la Chiesa milanese si strinse accanto al suo cardinale morente, i pensieri e i cuori di tutti si concentrarono sull’immagine del Buon Pastore. “Abbiamo conosciuto l’amore”.
“Da questo abbiamo conosciuto l’amore: egli ha dato la sua vita per noi” (1 Gv 3, 16).
E Carlo Borromeo, con gli occhi fissi sulla croce di Cristo, rese fino alla fine testimonianza a colui che era la sua “via, la verità e la vita” (Gv 14, 6).
“Il Signore è il mio pastore . . .
Felicità e grazia mi saranno compagne / tutti i giorni della mia vita, / e abiterò nella casa del Signore / per lunghissimi anni” (Sal 23, 6).
Quattrocento anni fa Carlo Borromeo lasciava questi luoghi, e la sua dipartita divenne l’inizio di quella pienezza di vita, che i santi trovano in Dio stesso.
Dopo quattrocento anni tutta la Chiesa, ricordando la vita e la morte di san Carlo, adora e ringrazia la santissima Trinità,
– perché “l’uomo vivente è gloria di Dio” (Ireneo, Adversus haereses, IV, 20, 7): l’uomo in tutta la pienezza di vita che si raggiunge nel Dio vivente.
Signor cardinale arcivescovo di questa città! Venerati fratelli vescovi! Autorità qui presenti, sacerdoti, religiosi, sorelle e fratelli tutti del popolo di Dio che è in diocesi di Milano!
L’intercessione di san Carlo continui a proteggere questa amatissima comunità ecclesiale per la quale egli si prodigò come pastore e il suo esempio sia ancor oggi d’incoraggiamento e di sprone per tutti.
Sia lodato Gesù Cristo.
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