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Spontaneità e pluralismo nel Popolo di Dio I

Parte I

Autore: San Josemaría Escrivá

“Spontaneità e pluralismo nel Popolo di Dio”
(Vorremmo iniziare questa intervista affrontando un tema che suscita oggi le più varie interpretazioni: quello dell'”aggiornamento”. Secondo lei, qual è il vero significato di questo termine in rapporto alla vita della Chiesa?)

1. “Fedeltà”. Per me “aggiornamento” significa soprattutto “Fedeltà”. Uno sposo, un soldato, un amministratore è tanto più buon marito, buon soldato, buon amministratore, quanto più fedelmente riesce ad assolvere in ogni momento, di fronte a ogni nuova circostanza della vita, i decisi impegni di amore e di giustizia che un giorno si assunse. Appunto per ciò, questa fedeltà delicata, fattiva e costante – difficile com’è sempre difficile applicare i princìpi alla mutevole realtà contingente – è la migliore difesa contro l’invecchiamento dello spirito, l’inaridimento del cuore e l’anchilosi della mente.

Nella vita delle istituzioni succede lo stesso, e in modo del tutto particolare nella vita della Chiesa, che non risponde a un effimero progetto umano, ma a un disegno di Dio. La Redenzione – la salvezza del mondo – è opera della fedeltà, filiale e piena di amore, di Cristo – e di noi con Cristo – alla volontà del Padre che lo inviò. Per questo, l’aggiornamento della Chiesa, oggi come in qualsiasi altra epoca, è essenzialmente la lieta riconferma della fedeltà del Popolo di Dio alla missione che gli è stata affidata, cioè al Vangelo.

È evidente che questa fedeltà viva e attuale in ogni circostanza della vita umana, può richiedere – come di fatto è avvenuto molte volte nel corso della storia bimillenaria della Chiesa, e di recente con il Concilio Vaticano II – opportuni sviluppi dottrinali nell’esposizione delle ricchezze contenute nel “depositum fidei”, e adeguati cambiamenti e riforme volti a perfezionare, nel loro aspetto umano, perfettibile, le strutture organizzative e i metodi di evangelizzazione e di apostolato. Ma sarebbe per lo meno superficiale pensare che l’aggiornamento consista innanzitutto nel “cambiare”, o che qualsiasi cambiamento “aggiorni”. Basti pensare che non mancano oggi persone che, al di fuori della dottrina conciliare o addirittura in contrasto con essa, desidererebbero dei “mutamenti” che farebbero retrocedere il Popolo di Dio nel suo cammino di molti secoli, almeno fino all’epoca feudale.

(Il Concilio Vaticano II ha usato con frequenza nei suoi documenti l’espressione “Popolo di Dio” per riferirsi alla Chiesa, e ha in tal modo messo in evidenza la comune responsabilità di tutti i cristiani nella missione “unica” di questo Popolo di Dio. A suo avviso quali caratteristiche dovrebbe avere quella “necessaria opinione pubblica nella Chiesa”, di cui già parlava Pio XII, perché palesi realmente questa responsabilità comune? E il fenomeno dell’opinione pubblica nella Chiesa in che modo è specificato dalle peculiari relazioni che esistono in seno alla comunità ecclesiale fra autorità e obbedienza?)
2. Io non concepisco l’obbedienza veramente cristiana se non come obbedienza volontaria e responsabile. I figli di Dio non sono né pietre né cadaveri: sono esseri intelligenti e liberi, elevati tutti al medesimo ordine soprannaturale, detengano o no l’autorità. Ma chi è privo della sufficiente formazione cristiana non sarà mai in grado di fare un retto uso della sua intelligenza e della sua libertà, sia per ubbidire che per manifestare le sue opinioni. Per questo, il problema di base della “necessaria opinione pubblica della Chiesa” equivale al problema della necessaria formazione dottrinale dei fedeli. Certo, lo Spirito Santo diffonde la ricchezza dei suoi doni fra i membri del Popolo di Dio – tutti e singoli responsabili della missione della Chiesa -, ma ciò non esime nessuno – tutt’altro – dal dovere di acquistare questa adeguata formazione dottrinale.

Quando parlo di dottrina, intendo dire la sufficiente conoscenza che ogni fedele deve avere della missione totale della Chiesa e della speciale partecipazione che a lui spetta in questa unica missione, con la specifica responsabilità che ne consegue. È proprio questo – il Papa lo ha ricordato più di una volta – l’imponente lavoro pedagogico che attende la Chiesa in quest’epoca di dopoconcilio. E io ritengo che la retta soluzione del problema da lei accennato – come altre speranze che oggi palpitano in seno alla Chiesa – è strettamente connessa a quel lavoro pedagogico. Perché non saranno certamente le intuizioni più o meno “profetiche” di taluni “carismatici” privi di dottrina ciò che potrà garantire la necessaria opinione pubblica nel Popolo di Dio.

