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San Miniato di Firenze Martire - 25 Ottobre

Autore: Autori Cristiani

Il 25 ottobre del 250 muore  San Miniato, da lui l’omonimo comune dalla Rocca federiciana ma anche la Basilica di San Miniato al Monte dei colli fiorentini.
“Secondo la leggenda, sarebbe stato un Re armeno, di passaggio da Firenze, mentre era in atto una delle tante persecuzioni contro i Cristiani. Rifiutatosi di venerare l’imperatore Decio e gli dèi, fu condannato a morte. Fu sottoposto a numerose torture ma ne uscì sempre miracolosamente illeso. Fu così deciso di decapitarlo, ma la leggenda narra che Miniato, una volta decapitato, si sia rialzato e, afferrata la propria testa in mano, si sia diretto verso quello che veniva chiamato “Mons Florentinus”, il Monte di Firenze Giunto lassù si distese e morì, testimoniando chiaramente la sua volontà di esservi sepolto e onorato”. “La storia invece ci tramanda che Miniato fu ucciso per decapitazione durante le persecuzioni dell’Imperatore Decio, ma il corpo fu deposto da parte di alcuni fedeli sul Mons Florentinus, dove successivamente venne costruita la chiesa, trasformata poi in Basilica nel 1013 da parte del vescovo Ildebrando. La consacrazione avvenne nel 1018”.
La città di San Miniato invece sorse sul colle per volere di diciassette longobardi, che secondo il documento del 713 conservato all’Archivio Arcivescovile di Lucca, edificarono una chiesa dedicata al martire Miniato. Il borgo legato a San Genesio si trova invece tra La Scala e Ponte a Elsa, in zona Vico Wallari. Nel 1200 venne abbandonato e distrutto. L’unione tra le città di San Miniato e Firenze è molto più visibile di quel che non si pensi. Infatti San Miniato fu accorpata alla Provincia di Pisa durante l’epoca fascista, tra le ‘merci di scambio’ per la creazione della provincia di Livorno.

Approfondimenti

Su Miniato, martire decapitato nel 250 a Firenze, nelle persecuzioni dell’imperatore Decio contro i cristiani, le prime testimonianze devozionali risalgono al vescovo Frediano di Lucca, che alla fine del VI secolo fu il tramite per la diffusione del culto in Toscana.
Il più antico scritto agiografico è una passio (BHL 5965), riconducibile alla prima età carolingia per le più intrinseche peculiarità letterarie: la struttura narrativa, consistente in un battibecco tra il magistrato romano e il santo che, nonostante la sua posizione inerme, inveisce quasi con arroganza e senza freni di lingua, esclude un’epoca in cui i cristiani cercavano più del contrasto, il dialogo con i pagani.
Le specificità si adattano invece a un diverso contesto caratterizzato dai valori della forza e del coraggio, in congiunzione all’orgogliosa appartenenza etnica, qual era l’altomedioevo, anche franco.
Del resto al 783 risale un documento che testimonia per la chiesa sul Monte fiorentino una donazione di Carlo Magno in cambio di messe in suffragio della defunta moglie Ildegarde. Non a caso sono alcuni martirologi tra VIII e IX secolo i primi ad attestare il dies natalis al giorno 25 ottobre. Solo l’XI secolo segna un momento decisivo nella storia del santo e della sua chiesa cittadina.
Dopo l’acquisizione delle reliquie da parte dell’arcivescovo Teodorico di Metz, soprattutto Ildebrando, vescovo di Firenze, nel primo quarto del secolo, promosse in contemporanea alla ricostruzione della basilica in stile romanico, la redazione da parte del monaco Drugone, di una nuova vita: la prima, in realtà, che inserì nel racconto della passione alcuni elementi nuovi, come l’origine regale e orientale del santo, giunto per nave in Italia per condurre vita eremitica, prima della decollazione; ma soprattutto, dopo l’esecuzione, secondo questa biografia, il santo avrebbe raccolto la propria testa, per portarla nel luogo dove sarebbe sorto il tempio a lui dedicato. Si tratta dunque di un personaggio cefaloforo, fra i molti che l’agiografia tosco-romagnola dopo il secolo VIII, sul paradigma di Regolo da Populonia, descrive in termini assai vicini per tipo di vita e peculiarità post mortem.
Il giudizio in generale su questo corpus agiografico, fin dal XVII secolo, secondo i parametri bollandisti, è sempre stato negativo. Il racconto però, data la sua natura martiriale, narra il paradosso dell’acquisizione da parte dell’uomo, nel momento estremo, prima con le torture, poi nella morte, della vita nella sua pienezza trinitaria.
La consapevolezza di questa realtà superiore rispetto al coercitivo potere secolare e agli idoli implica una precisa valenza profetica: l’indicazione di quale sia l’autentico comportamento cristiano da assumere anche a costo del sacrificio. Il martirio dunque, sull’esempio di Gesù Cristo, diviene una perenne aspirazione, non necessariamente concreta, nel cammino di perfezione. Inoltre, in particolare per quel che concerne la biografia più tarda, gli spunti letterari dell’innesto su un impianto germanico della cefaloforia, motivo più ampio e ricco di suggestioni antropologiche, si completano con le considerazioni sulla committenza episcopale, nel tentativo di riaffermare, anche con la promozione di una nuova leggenda sul santo, il proprio potere sui punti nevralgici della chiesa locale tanto, nel centro urbano, quanto nella periferia.
A tal proposito, le difficoltà del presule in quest’epoca sono evidenti, non solo per le accuse a lui rivolte di clerogamia, ma soprattutto per la diffusa piaga simoniaca: questo è infatti il malcostume denunciato all’interno dell’abbazia dal giovane Giovanni Gualberto, che proprio a San Miniato al Monte aveva fatto la sua professione monastica, poco prima di scoprire che l’abate aveva acquistato per denaro la sua carica. Il tentativo di denunciare il fatto in pubblico fallisce, con la conseguenza di indurre il monaco ad allontanarsi, per fondare Vallombrosa; è tuttavia il cenobio fiorentino ad andare incontro alla decadenza, soprattutto tra XII e XIII secolo, prima dell’insediamento, nel 1373, degli Olivetani.
Lo studio, in accordo con gli ampi interessi della prima sede che ha ospitato la sua pubblicazione, la miscellanea dal titolo La Basilica di San Miniato al Monte a Firenze Firenze 1988 pp. 279-85 (cfr. MEL XIII 2358), segue le vicende che hanno portato, in età moderna, il complesso architettonico ad assolvere funzioni di fortezza militare, lazzeretto, asilo per i poveri e diseredati, fino a tornare al suo primitivo ruolo religioso, prima con il Gesuiti e poi, dal 1924, di nuovo con i membri dell’ordine olivetano.

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