Spontaneità e pluralismo nel popolo di Dio
Parte IV
Autore: San Josemaría Escrivá
(In base a quanto ha detto, come si inserisce, secondo lei, la realtà ecclesiale dell’Opus Dei nell’azione pastorale di tutta la Chiesa? E come nell’ecumenismo?)
20. Mi pare opportuno anzitutto un chiarimento. L’Opus Dei non è, né può essere considerato, un fenomeno relativo al processo evolutivo dello “stato di perfezione” nella Chiesa; non è una forma moderna o “aggiornata” di questo stato. In effetti la spiritualità e il fine apostolico che Dio ha voluto per la nostra Opera non hanno nulla a che fare con la concezione teologica dello “status perfectionis” (che san Tommaso, Suárez e altri autori hanno configurato dottrinariamente in termini definitivi), né con le diverse concretizzazioni giuridiche che sono o possono essere derivate da questo concetto teologico. Una completa esposizione dottrinale in materia sarebbe lunga; ma basti considerare che all’Opus Dei non interessano per i suoi soci, né voti, né promesse, né alcuna forma di consacrazione che non sia quella che tutti hanno già ricevuto con il Battesimo. L’Opus Dei non pretende in nessun modo che i soci cambino di stato, cioè che passino dalla condizione di semplici fedeli (uguali a tutti gli altri) alla speciale condizione dello “status perfectionis”. È vero il contrario: ciò che l’Opera desidera e promuove è che ciascuno svolga l’apostolato e si santifichi nel proprio stato, nello stesso posto e nella stessa condizione che ha nella Chiesa e nella società civile. Non spostiamo nessuno da dove si trova, non allontaniamo nessuno dal suo lavoro, dai suoi impegni, dai suoi legittimi legami di ordine temporale.
La realtà sociale dell’Opus Dei, la sua spiritualità e la sua azione si inseriscono quindi in un filone della vita della Chiesa ben diverso, e cioè nel processo teologico e vitale che sta conducendo il laicato alla piena assunzione delle sue responsabilità ecclesiali, al modo che gli è proprio di prendere parte alla missione di Cristo e della sua Chiesa. È stata e rimane questa, nei quasi quarant’anni di vita dell’Opus Dei, la preoccupazione costante, serena ma forte, con cui Dio ha voluto orientare, nella mia anima e in quella dei miei figli, il desiderio di servirlo.
Qual è il contributo dell’Opus Dei a questo processo? Forse non è questo il momento storico più adeguato per una valutazione globale di tale genere. Benché si tratti di problemi di cui molto si è occupato il Concilio Vaticano II (con grande gioia per il mio spirito), e benché il Magistero abbia confermato e illuminato a sufficienza non pochi concetti e non poche situazioni relative alla vita e alla missione del laicato, resta però un notevole nucleo di questioni che rappresentano tuttora, per la generalità della dottrina, dei veri “problemi limite” della teologia. A noi, nell’ambito della spiritualità che Dio ha dato all’Opus Dei e che ci sforziamo di praticare fedelmente (malgrado le nostre personali imperfezioni), sembra già divinamente risolta la maggior parte di tali questioni in discussione, ma non pretendiamo di presentare queste soluzioni come “le uniche” possibili.
21. Ci sono poi altri aspetti dello stesso processo di sviluppo ecclesiologico che rappresentano mirabili conquiste dottrinali, alle quali Dio ha voluto, indubbiamente, che contribuisse – e in misura notevole, direi – la testimonianza offerta dalla spiritualità e dalla vita dell’Opus Dei, assieme a quella, non meno benemerita, di altre iniziative e istituzioni apostoliche. Ma queste conquiste dottrinali dovranno forse attendere parecchio tempo prima di diventare parte integrante della vita “totale” del Popolo di Dio. Lei stesso accennava, nelle domande precedenti, ad alcuni di questi aspetti: lo sviluppo di un’autentica spiritualità laicale; la comprensione del peculiare ruolo ecclesiale – non “ecclesiastico” o ufficiale – proprio del laico; la chiarificazione dei diritti e dei doveri che il laico ha in quanto laico; i rapporti fra Gerarchia e laicato; la pari dignità e la complementarità di funzioni dell’uomo e della donna nella Chiesa; il bisogno di un’ordinata opinione pubblica nel Popolo di Dio, e così via.
