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San Leone Magno e la fede in Gesù Cristo vero Dio e vero Uomo

Quarta predica di Quaresima

Autore: Cardinale Raniero Cantalamessa

1. Oriente e occidente unanimi su Cristo

Ci sono diverse vie, o metodi, per accostarsi alla persona di Gesù. Si può, per esempio, partire direttamente dalla Bibbia e, anche in questo caso, si possono seguire diverse vie: la via tipologica, seguita nella più antica catechesi della Chiesa, che spiega Gesù alla luce delle profezie e delle figure dell’Antico Testamento; la via storica, che ricostruisce lo sviluppo della fede in Cristo a partire dalle varie tradizioni, autori e titoli cristologici, o dai diversi ambienti culturali del Nuovo Testamento. Si può, viceversa, partire dalle domande e dai problemi dell’uomo d’oggi, o addirittura dalla propria esperienza di Cristo, e da tutto ciò risalire alla Bibbia. Sono tutte vie largamente esplorate.

La Tradizione della Chiesa ha elaborato, ben presto, una sua via di accesso al mistero di Cristo, un suo modo di raccogliere e organizzare i dati biblici che lo riguardano, e questa via si chiama il dogma cristologico, la via dommatica. Per dogma cristologico intendo le verità fondamentali intorno a Cristo, definite nei primi concili ecumenici, soprattutto in quello di Calcedonia, le quali, nella sostanza, si riducono ai seguenti tre capisaldi: Gesù Cristo è vero uomo, è vero Dio, è una sola persona.

San Leone Magno è il Padre che ho scelto per introdurci nelle profondità di questo mistero. Per un motivo ben preciso. Nella teologia latina era pronta da due secoli e mezzo la formula della fede in Cristo che diventerà il dogma di Calcedonia. Tertulliano, all’inizio del III secolo, aveva scritto: “Vediamo due nature, non confuse, ma unite in una persona, Gesù Cristo, Dio e uomo”[1]. Dopo lunga esplorazione, gli autori greci giungono, per conto loro, a una formulazione identica nella sostanza; ma il loro fu tutt’altro che un ritardo o un tempo perso, perché solo ora si poteva dare a quella formula il suo vero significato, avendone essi messo in luce, nel frattempo, tutte le implicazioni e risolte le difficoltà.

Il papa san Leone Magno è colui che si è trovato a gestire il momento in cui le due correnti del fiume –quella latina e quella greca – confluirono insieme e con la sua autorità di vescovo di Roma ne ha favorito la universale accoglienza. Egli non si accontenta di trasmettere semplicemente la formula ereditata da Tertulliano e ripresa nel frattempo da Agostino, ma la adatta ai problemi emersi nel frattempo, tra il concilio di Efeso del 431 a quello di Calcedonia del 451. Ecco, nelle grandi linee, il suo pensiero cristologico, come è esposto nel famoso Tomus ad Flavianum[2].

Primo punto: la persona del Dio-uomo è identica a quella del Verbo eterno: “Colui che divenne uomo nella forma di servo è lo stesso che nella forma di Dio creò l’uomo”. Secondo punto: la natura divina e quella umana coesistono nell’unica persona di Cristo senza mescolanza né confusione, ma conservando ognuna le sue proprietà naturali (salva proprietate utriusque naturae) [3]. Egli comincia ad essere ciò che non era, senza cessare di essere ciò che era. L’opera della redenzione esigeva che “l’unico e medesimo mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Gesù Cristo, dovesse poter morire per quanto riguarda la natura umana e non morire per quanto riguarda la natura divina”. Terzo punto: L’unità della persona giustifica l’uso della comunicazione degli idiomi, o scambio dei titoli, per cui possiamo affermare che il Figlio di Dio fu crocifisso e sepolto, ed anche che il Figlio dell’uomo è venuto dal cielo.

