Spontaneità e pluralismo nel Popolo di Dio II
Parte II
Autore: San Josemaría Escrivá
(I sacerdoti sono incardinati a una diocesi e dipendono dall’Ordinario del luogo. Come si giustifica allora che essi possano appartenere a delle associazioni diverse dalla diocesi, o addirittura di àmbito universale?)
7. La giustificazione è semplice: è il legittimo esercizio di un diritto naturale, il diritto di associazione che la Chiesa riconosce a tutti, sia chierici che laici. È una tradizione di secoli: basti pensare a quante associazioni ci sono state e all’opera benemerita che hanno svolto per favorire la vita spirituale dei sacerdoti secolari. Questa tradizione è stata ripetutamente confermata dagli insegnamenti e dalle disposizioni degli ultimi Papi (Pio XII, Giovanni XXIII e Paolo VI) e recentemente anche dal Magistero solenne del Concilio Vaticano II (cfr decreto “Presbyterorum ordinis”, n. 8).
A questo proposito, è utile ricordare che la competente Commissione conciliare, rispondendo a un “modus” in cui si chiedeva che fossero permesse soltanto le associazioni sacerdotali promosse o dirette dai vescovi diocesani, respinse questa proposta, con la conferma poi della Congregazione generale. Il rifiuto fu chiaramente motivato sulla base del diritto naturale di associazione, che va riconosciuto anche ai sacerdoti. «”Non potest negari Presbyteris” – diceva la Commissione – “id quod laicis, attenta dignitate naturae humanae, Concilium declaravit congruum, utpote iuri naturali consentaneum”» (Schema decreti “Presbyterorum ordinis”, Typis Poliglottis Vaticanis, 1965, p. 68).
In virtù di questo diritto fondamentale, i sacerdoti possono fondare liberamente delle associazioni o iscriversi a quelle che già esistono, a condizione che si tratti di associazioni con scopi retti e confacenti alla dignità e alle esigenze dello stato clericale. La legittimità e l’àmbito di esercizio del diritto di associazione fra sacerdoti secolari sono facilmente comprensibili – senza equivoci, reticenze o pericoli di anarchia – se si tiene presente la distinzione, che necessariamente esiste e deve essere rispettata, fra la funzione ministeriale del sacerdote e l’àmbito privato della sua vita personale.
8. In effetti, il chierico, e concretamente il sacerdote, è incorporato mediante il sacramento dell’Ordine all'”Ordo presbyterorum”, e con ciò è costituito, per diritto divino, cooperatore dell’ordine episcopale. Nel caso dei sacerdoti diocesani questa funzione ministeriale si concretizza, secondo una modalità stabilita dal diritto ecclesiastico, attraverso l’incardinazione (che assegna il presbitero al servizio di una Chiesa locale, sotto l’autorità del rispettivo vescovo) e la missione canonica (che gli conferisce un ministero determinato pur nell’unità del Presbiterio, che ha per capo il vescovo). Pertanto, è chiaro che il presbitero dipende dal suo vescovo – mediante un vincolo sacramentale e giuridico – in tutto ciò che si riferisce all’assegnazione degli incarichi pastorali, alle direttive dottrinali e disciplinari che dovrà seguire nell’esercizio del ministero, alla sua congrua retribuzione economica, a tutte le disposizioni pastorali emanate dal vescovo per la cura d’anime, il culto divino e le prescrizioni del diritto comune relative ai diritti e agli obblighi derivanti dallo stato clericale.
Ma accanto a questi necessari rapporti di dipendenza – che concretizzano giuridicamente l’ubbidienza, l’unità e la comunione pastorale che il sacerdote deve osservare con cura delicata verso il proprio Vescovo – vi è, nella vita del sacerdote secolare, anche un legittimo àmbito personale di autonomia, di libertà e di responsabilità. In questo àmbito, il presbitero ha gli stessi diritti e gli stessi doveri di qualsiasi altra persona nella Chiesa, e in tal modo è nettamente differenziato sia dalla condizione giuridica del minorenne (cfr C IC, canone 89), sia dalla condizione del religioso che, a motivo della professione religiosa, rinuncia, in tutto o in parte, all’esercizio di questi diritti personali.
Per tali motivi, il sacerdote secolare – nei limiti generali imposti dalla morale e dai doveri del suo stato – può disporre e decidere liberamente di tutto ciò che si riferisce alla sua vita personale (spirituale, culturale, economica, ecc.), sia individualmente che in forma associata. Ogni sacerdote è libero di provvedere alla propria formazione culturale d’accordo con le proprie inclinazioni o capacità. È pure libero di avere le relazioni sociali che preferisce, e di ordinare la propria vita come meglio crede, a patto che compia con diligenza i doveri del suo ministero. Ognuno è libero di disporre dei suoi beni personali come in coscienza ritiene più giusto. E a maggior ragione, ognuno è libero di seguire, nella propria vita spirituale e ascetica e nelle pratiche di pietà, i suggerimenti dello Spirito Santo, scegliendo, fra tanti mezzi che la Chiesa consiglia o permette, quelli che considera più confacenti alle sue circostanze personali.
