Storia di un'anima - Capitolo 3
Educanda presso le benedettine
Autore: Santa Teresa di Lisieux
74 – Avevo otto anni e mezzo quando Leonia uscì dal collegio, e io presi il suo posto all’Abbazia. Spesso ho inteso dire che il tempo passato in collegio è il migliore e il più dolce della vita; per me non fu così; i cinque anni che passai lì furono i più tristi per me; se non avessi avuto accanto la mia Celina cara, non avrei potuto rimanerci un mese solo senza ammalarmi. Povero fiorellino, che era stato abituato ad addentrare le sue radici fragili in una terra scelta, fatta apposta per lui! Gli parve ben duro vedersi in mezzo a fiori di ogni sorta, alcuni dalle radici ben poco delicate! Ed essere costretto a trovare in una terra comune la linfa necessaria per l’esistenza.
75 – Lei mi aveva istruita così bene, Madre mia cara, che arrivando in collegio ero la più avanti tra le bimbe della mia età; mi misero in una classe di scolare tutte più grandi di me, una di loro, fra i tredici e i quattordici anni, era poco intelligente, ma si sapeva imporre alle compagne ed anche alle maestre. Vedendomi tanto giovane, quasi sempre la prima della classe, e benvoluta da tutte le religiose, dovette provare una gelosia ben perdonabile a una collegiale e mi fece scontare in mille modi i miei piccoli successi. Con la mia natura timida e delicata, non sapevo difendermi, e mi contentavo di piangere senza parlare, nemmeno con lei mi lamentavo per ciò che soffrivo, ma non avevo abbastanza virtù per elevarmi al disopra di queste miserie della vita, e il mio povero cuore soffriva tanto. Per fortuna che ogni sera ritrovavo il focolare paterno, allora il cuore si apriva, io saltavo sulle ginocchia del mio re, e gli dicevo i voti che mi erano stati dati, e il suo bacio mi faceva dimenticare tutte le mie pene. Con quale gioia annunciavo il risultato del mio primo componimento (un componimento di Storia Sacra), mi mancava un solo punto per avere il massimo, perché non avevo saputo il nome del padre di Mosè. Ero dunque la prima, e avevo conseguito una bella decorazione d’argento. Per premiarmi, Papà mi dette una monetina da quattro soldi che collocai in una scatola destinata a ricevere quasi ogni giovedì una moneta nuova, sempre della stessa grandezza (pescavo in quella scatola quando volevo fare, in certe feste grandi, un’elemosina di tasca mia alla questua, o per la propagazione della Fede, o per opere simili). Paolina, rapita per il successo della sua scolara, le regalò un bel cerchio per incoraggiarla ad essere ben studiosa. La povera piccina aveva un reale bisogno di quelle gioie della famiglia; senza esse, la vita di collegio le sarebbe stata troppo dura.
76 – Ogni giovedì si aveva vacanza nel pomeriggio, ma non era come le vacanze di Paolina, non ero nel belvedere con Papà. Bisognava giocare non con la mia Celina, ciò che mi piaceva quand’ero sola con lei, ma con le mie cuginette e le piccole Maudelonde. Era una vera pena per me, perché non sapevo giocare come gli altri bimbi, non ero una compagna gradevole, eppure facevo del mio meglio per imitare le altre senza riuscirci, e mi annoiavo molto, soprattutto quando bisognava passare tutto un pomeriggio a ballare la quadriglia. La sola cosa che mi piaceva era andare al giardino della stella, allora ero la prima dappertutto, cogliendo fiori a profusione, e sapendo trovare i più belli eccitavo l’invidia delle mie piccole compagne.