Era un tentativo, in gran parte riuscito, di trovare finalmente un accordo tra le due grandi “scuole” della teologia greca, quella alessandrina e quella antiochena, evitando i rispettivi errori che erano il monofisismo e il nestorianesimo. Gli antiocheni vi trovavano il riconoscimento, per essi vitale, delle due nature di Cristo, e quindi della piena umanità di Gesù; gli alessandrini, nonostante alcune riserve e resistenze, potevano trovare nella formulazione di Leone il riconoscimento dell’identità della persona del Verbo incarnato con quella del Verbo eterno, che stava loro a cuore sopra ogni altra cosa.

Basta ricordare il fulcro della definizione di Calcedonia per rendersi conto di quanto sia presente in essa del pensiero di papa Leone:

“Insegniamo all’unanimità che si deve riconoscere l’unico e medesimo Figlio Signore nostro Gesù Cristo, perfetto nella divinità e sempre lo stesso perfetto nell’umanità, vero Dio e vero uomo […], generato prima dei secoli dal Padre secondo la divinità e negli ultimi tempi, per noi uomini e per la nostra salvezza, generato da Maria Vergine secondo l’umanità; sussistente nelle due nature in modo inconfuso, immutabile, indiviso, inseparabile, non essendo in alcun modo soppressa la differenza delle nature a causa dell’unione, anzi rimanendo salvaguardata la proprietà dell’una e dell’altra natura, esse concorrono a formare una sola persona e ipostasi”[4].

Potrebbe sembrare una formula tecnicamente perfetta, ma arida e astratta e invece su di essa si fonda tutta la dottrina cristiana della salvezza. Solo se Cristo è uomo come noi, quello che egli fa, ci rappresenta e ci appartiene, e solo se lo stesso è anche Dio, quello che fa ha un valore infinito e universale, al punto che, come si canta nell’Adoro te devote, “una sola goccia del sangue che ha versato basta a salvare il mondo dal peccato” (Cuius una stilla salvum facere totum mundum quit ab obni scelere”).

Su questo punto, oriente e occidente, sono unanimi. Questa era la situazione dell’umanità prima di Cristo, scrivono, con poche differenze tra di loro, sant’Anselmo tra i latini e il Cabasilas tra gli ortodossi. Da una parte c’era l’uomo che aveva contratto il debito peccando e che doveva lottare contro satana per liberarsi, ma non poteva farlo, essendo il debito infinito ed essendo lui schiavo di colui che avrebbe dovuto vincere; dall’altra c’era Dio che poteva espiare il peccato e vincere il demonio, ma non doveva farlo, non essendo lui il debitore. Bisognava che si trovassero uniti nella stessa persona colui che doveva lottare e colui che poteva vincere, ed è quello che è avvenuto con Gesù, “vero Dio e vero uomo, in una persona” [5]

2. Gesù della storia e Cristo del dogma di nuovo uniti

Queste tranquille certezze su Cristo, negli ultimi due secoli, sono state investite da un ciclone critico che tendeva a togliere loro ogni consistenza e a qualificarle come pure invenzioni dei teologi. A partire dallo Strauss, è diventato una specie di grido di battaglia tra gli studiosi del Nuovo testamento: liberare la figura di Cristo dai ceppi del dogma, per ritrovare il Gesù storico, l’unico veramente esistito. “L’illusione che Gesù possa essere stato uomo in senso pieno e che tuttavia come singola persona sia superiore all’umanità intera è la catena che ancora chiude il porto della teologia cristiana al mare aperto della scienza razionale”[6]. Ed ecco la conclusione a cui lo studioso giunge: “L’idea del Cristo del dogma da una parte e il Gesù di Nazareth della storia dall’altra sono separati per sempre”.

Viene dichiarato senza reticenze il presupposto razionalistico di questa tesi. Il Cristo del dogma non soddisfa le esigenze della scienza razionale. L’attacco è andato avanti, con soluzioni alterne, fino quasi ai nostri giorni. E’ diventato esso stesso, a suo modo, un dogma: per conoscere il vero Gesù della storia, bisogna prescindere dalla fede in lui posteriore alla pasqua. In questo clima sono proliferate ricostruzioni fantasiose della figura di Gesú a beneficio dello spettacolo, alcune con pretese di storicità, ma in realtà basate su ipotesi di ipotesi, tutte rispondenti a gusti o rivendicazioni del momento.