Tutto ciò rappresenta evidentemente una realtà molto fluida, e talvolta non esente da paradossi. La stessa cosa che, detta quarant’anni fa, faceva scandalizzare tutti o quasi tutti, oggi non fa meraviglia a nessuno: però sono ancora ben pochi a comprenderla a fondo e a praticarla rettamente.
Mi spiegherò meglio con un esempio. Nel 1932, commentando ai miei figli dell’Opus Dei alcuni degli aspetti e delle conseguenze della peculiare dignità e della responsabilità che il Battesimo conferisce alle persone, scrivevo loro in un documento: «Va respinto il pregiudizio secondo cui i comuni fedeli non possono far altro che prestare il proprio aiuto al clero, in attività ecclesiastiche. Non si comprende perché l’apostolato dei laici debba sempre limitarsi a una semplice partecipazione all’apostolato gerarchico. Essi stessi hanno il dovere di esercitare l’apostolato. E non perché ricevano una missione canonica, ma perché sono parte della Chiesa; la loro missione […] la assolvono attraverso la professione, il mestiere, la famiglia, i colleghi e gli amici».
Oggi, dopo i solenni insegnamenti del Vaticano II, nessuno nella Chiesa metterà in discussione, immagino, l’ortodossia di questa dottrina. Ma quanti hanno abbandonato davvero quell’unico concetto dell’apostolato dei laici come di una attività pastorale “organizzata dall’alto”? Quanti hanno superato la vecchia concezione “monolitica” dell’apostolato laicale e capiscono che esso può e anzi deve realizzarsi anche senza bisogno di rigide strutture centralizzate, di missioni canoniche e di mandati gerarchici? E quanti definiscono il laicato la “longa manus Ecclesiae”, non stanno forse confondendo il concetto della Chiesa come Popolo di Dio con il concetto più ristretto di Gerarchia? O ancora, quanti laici riescono a capire bene che solo rimanendo in stretta comunione con la Gerarchia hanno diritto a rivendicare il loro legittimo àmbito di autonomia apostolica?
Considerazioni dello stesso genere potrebbero farsi a proposito di altre questioni, perché è davvero molto, anzi moltissimo ciò che resta ancora da fare, sia nella necessaria esposizione dottrinale che nell’educazione delle coscienze e nella stessa riforma della legislazione ecclesiastica. Io prego insistentemente il Signore – la preghiera è sempre stata la mia forza – che lo Spirito Santo assista il suo Popolo, e specialmente la Gerarchia, nella realizzazione di questi compiti. E prego pure perché continui a servirsi dell’Opus Dei, in modo da poter contribuire anche noi, per quanto possiamo, a questo difficile ma meraviglioso processo di sviluppo e di crescita della Chiesa.
22. Lei mi domandava anche “come si inserisce l’Opus Dei nell’ecumenismo”. Già l’anno scorso ebbi a raccontare a un giornalista francese – e so che l’aneddoto ha avuto una certa eco, anche in pubblicazioni dei nostri fratelli separati – quello che dissi una volta al Santo Padre Giovanni XXIII, incoraggiato dal fascino affabile e paterno della sua persona: “Padre Santo, nella nostra Opera tutti gli uomini, siano o no cattolici, hanno trovato sempre accoglienza: non ho imparato l’ecumenismo da Vostra Santità”. Egli rise commosso, perché sapeva che, fin dal 1950, la Santa Sede aveva autorizzato l’Opus Dei ad accogliere come associati cooperatori i non cattolici e perfino i non cristiani.