77 – Mi piaceva anche se per caso restavo sola con la piccola Maria, senza che ci fosse più Celina Maudelonde per indurla a giochi comuni; lei mi lasciava libera di scegliere, e io sceglievo un gioco affatto nuovo. Maria e Teresa diventavano due eremiti e non avevano che una povera capanna, un campicello di grano e un po’ di ortaggi da coltivare. La loro esistenza trascorreva in una contemplazione ininterrotta, cioè a dire che uno dei due solitari sostituiva l’altro nell’orazione quando bisognava occuparsi di vita attiva. Tutto veniva fatto con una intesa, un silenzio e dei modi religiosi che erano una perfezione. Quando la zia veniva a prenderci per la passeggiata, il nostro gioco continuava anche per la strada. I due romiti recitavano insieme il rosario, servendosi delle dita per non rivelare la loro devozione al pubblico indiscreto; ma ecco che un giorno il solitario più giovane ebbe un istante di distrazione: aveva ricevuto un dolce per merenda e prima di mangiarlo fece un gran segno di croce, al che tutti i profani del secolo si misero a ridere.
78 – Maria ed io eravamo sempre dello stesso parere, avevamo a tal segno i medesimi gusti, che una volta la nostra unione di volonta’ passò i limiti. Tornando una sera dall’Abbazia, dissi a Maria: «Conducimi tu, io chiudo gli occhi». – «Li chiudo anch’io», disse lei. Detto fatto, senza più discutere ognuna fece come volle. Eravamo sul marciapiede, non c’era da temere le vetture; dopo una gradevole passeggiata di qualche minuto, e dopo aver assaporato le delizie di camminare senza vederci, le due piccole stordite caddero insieme sulle casse deposte alla porta d’un magazzino, o piuttosto le fecero cadere. il bottegaio uscì furibondo per rialzare le sue merci, le due cieche volontarie si erano ben rialzate da sé e sgattaiolavano via a grandi passi, con gli occhi spalancati, ascoltando i giusti rimproveri di Giovanna, la quale era arrabbiata non meno del bottegaio. Tanto è vero che, per punirci, decise di separarci, e da quel giorno in poi Maria e Celina andarono insieme, mentre io facevo la strada con Giovanna. Questo mise fine alla nostra troppo grande unione di volontà e non fu un male per le due maggiori che invece non erano mai del medesimo parere, e discutevano per tutta la strada. Così la pace fu completa.
79 – Non ho ancora detto nulla delle mie relazioni intime con Celina, ah! se dovessi raccontare tutto, non frnirei mai… A Lisieux le parti erano cambiate, Celina era diventata un furicchio furbetto, e Teresa non era più se non una bimbetta dolce, ma piagnucolona fin troppo. Ciò non impediva che Celina e Teresa si volessero sempre più bene; a volte c’erano piccole discussioni, ma non gravi, e in fondo erano tutte due dello stesso parere. Posso dire che mai la mia sorella cara mi ha dato dispiacere e che invece è stata per me un raggio di sole, mi ha rallegrata e confortata sempre. Chi potrà dire con quale intrepidezza mi difendeva all’Abbazia quand’ero accusata? Prendeva tanta cura della mia salute che talvolta mi dava noia. Quello che non mi tediava affatto era vederla giocare: allineava tutta la squadra delle nostre bambole e le istruiva, da maestra abile; soltanto aveva sempre cura che le figlie sue fossero buone e brave, mentre le mie venivano spesso messe alla porta a causa della loro cattiva condotta… Mi diceva tutte le cose nuove che aveva imparate a scuola, e ciò mi divertiva molto; io la consideravo come un pozzo di scienza. Avevo ricevuto la qualifica di «figlioletta di Celina», e perciò quando lei si indisponeva con me, il più grave segno del suo malcontento era: «Non sei più figlia mia, è finita, me ne ricorderò sempre!». Allora non mi restava che piangere come una Maddalena, supplicandola di considerarmi ancora figliolina sua, poco dopo lei mi abbracciava e mi prometteva di non ricordare più nulla! Per consolarmi, prendeva una delle sue bambole e le diceva: «Tesoro, abbraccia la zia». Una volta la bambola mi abbracciò con tanto zelo e tenerezza che m’infilò due braccini nel naso. Celina che non l’aveva davvero fatto apposta mi guardava stupefatta. La bambola mi pendeva dal naso; ma ecco, la zia non tardò molto a svincolarsi dalle strette troppo tenere della nipote; e si mise a ridere con tutto il cuore di un’avventura tanto singolare.