Ma ora, io credo, siamo giunti alla fine della parabola. È ora di prendere atto del cambiamento avvenuto in questo settore, in modo da uscire da un certo atteggiamento difensivo e imbarazzato che ha caratterizzato gli studiosi credenti in questi anni, e più ancora per far giungere un messaggio a tutti quelli che in questi anni hanno divulgato a piene mani immagini di Gesù dettate da quell’anti-dogma. Il messaggio è che non si può più in buona fede scrivere inchieste su Gesù che si pretendono storiche, ma prescindono, anzi escludono in partenza, la fede in lui.

Chi impersona in maniera più chiara il cambiamento in atto è uno dei massimi studiosi viventi del Nuovo Testamento, l’inglese James D.G. Dunn. Egli ha riassunto in un piccolo volume, intitolato “Cambiare prospettiva su Gesù”, i risultati della sua monumentale ricerca sulle origini del cristianesimo[7]. L’autore ha scalzato dalle radici i due presupposti di fondo su cui si è basata la contrapposizione tra il Gesù storico e il Cristo della fede: primo, che per conoscere il Gesù della storia bisogna prescindere dalla fede post-pasquale; secondo, che per conoscere quello che veramente ha detto e fatto il Gesù storico, bisogna liberare la tradizione dagli strati e dalle aggiunte posteriori e risalire allo strato originale, o alla prima “redazione”, di una certa pericope evangelica.

Contro il primo presupposto, Dunn dimostra che la fede è iniziata prima della Pasqua; se alcuni lo hanno seguito e sono diventati suoi discepoli è perché avevano creduto in lui. Si tratta di una fede ancora imperfetta, ma di fede. In questa fede, l’evento pasquale segnerà certamente un salto di qualità, ma salti di qualità, sebbene meno determinanti, c’erano già stati prima della Pasqua, in momenti particolari, come la trasfigurazione, certi miracoli clamorosi, il dialogo di Cesarea di Filippo. La Pasqua non costituisce un inizio assoluto della fede in Cristo.

Contro l’altro assunto, Dunn fa vedere come, pur ammettendo che le tradizioni evangeliche hanno circolato per un certo periodo in forma orale, gli studiosi della cosiddetta “Storia delle forme” applicavano sempre a tale tradizione il modello letterario, come si fa oggi quando si vuole risalire, di edizione in edizione, al testo originale di un’opera. Se si tiene conto delle leggi che regolano – in certe culture, anche al presente – la trasmissione orale delle tradizioni di una comunità, si vede che non c’è bisogno di scarnificare un detto evangelico, alla ricerca di un ipotetico nucleo originario, un’operazione che ha aperto le porte a ogni tipo di manipolazione dei testi evangelici, finendo per ripetere quello che avviene quando si sfoglia una cipolla alla ricerca di nucleo solido che non esiste. Alcune di queste conclusioni sono quelle che gli studiosi cattolici avevano da sempre sostenute[8], ma Dunn ha il merito di averle difese con argomenti difficilmente confutabili dall’interno stesso della ricerca storico-critica e con le sue stesse armi.

Il rabbino americano J. Neusner, con il quale Benedetto XVI instaura un dialogo nel suo primo volume su Gesù di Nazaret, da per scontato questo risultato. Partendo da un punto di vista autonomo e per così dire neutrale –quello di un ebreo ortodosso -, egli fa vedere come sia un tentativo vano separare il Gesù storico dal Cristo della fede post-pasquale. Il Gesù storico, quello dei vangeli, per esempio nel discorso della montagna, è già un Gesù che richiede la fede nella sua persona come in uno che può correggere Mosè, che è padrone del sabato, per il quale si può fare una eccezione anche al quarto comandamento; insomma come a uno che si colloca sullo stesso piano di Dio. È proprio per questo, dice il rabbino, che sebbene affascinato dalla figura di Gesú, egli non potrà mai farsi suo discepolo.