È proprio in rapporto a quest’ultimo argomento che il Concilio Vaticano II – e recentemente il Santo Padre Paolo VI, nell’Enciclica “Sacerdotalis coelibatus” – ha lodato e raccomandato vivamente le associazioni diocesane o interdiocesane nazionali o universali, che, con statuti riconosciuti dall’autorità ecclesiastica competente, fomentano la santità del sacerdote nell’esercizio del suo ministero. L’esistenza di queste associazioni, infatti, non comporta in modo alcuno né può comportare – come ho già detto – una menomazione del vincolo di comunione e di dipendenza che unisce il sacerdote al suo vescovo, o della sua unione fraterna con tutti gli altri membri del Presbiterio, o dell’efficacia del suo lavoro al servizio della sua Chiesa locale.
(La missione dei laici, secondo il Concilio, si svolge nella Chiesa e nel mondo. Ci sono in proposito degli equivoci, nati dal fatto che “spesso” ci si dimentica del primo o del secondo dei due termini. Secondo lei, come si potrebbe spiegare il ruolo dei laici nella Chiesa e il loro ruolo nel mondo?)
9. Penso che bisogna evitare assolutamente l’idea di due funzioni diverse. La partecipazione specifica che spetta ai laici nella missione globale della Chiesa è appunto quella di santificare “ab intra” – in modo immediato e diretto – le realtà secolari, l’ordine temporale, il mondo.
Allo stesso tempo, oltre a questa funzione propria e specifica, i laici hanno anche, come i chierici e i religiosi, una serie di diritti, di doveri e di facoltà fondamentali, che corrispondono alla condizione giuridica di “fedele” e che hanno logicamente un loro àmbito di esercizio in seno alla società ecclesiastica: la partecipazione attiva alla liturgia della Chiesa, la facoltà di cooperare direttamente all’apostolato specifico della Gerarchia o di consigliarla nella sua attività pastorale, quando si è invitati a farlo, ecc.
Ma queste due funzioni – cioè quella specifica che spetta al laico come “laico”, e quella generica che gli spetta come “fedele” – non sono funzioni opposte, ma sovrapposte; e fra esse non vi è contraddizione, bensì complementarità. Sarebbe assurdo pensare solo alla missione specifica dei laici dimenticando che essi sono allo stesso tempo dei fedeli: sarebbe come concepire un ramo frondoso e fiorito che non appartenesse a nessun albero. Viceversa, dimenticare ciò che è specifico, proprio e peculiare dei laici, o non comprendere adeguatamente le caratteristiche del loro lavoro apostolico secolare e il suo valore ecclesiale, sarebbe come immaginare l’albero frondoso della Chiesa ridotto alla figura mostruosa di un semplice tronco.
(Da tanti anni lei dice e scrive che la vocazione dei laici consiste in queste tre cose: “Santificare il lavoro, santificarsi nel lavoro e santificare gli altri con il lavoro”. Potrebbe precisare ora che cosa intende esattamente quando dice “santificare il lavoro”?)
10. È difficile spiegarlo con poche parole, perché in questa espressione sono impliciti concetti fondamentali propri della teologia della creazione. Quel che ho sempre insegnato – da quarant’anni a questa parte – è che ogni lavoro umano onesto, sia intellettuale che manuale, deve essere realizzato dal cristiano con la massima perfezione possibile: vale a dire con perfezione umana (competenza professionale) e con perfezione cristiana (per amore della volontà di Dio e al servizio degli uomini). Infatti, svolto in questo modo, quel lavoro umano, anche quando può sembrare umile e insignificante, contribuisce a ordinare in senso cristiano le realtà temporali – manifestando la loro dimensione divina – e viene assunto e incorporato nell’opera mirabile della Creazione e della Redenzione del mondo. In tal modo il lavoro viene elevato all’ordine della grazia e si santifica: diventa opera di Dio, “operatio Dei, opus Dei”.
Ricordando ai cristiani le parole meravigliose del libro della “Genesi” – dove si dice che Dio creò l’uomo perché lavorasse -, abbiamo fatto attenzione all’esempio di Cristo, che trascorse quasi tutta la sua esistenza terrena nel lavoro di artigiano, in un villaggio. Noi amiamo questo lavoro umano che Egli adottò come condizione di vita, che coltivò e santificò. Noi vediamo nel lavoro, nella nobile fatica creatrice degli uomini, non solo uno dei valori umani più elevati, lo strumento indispensabile per il progresso della società e il più equo assetto dei rapporti fra gli uomini, ma anche un segno dell’amore di Dio per le sue creature e dell’amore degli uomini fra di loro e per Dio: un mezzo di perfezione, un cammino di santità. Per questo, l’unico scopo dell’Opus Dei è sempre stato quello di contribuire a far sì che nel mondo, in mezzo alle realtà e alle aspirazioni temporali, ci siano uomini e donne di ogni razza e condizione sociale intenti ad amare e servire Dio e gli uomini nel lavoro quotidiano e per mezzo di questo lavoro.