80 – La parte più divertente era di vederci insieme nel bazar a comprare le strenne; ci nascondevamo con gran cura una all’altra. Avevamo dieci soldi da spendere, e ci occorreva-no almeno cinque o sei oggetti diversi, perciò facevamo a chi comprava le cose più belle. Felici dei nostri acquisti, sospiravamo il primo dell’anno per poterci offrire i nostri magnifici regali. Quella che si svegliava prima dell’altra si affrettava ad augurarle il buon anno, poi ci davamo le strenne, e ciascuna si estasiava sui tesori da dieci soldi! Quei regalini quasi ci facevano piacere quanto i bei regali dello zio, e, del resto, era soltanto l’inizio delle gioie. Quel giorno ci vestivano in fretta, e ciascuna di noi stava all’agguato per potersi gettare al collo di Papà; appena usciva dalla camera sua erano gridi di gioia in tutta la casa, e quel povero Babbo caro pareva felice di vederci tanto contente… Le strenne che Maria e Paolina davano alle loro figliolette non erano di gran pregio, ma suscitavano ugualmente una gioia grande.
81 – La verità è che a quell’età non eravamo annoiate della vita, le anime nostre in tutta la loro freschezza si aprivano come i fiori alla guazza mattinale. Un medesimo soffio faceva ondeggiare le nostre corolle, e ciò che portava gioia o pena ad una la portava anche all’altra. Indivise erano le nostre gioie, e l’ho ben sentito nel giorno della prima Comunione della mia Celina. Non mi trovavo ancora all’Abbazia perché avevo appena sette anni, ma ho conservato nel cuore il ricordo dolcissimo della preparazione che lei, Madre cara, aveva fatto fare a Celina; sera per sera la prendeva sulle ginocchia e le parlava del grande atto che stava per compiere; io ascoltavo avida di prepararmi anch’io, ma spesso lei mi diceva di andarmene perché ero troppo piccina, allora il cuore mi si gonfiava e io pensavo che non erano troppi quattro anni per prepararsi a ricevere il buon Dio… Una sera la intesi che diceva: «Dopo la prima Comunione bisogna cominciare una nuova vita». Subito presi la risoluzione di non attendere quel giorno, ma di rinnovarmi insieme a Celina. Mai avevo sentito tanto di amarla quanto lo sentii durante il ritiro di tre giorni che ella fece; per la prima volta, mi trovai lontana da lei, non dormii nel suo letto. Il primo giorno avevo dimenticato che non sarebbe tornata, avevo serbato un mazzetto di ciliege che Papà mi aveva comperato, perché volevo mangiarlo con lei; quando non la vidi arrivare, ebbi un gran dispiacere. Papà mi consolò dicendomi che mi avrebbe condotto all’Abbazia il giomo dopo per vedere la mia Celina, e che avrei portato un altro mazzetto di ciliege. il giorno della prima Comunione di Celina mi lasciò una impressione quasi fosse la mia; la mattina, svegliandomi sola sola, mi sentii inondata di gioia: «É oggi!», non mi stancavo di ripetere queste parole. Mi pareva d’essere io a far la prima Comunione. Credo d’aver ricevuto grandi grazie in quel giorno, e lo considero come uno dei più belli della vita.