Lo studio sul Nuovo Testamento si ferma qui; arriva a provare la continuità tra il Gesù della storia e il Cristo del kerygma, non va oltre. Resta da provare la continuità tra il Cristo del kerygma e quello del dogma della Chiesa. La formula di Leone Magno e di Calcedonia segna uno sviluppo coerente della fede neotestamentaria, o rappresenta invece una rottura rispetto ad essa? Fu questo il mio interesse principale negli anni in cui mi occupavo di Storia delle origini cristiane e la conclusione cui sono giunto non si discosta da quella del Card. Newman nel suo famoso saggio “Sullo sviluppo della dottrina cristiana”[9]. C’è stato certamente il passaggio da una cristologia funzionale (ciò che Cristo “fa”), a una cristologia ontologica (ciò che Cristo “è”), ma non si tratta di una rottura perché lo stesso processo lo vediamo in atto già all’interno del kerygma, per esempio nel passaggio dalla cristologia di Paolo a quella di Giovanni, e in Paolo stesso, nel passaggio dalle sue prime lettere a quelle della cattività, Filippesi e Colossesi.

3. Oltre la formula

Questa volta l’argomento stesso esigeva di soffermarsi un po’ più a lungo sulla parte dottrinale del tema. La persona di Cristo è il fondamento di tutto nel cristianesimo. “Se la tromba dà un suono incerto, chi si preparerà alla battaglia?”, diceva san Paolo (1 Cor 14,8): se non si hanno idee chiare su chi è Gesú Cristo, che forza avrà la nostra evangelizzazione? Ci resta però ora da fare una applicazione pratica per la vita personale e la fede attuale della Chiesa, che è lo scopo costante della nostra rivisitazione dei Padri.

Quattro secoli e mezzo di formidabile lavoro teologico hanno dato alla Chiesa la formula: “Gesù Cristo è vero Dio e vero uomo; Gesù Cristo è una sola persona”. Più sinteticamente ancora: egli è “una persona in due nature”. A questa formula si applica alla perfezione il detto di Kierkegaard: “La terminologia dommatica della Chiesa primitiva è come un castello fatato, dove riposano in un sonno profondo i principi e le principesse più leggiadre. Basta soltanto svegliarli, perché balzino in piedi in tutta la loro gloria”[10]. Il nostro compito è dunque quello di risvegliare e di dare sempre nuova vita ai dogmi.

La ricerca sui vangeli –anche quella appena ricordata di Dunn – ci mostra che la storia non ci può portare al “Gesù in sé”, al Cristo come è nella realtà. Quello che raggiungiamo nei vangeli è sempre, a ogni stadio, un Gesù “ricordato”, mediato dalla memoria che di lui hanno conservato i discepoli, anche se una memoria credente. Avviene come per la sua risurrezione. “Alcuni dei nostri –dicono i due discepoli di Emmaus – sono andati alla tomba e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l’hanno visto” (Lc 24, 24). La storia può costatare che le cose, riguardo a Gesù di Nazareth, stanno come hanno detto i discepoli nei vangeli, ma lui non lo vede.

Lo stesso avviene con il dogma. Esso ci può portare a un Gesú “definito”, “formulato”, ma Tommaso d’Aquino ci insegna che “la fede non termina agli enunciati (enuntiabile), ma alla realtà (res). Tra la formula di Calcedonia e il Gesù reale c’è la stessa differenza che c’è tra la formula chimica H2O e l’acqua che beviamo o nella quale nuotiamo. Nessuno può dire che la formula H2O è inutile o che non descrive perfettamente la realtà; solamente non è la realtà! Chi ci potrà condurre al Gesú “reale” che sta oltre la storia e dietro la definizione?

Ed ecco che ci viene incontro la grande consolante notizia. C’è la possibilità di una conoscenza “immediata” di Cristo: è quella che ci dà lo Spirito Santo da lui stesso inviato. Egli è l’unica “mediazione non-mediata” tra noi e Gesù, nel senso che non fa da velo, non costituisce un diaframma o un tramite, essendo egli lo Spirito di Gesù, il suo “alter ego”, della sua stessa natura. Sant’Ireneo arriva a dire che “lo Spirito Santo è la nostra stessa comunione con Cristo”[11]. In ciò quella dello Spirito Santo è diversa da ogni altra mediazione tra noi e il Risorto, sia ecclesiale che sacramentale.