Quanto alle forme di espressione di questa opinione pubblica, non ritengo che sia questione di organismi o di istituzioni. Possono essere sedi ugualmente adatte sia un consiglio pastorale diocesano, sia le colonne di un giornale (anche se non ufficialmente cattolico), sia una semplice lettera personale di un fedele al suo vescovo, e così via. Sono molto varie le possibilità e le legittime modalità con cui si può manifestare l’opinione dei fedeli, e non mi pare che possano o debbano essere costrette in uno “stampo”, creando un nuovo ente o una nuova istituzione. Meno che mai se si tratta di una istituzione che corra il pericolo – così facile – di finire, di fatto, monopolizzata o strumentalizzata da un gruppo o gruppetto di cattolici “ufficiali”, qualunque sia la tendenza o l’orientamento cui si ispiri la minoranza in questione. Se ciò avvenisse, si metterebbe a repentaglio il prestigio stesso della Gerarchia, e gli altri membri del Popolo di Dio avrebbero giustamente l’impressione di essere presi in giro.

(Il concetto di Popolo di Dio, cui ci riferivamo dianzi, vuole esprimere il carattere storico della Chiesa, in quanto realtà di origine divina che nel corso del suo cammino si serve anche di elementi mutevoli e caduchi. In base a queste nozioni, come dovrebbe essere oggi la vita del sacerdote? Il decreto “Presbyterorum ordinis” ha delineato la fisionomia del sacerdote; che elemento di questa figura le sembra da mettere in particolare rilievo nei momenti attuali?)

3. Fra le caratteristiche della vita sacerdotale, vorrei sottolinearne una che non va annoverata fra quelle mutevoli e transitorie. Mi riferisco alla perfetta unione che deve esistere – come ricorda spesso il decreto “Presbyterorum ordinis” – fra consacrazione e missione del sacerdote; l’unione, cioè, fra vita personale di pietà ed esercizio del sacerdozio ministeriale, fra rapporti filiali del sacerdote con Dio e rapporti pastorali e fraterni con gli altri uomini. Non credo all’efficacia del ministero di un sacerdote che non sia uomo di preghiera.

(In qualche settore del clero vi sono preoccupazioni nei riguardi della presenza del sacerdote nella società, presenza che – richiamandosi alla dottrina conciliare (cost. “Lumen gentium”, n. 31; decr. “Presbyterorum ordinis”, n. 8) – cerca di esprimersi mediante una attività professionale od operaia nella vita civile (“sacerdoti nel lavoro”, ecc.) Qual è la sua opinione a questo riguardo?)
4. Voglio dire anzitutto che rispetto l’opinione contraria a quella che sto per esporre, anche se la ritengo sbagliata per vari motivi; e voglio aggiungere che le persone che agiscono in quella direzione, con grande zelo apostolico, hanno il mio affetto e le mie preghiere.

Io penso che il sacerdozio esercitato come si deve – senza timidezza né “complessi” (che di solito denotano poca maturità umana), ma anche senza invadenze “clericali” (che rivelano poco senso soprannaturale) -, il ministero proprio del sacerdote, dicevo, è sufficiente di per sé a garantire una legittima, schietta e autentica presenza dell’uomo-sacerdote in mezzo agli altri membri della comunità umana a cui si rivolge. Normalmente non ci sarà bisogno di altro perché il sacerdote viva in comunione di vita con il mondo del lavoro, comprendendo i suoi problemi e condividendone il destino. Ma ciò che raramente avrebbe efficacia – per l’inautenticità che lo voterebbe all’insuccesso fin dal primo momento – è il ricorso all’ingenuo “lasciapassare” di attività “laicali” da “dilettante”, che urterebbe, per molti motivi, il buonsenso degli stessi laici.

D’altra parte, il ministero sacerdotale – soprattutto in questi tempi, con tanta scarsezza di clero – è un lavoro terribilmente assorbente, incompatibile con il “doppio impiego”. Gli uomini hanno un tale bisogno di noi sacerdoti (anche se molti non lo sanno), che non si lavora mai abbastanza. Mancano braccia, tempo, energie… Amo dire pertanto ai miei figli sacerdoti che se un giorno uno di loro notasse che gli è avanzato del tempo, può essere ben sicuro che in quel giorno non ha vissuto bene il suo sacerdozio.