82 – Ho fatto un passo indietro per rievocare quel dolce, delizioso ricordo, ora debbo parlare della prova dolorosa che venne a spezzare il cuore di Teresa piccina, quando Gesù le prese la sua cara mamma Paolina, amata così teneramente. Un giorno avevo detto a Paolina che sarei stata volentieri eremita, e mi sarebbe piaciuto andarmene con lei in qualche deserto lontano, e lei mi aveva risposto: il mio desiderio è il tuo, attenderò che tu sia abbastanza grande per partire». Senza dubbio, ciò non era stato detto seriamente, ma Teresa, invece, l’aveva preso sul serio; e quale non fu il dolore di lei quando un giorno intese Paolina che parlava con Maria della sua prossima entrata nel Carmelo! Non sapevo che cosa fosse il Carmelo, ma capivo che Paolina mi avrebbe lasciata per entrare in un convento, capivo che non mi avrebbe attesa, e che stavo per perdere la mia seconda mamma! Come dire la mia angoscia? In un attimo capii che cosa è la vita; fino allora non l’avevo vista così triste, ma ora mi apparve in tutta la sua realtà, vidi che era soltanto sofferenza e separazione continua. Piansi amaramente, perché non comprendevo ancora la gioia del sacrificio, ero debole, così debole che considero una grande grazia aver potuto sopportare una prova la quale pareva molto al disopra delle mie forze! Se avessi saputo a poco a poco la partenza della mia Paolina carissima, forse non avrei sofferto tanto, ma avendola saputa di sorpresa, fu come una spada che mi si conficcasse nel cuore.
83 – Ricorderò sempre, Madre mia cara, con quale tenerezza lei mi consolò. Poi mi spiegò la vita del Carmelo che mi parve così bella! Ripassando nello spirito tutto quello che lei mi aveva detto, sentii che il Carmelo era il deserto nel quale il Signore voleva che mi nascondessi. Lo sentii con tanta forza che non rimase il minimo dubbio in me: non era un sogno di bambina che si lasci trascinare, bensì la certezza d’una chiamata divina; volevo andare al Carmelo non per Paolina, ma per Gesù solo… Pensai molte cose che le parole non possono rendere, ma che mi lasciarono una grande pace nell’anima. Un giorno dopo confidai il mio segreto a Paolina la quale, considerando i miei desideri come la volontà del Cielo, mi disse che ben presto sarei andata a trovare la madre Priora del Carmelo, e che avrei dovuto dirle ciò che il Signore mi faceva sentire. Venne scelta una domenica per questa visita solenne, e il mio impaccio fu grande quando seppi che Maria G. doveva rimanere con me, perché, essendo ancora abbastanza piccola, poteva vedere le carmelitane; bisognava tuttavia che trovassi il modo di rimaner sola, ed ecco che cosa escogitai: dissi a Maria che, avendo il privilegio di vedere la Madre Priora, bisognava essere ben gentili e bene educate, per questo dovevamo confidarle i nostri segreti, perciò ognuna di noi doveva uscire un momento e lasciar l’altra sola. Maria mi credette sulla parola e, nonostante la sua ripugnanza a confidare dei segreti che non aveva, rimanemmo sole, una dopo l’altra, presso Nostra Madre. Dopo avere ascoltato le mie grandi confidenze madre Maria Gonzaga credette alla mia vocazione, mi disse tuttavia che non si ricevono postulanti di nove anni, e che bisognava attendere i miei sedici anni… Mi rassegnai nonostante il desiderio vivo di entrare prima possibile, e di fare la mia prima Comunione nel giorno della vestizione di Paolina. In quel giorno ricevetti dei complimenti per la seconda volta. Suor Teresa di Sant’Agostino venne a vedermi, e non si stancava di dire che ero carina… io non contavo di venire al Carmelo per ricevere lodi, e perciò, uscita dal parlatorio non finivo più di ripetere a Dio che volevo farmi carmelitana per lui solo.