Ma è la Scrittura stessa che ci parla di questo ruolo dello Spirito Santo ai fini della conoscenza del vero Gesú. La venuta dello Spirito Santo a Pentecoste si traduce in una improvvisa illuminazione di tutto l’operato e la persona di Cristo. Pietro conclude il suo discorso con quella specie di definizione “urbi et orbi” della signoria di Cristo: “Sappia dunque con certezza tutta la casa d’Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso” (Atti 2, 36).

San Paolo afferma che Gesù Cristo viene manifestato “Figlio di Dio con potenza mediante lo Spirito di santificazione” (Rom 1, 4), cioè ad opera dello Spirito Santo. Nessuno può dire che Gesù è il Signore, se non grazie a una interiore illuminazione dello Spirito Santo (cf. 1 Cor 12, 3). L’Apostolo attribuisce allo Spirito Santo “la comprensione del mistero di Cristo” che è stata data a lui, come a tutti i santi apostoli e profeti (cf. Ef 3, 4-5). Solo se saranno “rafforzati dallo Spirito”, -continua l’Apostolo – i credenti saranno in grado di “comprendere l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità e conoscere l’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza” (Ef 3, 16-19).

Nel vangelo di Giovanni, Gesù stesso annuncia quest’opera del Paraclito nei suoi confronti. Egli prenderà del suo e lo annuncerà ai discepoli; ricorderà loro tutto ciò che egli ha detto; li condurrà alla verità tutt’intera sul suo rapporto con il Padre; gli renderà testimonianza. Proprio questo anzi sarà, d’ora in poi, il criterio per riconoscere se si tratta del vero Spirito di Dio e non di un altro spirito: se spinge a riconoscere Gesù venuto nella carne (cf. 1 Gv 4, 2-3).

4. Gesù di Nazareth, una “persona”

Con l’aiuto dello Spirito Santo, facciamo dunque un piccolo tentativo di “risvegliare” il dogma. Del triangolo dommatico di Leone Magno e di Calcedonia –“vero Dio”, “vero uomo”, “una persona” – ci limitiamo a prendere in considerazione solo l’ultimo elemento: Cristo “una persona”. Le definizioni dommatiche, sono delle “strutture aperte”, capaci cioè di accogliere significati nuovi, resi possibili dal progresso del pensiero umano. Nel suo stadio più antico, persona (dal latino personare, risuonare) indicava la maschera che serviva all’attore per far risuonare la sua voce nel teatro; da qui passò a indicare il volto, quindi l’individuo, il singolo, fino al suo significato più alto di “essere individuale di natura razionale” (Boezio).

Nell’uso moderno il concetto si è arricchito di un significato più soggettivo e relazionale, favorito senza dubbio dall’uso trinitario di persona come “relazione sussistente”. Indica cioè l’essere umano in quanto capace di relazione, di stare come un io davanti a un tu. In ciò la formula latina “una persona” si è rivelata più feconda di quella rispettiva greca di “una ipostasi”. Ipostasi si può dire di ogni singolo oggetto esistente; persona soltanto dell’essere umano e, per analogia, dell’essere divino. Noi parliamo oggi (e anche i greci parlano) di “dignità della persona”, non di dignità dell’ipostasi.

Applichiamo tutto ciò al nostro rapporto con Cristo. Dire che Gesù è “una persona” significa anche dire che è risorto, che vive, che mi sta davanti, che posso dargli del tu come lui mi da del tu. È necessario passare continuamente, nel nostro cuore e nella nostra mente, dal Gesù personaggio al Gesù persona. Il personaggio è uno di cui si può parlare e scrivere quanto si vuole, ma al quale e con il quale in genere non si può parlare. Gesú, purtroppo, per la maggioranza dei credenti è ancora un personaggio, uno di cui si discute, si scrive a non finire, una memoria del passato, un insieme di dottrine, di dogmi o di eresie. È un ente, più che un esistente.