E badi bene che mi sto riferendo a sacerdoti dell’Opus Dei, a persone, cioè, che prima di ricevere gli ordini sacri si sono dedicate per molti anni, quasi sempre, a una professione o a un mestiere nella vita civile: sono ingegneri-sacerdoti, medici-sacerdoti, operai-sacerdoti, e così via. Eppure non ho mai visto nessuno di loro che abbia sentito il bisogno, per farsi ascoltare e stimare nella società civile, fra gli ex colleghi e compagni di lavoro, di avvicinare gli uomini con un regolo, un fonendoscopio o un martello pneumatico. È vero che a volte esercitano la professione o il mestiere di prima (sempre in modo compatibile con gli obblighi dello stato clericale), ma non pensano mai che questa sia una premessa necessaria per garantirsi una “presenza nella società civile”: lo fanno per motivi ben diversi, come per esempio la carità sociale, o una pressante necessità economica per portare avanti un lavoro di apostolato. Anche san Paolo ricorse a volte al suo vecchio mestiere di fabbricante di tende: ma non perché Anania gli avesse detto a Damasco che doveva imparare a fabbricare tende per poter annunciare meglio il Vangelo di Cristo ai gentili.

In altri termini – e senza voler negare la legittimità e la rettitudine di altre iniziative apostoliche -, io ritengo che l’intellettuale-sacerdote e l’operaio-sacerdote, per esempio, sono figure più autentiche e più conformi alla dottrina del Vaticano II che non la figura del sacerdote-operaio. Prescindendo dal lavoro pastorale specializzato, che sarà sempre necessario, la figura “classica” del prete-operaio appartiene ormai al passato: a un passato in cui molti non riuscivano a scorgere la meravigliosa potenzialità dell’apostolato dei laici.

(Si rimproverano a volte quei sacerdoti che adottano una determinata posizione in problemi di ordine temporale, e soprattutto in politica. Parecchi di questi atteggiamenti, a differenza di quanto avveniva in altri tempi, sono di solito orientati a favorire una più ampia libertà, la giustizia sociale, ecc. È vero che non è proprio del sacerdozio ministeriale l’intervento attivo in questo campo, salvo poche eccezioni; ma lei non crede che il sacerdote debba denunciare l’ingiustizia e la mancanza di libertà come qualcosa di non cristiano? Come fare a conciliare queste due esigenze?)

5. Il sacerdote è tenuto a predicare – perché è parte essenziale del suo “munus docendi” – le virtù cristiane – tutte -, e a indicare quali sono le esigenze concrete e le diverse applicazioni pratiche di queste virtù nelle diverse circostanze della vita delle persone alle quali egli rivolge il suo ministero. E deve insegnare anche a rispettare e a stimare la dignità e la libertà di cui Dio ha dotato la persona umana nel crearla, e la peculiare dignità soprannaturale che il cristiano acquista con il Battesimo.

Nessun sacerdote che compia questo suo dovere ministeriale potrà mai essere accusato – se non per ignoranza o malafede – di intromettersi in politica. E nemmeno è giusto dire che, impartendo questi insegnamenti, interferisca nello specifico compito apostolico, proprio dei laici, di ordinare cristianamente le strutture e le attività temporali.
(Tutta la Chiesa oggi si mostra sollecita per i problemi del Terzo Mondo. Si sa che in questo senso una delle maggiori difficoltà sta nella scarsezza del clero in questi Paesi, soprattutto riguardo al clero nativo. Qual è la sua opinione e la sua esperienza al riguardo?)

6. Ritengo che effettivamente l’aumento del clero nativo sia un problema di essenziale importanza, da cui dipende lo sviluppo o addirittura la sopravvivenza della Chiesa in molte nazioni, specie in quelle che attraversano attualmente una fase di acceso nazionalismo.
Quanto alla mia esperienza personale, devo dire che uno dei motivi che ho per essere grato al Signore (e sono molti) è vedere con che sicurezza di dottrina, con che spirito universale, cattolico, con che viva disposizione di servizio – sono senza dubbio migliori di me – si preparano e giungono al sacerdozio nell’Opus Dei centinaia di laici di varie nazioni (saranno ormai più di sessanta Paesi), nelle quali la Chiesa ha un urgente bisogno di incremento del clero nativo. Fra di loro ve ne sono alcuni che hanno ricevuto la consacrazione episcopale in questi Paesi, e hanno già creato dei fiorenti seminari.

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