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Senza identità. Una malattia del nostro tempo

Meditazione per la Terza domenica del T.O. (anno C)

Autore: Don Gaetano Piccolo

«Dio parla nell’intimo a quelli che gli fanno posto;
ora fanno posto a Dio quelli che non lasciano posto dentro di sé al diavolo.
Il diavolo vuole abitare nel cuore degli uomini e suggerisce loro parole capaci di sedurre».
Sant’Agostino, Omelia 4, 1

Senza identità

Una delle grandi malattie del nostro tempo è la mancanza di prospettive. Non sappiamo che cosa vogliamo veramente. Si è spento all’improvviso l’universo delle cose in cui credere. Il sintomo di questa malattia è la mancanza di identità, la difficoltà sempre più diffusa in tanti ambiti della vita, sia personale che sociale, di rispondere alla domanda fondamentale: chi sono? All’inizio del Novecento Thomas Mann aveva descritto questo tipo di persona nel suo romanzo La montagna incantata, dove il protagonista, che non a caso si chiama Hans, cioè un nome qualunque, va a trovare il cugino in un sanatorio in Svizzera e, benché in buona salute, vi resterà per sette anni. Quel sanatorio diventa la metafora di un mondo malato. Lo stesso Hans accuserà una febbriciattola non grave, ma mai assente, come immagine dell’uomo che non si decide mai.
Al contrario, le letture di oggi ci spingono proprio a rispondere a questa domanda: chi voglio essere? Chi vogliamo essere?

Ricostruire l’identità

Il testo di Neemia può essere riletto infatti come il cammino di un popolo alla ricerca di un’identità. Siamo nell’epoca del ritorno dall’esilio. Un momento comunque tragico, perché si tratta di gente che si ritrova non solo davanti alle macerie fisiche della propria città, ma anche alla distruzione della propria storia. Non ci sono più i luoghi fondamentali, come il Tempio, in cui rivedere la propria identità, non ci sono più quelle istituzioni che costituivano l’impalcatura della società.
Esdra e Neemia sono due personaggi che hanno contribuito a questa ricostruzione dell’identità di Israele. Questo cammino era iniziato con la ricostruzione del Tempio perché il punto di partenza doveva essere la ricostruzione della relazione con Dio. Il passo successivo lo ritroviamo proprio nel testo che leggiamo in questa domenica ovvero la restituzione del dono della Legge, cioè di un criterio intorno al quale ritrovarsi come comunità. Il terzo passo sarà la ricostruzione delle mura, cioè la ridefinizione del confine dell’identità.
Per tante ragioni, anche oggi ci ritroviamo davanti alle macerie e, come il popolo tornato dall’esilio, possiamo forse essere scoraggiati. Occorre certamente darsi da fare, ma prima ancora abbiamo bisogno di ritrovarci, di capire cioè chi siamo e chi vogliamo essere. Il cammino di Israele partirà infatti dalla memoria, dalla rievocazione di quello che Dio ha compiuto. È da quella memoria che riceve luce sulla sua attuale identità.

Chi voglio essere?

Nel Vangelo di questa domenica Gesù risponde personalmente a questa domanda: chi sono? che tipo di Messia voglio essere? Troviamo infatti in questo testo l’incipit di una sorta di omelia o di un commento al brano del profeta Isaia che Gesù stesso aveva letto, così come ogni israelita era invitato a fare. Gesù trasforma quell’occasione nella proposta di un discorso programmatico, siamo infatti all’inizio del suo ministero.
A ben guardare però, nei versetti precedenti, Gesù ha già manifestato con le sue scelte che tipo di messia vuole essere. I versetti che precedono infatti ci hanno presentato le tentazioni di Gesù nel deserto: Gesù ha rifiutato di trasformare le pietre in pane, sebbene avesse legittimamente fame dopo quaranta giorni di digiuno, sebbene non ci fosse nulla di male. Quel rifiuto è motivato proprio dal suo desiderio di esercitare il suo potere non per interesse personale, ma per gli altri.
Nel deserto, Gesù sceglie di non inginocchiarsi davanti alla logica del diavolo che gli offre tutti i regni della terra, dove Gesù avrebbe potuto portare avanti i suoi progetti di bene, passando però attraverso la logica del diavolo. Molte volte anche noi, con il pretesto che è a fin di bene, portiamo avanti i nostri progetti alleandoci con logiche ingiuste, scorrette e demoniache.
E infine Gesù si rifiuta di gettarsi dal pinnacolo del tempio, resistendo alle lusinghe del diavolo che lo invita ad approfittare della sua relazione con il Padre. Gesù però non ha bisogno di verificare l’amore che il Padre ha per lui.

Parole o chiacchiere?

Il progetto, il discorso programmatico, non rimane per Gesù chiacchiera vuota. Purtroppo siamo abituati a sentire parole che rimangono solo proclami, non solo nella vita pubblica, ma anche nelle nostre relazioni private: molti ti amo alla fine si rivelano solo chiacchiere. La parola di Gesù invece è una parola vera perché si compie, anzi non chiede neppure tempo, perché si compie oggi, è vera nel momento in cui viene detta.
Nel caso specifico si tratta di parole pronunciate nel luogo più ostile, cioè nella propria terra. Il coraggio di Gesù consiste dunque anche nel pronunciare quel discorso programmatico nei luoghi che per lui sono più familiari, quelli in cui è cresciuto. Molte volte chi ci conosce non è più disposto a lascarsi sorprendere. Diamo per scontato. Ma forse oggi siamo proprio noi i familiari di Gesù che non sono più disposti ad ascoltarlo. Forse presumiamo di conoscerlo già, forse non siamo più disposti a lasciarci sorprendere da lui, forse non siamo più disposti a credere che la sua parola possa veramente compiersi anche per noi.

Leggersi dentro

Hai in te la chiarezza su quale tipo di persona vuoi essere?
Le tue scelte, le tue azioni, sono coerenti con le tue parole?

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