Il filosofo Sartre, in una pagina famosa, ha descritto il brivido metafisico che produce la scoperta improvvisa dell’esistenza delle cose, e in questo almeno possiamo dargli credito:

«Ero al giardino pubblico. La radice del castagno s’affondava nella terra, proprio sotto la mia panchina. Non mi ricordavo più che era una radice. Le parole erano scomparse e, con esse, il significato delle cose, i modi del loro uso, i tenui segni di riconoscimento che gli uomini hanno tracciato sulla loro superficie. […] E poi ho avuto questo lampo di illuminazione. Ne ho avuto il fiato mozzo. […] . L’esistenza si nasconde. È lì, attorno a noi, non si possono dire due parole senza parlare di essa e, infine, non la si tocca. […] E poi, ecco, d’un tratto, era lì, chiaro come il giorno: l’esistenza si era improvvisamente svelata»[12] .

Per andare oltre le idee e le parole su Gesú ed entrare in contatto con lui persona vivente, occorre passare per un’esperienza del genere. Alcuni esegeti interpretano il nome divino “Io sono colui che sono” (cf. Es 3, 14) , nel senso di “Io sono colui che ci sono”, che sono presente, disponibile, ora, qui[13]. Questa definizione si applica perfettamente anche a Gesú risorto.

E’ possibile avere Gesù per amico, perché, essendo risorto, egli è vivo, mi è accanto, posso rapportarmi a lui come un vivente a un vivente, un presente a un presente. Non con il corpo e neppure con la sola fantasia, ma “nello Spirito” che è infinitamente più intimo e reale dell’uno e del’altra. San Paolo ci assicura che è possibile fare tutto “con Gesú”: sia che mangiamo, sia che beviamo, sia che facciamo qualsiasi altra cosa (cf. 1 Cor 10,31; Col 3,17).

Raramente si pensa a Gesù come a un amico e a un confidente. Mel subconscio domina l’immagine di lui risorto, asceso al cielo, remoto nella sua trascendenza divina, che tornerà un giorno, alla fine dei tempi. Si dimentica che essendo, come dice il dogma, “vero uomo”, anzi la perfezione umana stessa, egli possiede in grado sommo il sentimento dell’amicizia che è una delle qualità più nobili dell’essere umano. E’ Gesù che desidera un tale rapporto con noi. Nel suo discorso di addio, dando pieno sfogo ai suoi sentimenti, dice: “Io non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo signore; ma vi ho chiamati amici, perché vi ho fatto conoscere tutte le cose che ho udite dal Padre mio” (Gv 15, 15).

Io ho visto realizzato questo tipo di rapporto con Gesù, non tanto nei santi, nei quali prevale il rapporto al Maestro, al Pastore, al Salvatore e allo Sposo, quanto in quegli ebrei che, in modo spesso non dissimile da Saulo, arrivano oggi ad accettare il Messia. Il nome di Gesù di colpo si muta, da una oscura minaccia, al più dolce e amato dei nomi. Un amico. E’ come se l’assenza di duemila anni di discussioni intorno a Cristo giocasse a loro favore. Il loro non è mai un Gesù “ideologico”, ma una persona di carne e sangue. Del loro sangue! Si resta commossi nel leggere la testimonianza di alcuni di loro. Tutte le porte si aprono in una volta, tutte le opposizioni si dissipano e tutte le oscurità si illuminano. E’ come vedere la lettura spirituale dell’Antico Testamento realizzarsi sotto i propri occhi globalmente e come all’acceleratore. San Paolo lo paragona alla caduta di un velo dagli occhi (cf. 2 Cor 3,16).

Nella sua vita terrena, pur amando tutti indistintamente, solo con alcuni – con Lazzaro e le sorelle e più ancora con Giovanni, il “discepolo che egli amava” – Gesù ha un rapporto di vera amicizia. Ora però che è risorto e non è più soggetto ai limiti della carne, egli offre a ogni uomo e a ogni donna la possibilità di averlo per amico, nel senso più pieno della parola. Che lo Spirito Santo, l’amico dello sposo, ci aiuti ad accogliere con stupore e gioia questa possibilità che riempie la vita.

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