84 – Cercai di profittare ben bene della mia cara Paolina durante le poche settimane ch’ella passò ancora nel mondo; ogni giorno, Celina ed io compravamo un dolce e delle caramelle pensando che ben presto non ne avrebbe mangiati più; eravamo sempre intorno a lei, senza lasciarle un minuto di respiro. Finalmente arrivò il 2 ottobre, giorno di lacrime e di benedizioni, nel quale Gesù colse il primo dei suoi fiori, che doveva divenire la madre di quelle che l’avrebbero raggiunto entro pochi anni. Vedo ancora il luogo preciso in cui ebbi l’ultimo bacio di Paolina, poi la zia ci condusse tutte a Messa mentre Papà andava sulla montagna del Carmelo per offrire il suo primo sacrificio. .. Tutta la famiglia era in lacrime, cosicché le persone che ci vedevano entrare in chiesa ci guardavano con stupore, ma a me importava ben poco e non m’impediva di piangere; credo che se tutto mi fosse crollato intorno, non me ne sarei curata affatto; guardavo il bel cielo limpido e mi meravigliavo che il sole splendesse con tanto fulgore quando l’anima mia era inondata dalla tristezza! Forse, Madre cara, lei trova che io esageri il dolore che ho provato? Mi rendo ben conto che non avrebbe dovuto essere tanto grave, poiché avevo la speranza di ritrovare lei al Carmelo; ma l’anima mia era lungi dall’essere matura, io dovevo passare attraverso molte prove prima di attendere il fine desiderato.
85 – Il 2 ottobre era il giorno fissato per rientrare all’Abbazia, bisognò dunque andarci, nonostante la mia tristezza. Nel pomeriggio la zia venne a prenderci per condurci al Carmelo, e io vidi la mia Paolina cara dietro le grate… Quanto ho sofferto in quel parlatorio del Carmelo! Poiché scrivo la storia dell’anima mia, devo dire tutto alla mia cara Madre, e confesso che il mio patire prima che lei entrasse nel Carmelo fu un nulla a paragone di quello che seguì. Tutti i giovedì andavamo, a famiglia riunita, al Carmelo, e io, avvezza a intrattenermi «cuore a cuore» con Paolina, ottenevo a mala pena due o tre minuti alla fine della conversazione, e beninteso li passavo a piangere per andarmene poi col cuore a pezzi. Non capivo come per delicatezza verso la zia lei rivolgesse di preferenza la parola a Giovanna e a Maria invece che alle sue figlioline; non capivo, e dicevo nel fondo di me stessa: «Paolina è perduta per me!». E sorprendente vedere quanto il mio spirito si sviluppò nella sofferenza; si sviluppò a tal segno che dopo breve tempo mi ammalai.
86 – La malattia che mi colpì veniva certamente dal demonio; furioso perché lei era entrata nel Carmelo, volle vendicarsi su me del torto che la nostra famiglia doveva fargli nell’avvenire, ma non sapeva che la dolce Regina del Cielo vegliava sul suo fiorellino fragile, che gli sorrideva dall’alto del suo trono, e si disponeva a far cessare la tempesta proprio nel momento in cui il povero fiore si sarebbe spezzato senza rimedio. Verso la fine dell’anno fui presa da un mal di testa continuo, ma che quasi non mi faceva soffrire; ero in grado di proseguire i miei studi, e nessuno si preoccupava di me; ciò durò fino alla festa di Pasqua del 1883. Papà essendo andato a Parigi con Maria e Leonia, la zia mi prese in casa sua con Celina. Una sera lo zio mi tenne con sé, e mi parlò di Mamma, e di tanti ricordi con una bontà che mi commosse profondamente e mi fece piangere; allora disse che ero troppo sensibile, che mi occorreva molta distrazione, e decise con la zia di procurarci cose piacevoli durante le vacanze di Pasqua. Quella sera dovevamo andare al circolo cattolico, ma, trovando che ero troppo stanca, la zia mi fece andare a letto; mentre mi spogliavo fui presa da un tremito strano; credendo che avessi freddo, la zia mi avviluppò tra le coperte e le bottiglie calde, ma niente poté attenuare la mia agitazione che durò quasi tutta la notte. Lo zio, tornato dal circolo cattolico con le mie cugine e Celina, fu ben sorpreso trovandomi in quello stato che giudicò assai grave, ma non volle dirlo per non spaventare la zia. Il giorno dopo andò a trovare il dottor Notta il quale giudicò, come mio zio, che avevo una malattia molto grave, dalla quale una bambina tanto giovane mai era stata colpita. Tutti erano costernati, la zia fu costretta a tenermi presso di sé, e mi curò con una premura veramente materna. Quando Papà tornò da Parigi con le sorelle più grandi, Amata li ricevette con una faccia così triste che Maria mi credette morta. Ma quella malattia non era perché morissi, era piuttosto come quella di Lazzaro, affinché Dio fosse glorificato. Lo fu realmente, per la rassegnazione mirabile del mio caro Babbo, il quale credette che «la sua bambina impazzisse o morisse»: e per la rassegnazione di Maria! Ah, quanto ha sofferto per causa mia, quanto le sono grata per le cure che mi usò con tanto sacrificio: il cuore le dettava ciò che mi era necessario, e veramente un cuore di madre è ben più sapiente che quello di un medico, sa indovinare ciò che conviene alla malattia della sua bimba.