(Il decreto “Apostolicam actuositatem” (n. 5) ha affermato chiaramente che l’animazione cristiana dell’ordine temporale è compito di tutta la Chiesa. È pertanto un lavoro che spetta a tutti: alla Gerarchia, al clero, ai religiosi e ai laici. Potrebbe dirci quali sono, secondo lei, il ruolo e le modalità d’azione di ciascuno di questi settori ecclesiali nell’unica missione comune?)
11. In realtà, la risposta la troviamo negli stessi testi conciliari. Alla Gerarchia spetta il compito di indicare, come parte del suo Magistero, i princìpi dottrinali che devono presiedere e illuminare lo svolgimento di questa impresa apostolica (cfr cost. “Lumen gentium”, n. 28; cost. “Gaudium et spes”, n. 43; decr. “Apostolicam actuositatem”, n. 24).
Ai laici, che lavorano immersi in tutte le situazioni e in tutte le strutture proprie della vita secolare, corrisponde in modo specifico l’opera “immediata” e “diretta” di ordinare le realtà temporali secondo i princìpi dottrinali enunciati dal Magistero; allo stesso tempo, però, essi svolgono questo compito con una necessaria autonomia personale rispetto alle decisioni particolari che devono adottare nelle circostanze concrete della vita sociale, famigliare, politica, culturale e così via (cfr cost. “Lumen gentium”, n. 31; cost. “Gaudium et spes”, n. 43; decr. “Apostolicam actuositatem”, n. 7).
Quanto ai religiosi, i quali si separano dalle realtà e attività secolari adottando uno stato di vita peculiare, la loro missione consiste nel dare una testimonianza escatologica pubblica, che sia di aiuto agli altri fedeli del Popolo di Dio perché ricordino che non hanno su questa terra una dimora permanente (cfr cost. “Lumen gentium”, n. 44; decr. “Perfectae caritatis”, n. 5). Non va dimenticato però il grande contributo fornito all’animazione cristiana dell’ordine temporale dalle numerose opere di beneficenza, di carità e di assistenza sociale promosse con abnegazione e spirito di sacrificio da tanti religiosi e religiose.
(Una caratteristica di qualsiasi vita cristiana – prescindendo dalle circostanze in cui si realizza – è la “dignità e libertà dei figli di Dio”. A che cosa si riferisce lei quando difende, come ha fatto con tanta insistenza nel corso dei suoi insegnamenti, la libertà dei laici?)
12. Mi riferisco appunto alla libertà personale che hanno i laici per prendere, alla luce dei princìpi enunciati dal Magistero della Chiesa, le decisioni concrete, teoriche o pratiche, che ciascuno reputi in coscienza più opportune e più confacenti alle proprie convinzioni e inclinazioni: per esempio, per quanto riguarda le diverse opinioni filosofiche, di scienza economica o di politica; oppure per quanto riguarda le correnti artistiche e culturali o i problemi concreti della loro vita professionale e sociale, ecc.
Questo necessario àmbito di autonomia, di cui il laico cattolico ha bisogno per non soffrire una “diminutio capitis” nei confronti degli altri laici e per poter svolgere con efficacia la sua specifica attività apostolica in mezzo alle realtà temporali, va sempre accuratamente rispettato da tutti coloro che nella Chiesa esercitano il ministero sacerdotale. Se ciò non avvenisse, se cioè si volesse “strumentalizzare” il laico per fini che oltrepassano quelli propri del ministero gerarchico, allora si cadrebbe in un “clericalismo” sorpassato e deplorevole. Si verrebbe a limitare enormemente il campo di attività apostolica del laicato e lo si condannerebbe a una perpetua immaturità; ma soprattutto si metterebbe in pericolo (oggi come non mai) il concetto stesso di autorità e di unità nella Chiesa. Non dobbiamo dimenticare che l’esistenza di un autentico pluralismo di criteri e di opinioni, anche fra i cattolici, nell’ambito di ciò che il Signore ha lasciato alla libera discussione degli uomini, non solo non è di ostacolo all’ordinamento gerarchico e alla necessaria unità del Popolo di Dio, ma anzi rafforza questi valori e li protegge da eventuali inquinamenti.
(La vocazione del laico e quella del religioso sono assai diverse nell’attuazione pratica anche se hanno in comune entrambe, com’è logico, la vocazione cristiana. Com’è dunque possibile che i religiosi, nelle loro attività di istruzione, ecc. riescano a dare un’adeguata formazione ai normali cristiani, avviandoli a una vita veramente laicale?)
13. Ciò sarà possibile nella misura in cui i religiosi – di cui ammiro sinceramente l’opera benemerita al servizio della Chiesa – si sforzeranno di comprendere veramente quali sono le caratteristiche e le esigenze della vocazione laicale alla santità e all’apostolato nel mondo, per amarle e saperle insegnare ai loro alunni.
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