E in effetti sono parecchi – né mancano fra di loro dei pastori e addirittura dei vescovi delle rispettive confessioni – i fratelli separati che si sentono attratti dallo spirito dell’Opus Dei e collaborano ai nostri apostolati. E sono ogni giorno più frequenti – man mano che si intensificano i contatti – le manifestazioni di simpatia e di intesa cordiale che nascono dal fatto che i soci dell’Opus Dei hanno come cardine della loro spiritualità il semplice proposito di dare responsabile attuazione agli impegni e alle esigenze battesimali del cristiano. Il desiderio di tendere alla santità cristiana e di praticare l’apostolato, procurando la santificazione del proprio lavoro professionale; il vivere immersi nella realtà secolari rispettando la loro autonomia, ma trattandole con lo spirito e l’amore delle anime contemplative; il primato che nell’organizzazione delle nostre attività diamo alla persona, all’azione dello Spirito nelle anime, al rispetto della dignità e della libertà che nascono dalla filiazione divina del cristiano; la difesa – contro la concezione monolitica e istituzionalistica dell’apostolato dei laici – della legittima capacità di iniziativa, nel necessario rispetto del bene comune: questi e altri aspetti del nostro modo di essere e di lavorare sono punti di facile incontro, dove i fratelli separati scoprono – in forma vissuta e con la conferma degli anni – gran parte dei presupposti dottrinali sui quali sia loro che noi cattolici abbiamo posto tante fondate speranze ecumeniche.
(Cambiando discorso, ci interesserebbe conoscere la sua opinione sull’attuale momento della Chiesa. In particolare, come lo definirebbe lei? Qual è il ruolo che, a suo giudizio, possono svolgere nel momento attuale le tendenze che in modo generale sono state designate con i termini di “progressista” e “integrista”?)
23. A mio avviso, l’attuale momento dottrinale della Chiesa può definirsi positivo, e allo stesso tempo delicato, come ogni crisi di sviluppo. È positivo, senza alcun dubbio, perché le ricchezze dottrinali del Concilio Vaticano II hanno collocato la Chiesa intera – tutto il Popolo sacerdotale di Dio – di fronte a una nuova tappa, immensamente ricca di speranze, di rinnovata fedeltà al disegno divino di salvezza che le è stato affidato. Ed è anche un momento delicato, perché le conclusioni teologiche cui si è giunti non sono di tipo, per così dire, astratto o teorico, ma costituiscono una teologia estremamente “viva”, ossia dotata di immediate e dirette applicazioni di ordine pastorale, ascetico e normativo, che toccano nel più intimo la vita interna ed esterna della comunità cristiana – liturgia, strutture organizzative della Gerarchia, forme di apostolato, Magistero, dialogo con il mondo, ecumenismo, ecc. – e pertanto toccano anche la vita cristiana e la coscienza stessa dei fedeli.
Sia l’uno che l’altro aspetto reclamano delle istanze che la nostra anima deve riconoscere: l’ottimismo cristiano – la lieta certezza che lo Spirito Santo renderà feconda di frutti la dottrina con cui ha arricchito la Sposa di Cristo -, e contemporaneamente la prudenza da parte di chi si dedica alla ricerca teologica o detiene l’autorità, perché dei danni incalcolabili potrebbero essere arrecati, ora più che mai, dalla mancanza di serenità e di misura nello studio dei problemi.
Per quanto riguarda le tendenze che lei definisce “progressiste” e “integriste”, mi riesce difficile esprimere un’opinione sul ruolo che possono svolgere in questo momento, perché sempre mi sono rifiutato di ammettere l’opportunità e addirittura la possibilità di fare delle catalogazioni o semplificazioni di questo genere. Questa ripartizione – che alle volte viene spinta fino a estremi di vero parossismo, o che si cerca di perpetuare, come se i teologi e i fedeli in genere fossero destinati a un continuo “orientamento bipolare” – ho l’impressione che in fondo nasca dalla convinzione che il progresso dottrinale e vitale del Popolo di Dio sia il risultato di una perpetua tensione dialettica. Io invece preferisco credere – con tutta l’anima – all’azione dello Spirito Santo, che spira dove vuole e su chi vuole.
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