87 – Povera Maria che fu costretta a venire a installarsi presso la zia, perché era impossibile allora di trasportarmi ai Buissonnets. Intanto, la vestizione di Paolina si avvicinava; evitavano di parlarne in presenza mia sapendo la pena che provavo per non poterci andare, ma io ne parlavo spesso, dicendo che sarei stata abbastanza bene per andare a vedere la mia Paolina cara. In realtà il Signore non volle negarmi questa consolazione, o piuttosto volle confortare la sua cara ftdanzata che aveva sofferto tanto per la malattia della figlioletta. Ho notato che Gesù non vuol mettere alla prova le sue figlie nel giorno del fidanzamento, questa festa dev’essere senza nubi, un anticipo della gioia del Paradiso, non l’ha già dimostrato cinque volte? Potei dunque abbracciare la mia cara Mamma, sedermi sulle ginocchia di lei, e colmarla di carezze. Potei contemplarla così incantevole sotto il bianco abito di fidanzata… Ah, fu un giorno bello in mezzo alla mia prova cupa, ma passò rapido. Ben presto dovetti salire sulla carrozza che mi portò ben lungi da Paolina e ben lungi dal mio Carmelo amato.
88 – Arrivando ai Buissonnets mi misero a letto, nonostante che io affermassi d’essere guarita perfettamente e di non aver più bisogno di cure. Ahimè! Ero soltanto all’inizio delle mie prove! L’indomani fui ripresa dal disturbo che avevo avuto, e la malattia divenne così grave che non avrei dovuto guarire, secondo le previsioni umane. Non so come descrivere un malessere tanto strano, sono persuasa ch’era opera del demonio, ma per lungo tempo dopo la guarigione ho creduto d’aver fatto apposta ad essere malata, ed è stato, questo, un vero martirio per l’anima mia. Lo dissi a Maria che mi rassicurò come meglio poté con la sua consueta bontà, lo dissi in confessione, e anche il confessore tentò di quietarmi dicendo che non era possibile aver finto d’essere ammalata al punto in cui lo ero. Dio misericordioso che voleva senza dubbio purificarmi, e soprattutto umiliarmi, mi lasciò questo martirio intimo fino al mio ingresso nel Carmelo, ove il Padre delle nostre anime mi tolse tutti i dubbi quasi con un gesto della mano, e da allora sono perfettamente tranquilla.
89 – Non è sorprendente che io abbia avuto il timore di essere sembrata ammalata senza esserlo veramente, perché dicevo e facevo cose che non pensavo, quasi sempre apparivo in delirio, pronunciavo parole che non avevano senso, e tuttavia sono sicura di non essere stata priva nemmeno un istante dell’uso della ragione. Parevo spesso svenuta, non facevo più il minimo movimento, e allora mi sarei lasciata fare qualsiasi cosa, anche uccidere, e tuttavia udivo tutto quello che veniva detto intorno a me, e mi ricordo ancora di tutto. Mi è accaduto una volta di restare a lungo senza poter aprire gli occhi, e di aprirli un attimo quando mi trovavo sola.
90 – Credo che il demonio avesse ricevuto un potere esteriore su me, ma che non potesse avvicinarsi alla mia anima, al mio spirito se non per ispirarmi certi spaventi forti dinanzi a determinate cose, per esempio, di fronte a medicine molto semplici che tentavano inutilmente di farmi accettare. Ma se Dio permetteva al demonio di avvicinarsi a me, mi mandava anche degli angeli visibili. Maria era sempre intorno al mio letto, mi curava e mi confortava con la tenerezza di una madre, senza mai manifestare il minimo senso di noia, eppure io le davo tanto disturbo, non permettendo che si allontanasse da me. D’altra parte, bisognava pure ch’ella andasse a tavola con Papà, ma io non cessavo di chiamarla tutto il tempo ch’era andata via; Vittoria che mi custodiva era costretta, a volte, a cercare la mia cara «mamma», come la chiamavo io. Quando Maria voleva uscire, bisognava che fosse per andare a Messa, oppure per andare da Paolina, allora non dicevo nulla.
91 – Lo zio e la zia erano tanto buoni anch’essi con noi; cara buona zia, veniva tutti i giorni a trovarmi, e mi portava mille cose buone. Altri amici della famiglia vennero a trovarmi, ma io supplicai Maria di avvertire che non volevo ricevere visite: mi dispiaceva di vedere persone sedute intorno al mio letto, file di cipolle, che mi guardavano come una bestia rara. La sola visita che mi piacesse era quella degli zii. Da quella malattia non so dire quanto sia aumentato il mio affetto per loro, capii sempre meglio che per noi non erano parenti come tutti gli altri. Povero Babbo caro, aveva ben ragione quando ci ripeteva le parole che ho scritte ora. Più tardi toccò con mano che non si era ingannato, ed ora egli certamente protegge e benedice coloro che gli prodigarono cure tanto affettuose. Io sono ancora nell’esilio, e, non sapendo come dimostrare la mia riconoscenza, ho un mezzo solo per sfogarmi: pregare per i congiunti che amo, e che furono e sono ancora tanto buoni verso me!
92 – Leonia era anche lei molto buona con me, faceva di tutto per distrarmi e divertirmi; io qualche volta le facevo dispiacere perché lei capiva bene che Maria era l’insostituibile per me.
E la mia Celina cara, che cosa non fece per la sua Teresa? La domenica invece di andare a passeggiare veniva a rinchiudersi per ore ed ore con una povera ragazzina che somigliava a un’idiota; realmente ci voleva molto amore per non fuggirmi. Ah, care sorelline, quanto vi ho fatto soffrire: nessuno vi ha procurato tanto dolore quanto io, e nessuno ha ricevuto tanto amore quanto voi me n’avete prodigato. Fortunatamente avro il Cielo per vendicarmi, il mio Sposo è ricchissimo e io attingerò nei tesori d’amore per restituirvi al centuplo tutto quello che avete sofferto per causa mia.
93 – La mia consolazione più grande quand’ero malata era di ricevere una lettera di Paolina. La leggevo e rileggevo fino a saperla a memoria. Una volta, Madre cara, lei mi mandò una clessidra e una delle mie bambole vestita da carmelitana; dire la mia gioia è cosa impossibile. Lo zio non era contento, diceva che, invece di farmi pensare al Carmelo, bisognava allontanarlo dal mio spirito, ma io sentivo, al contrario, che era la speranza di essere carmelitana a farmi vivere. Il mio piacere era lavorare per Paolina, le facevo delle cosine in carta bristol, e l’occupazione mia più grande era intrecciar corone di margherite e di myosotis per la Vergine Santa; eravamo nel mese bello di maggio, tutta la natura si ornava di fiori e spirava letizia, soltanto il «fiorellino» languiva, e pareva appassito per sempre. Eppure avevo un sole presso di me, e quel sole era la statua miracolosa della Santa Vergine che aveva parlato per due volte a Mamma, e spesso, molto spesso, mi volgevo a lei. Un giorno vidi Papà entrare nella camera di Maria ove io ero coricata: a Maria dette parecchie monete d’oro con una espressione di grande tristezza, e le disse di scrivere a Parigi e chiedere delle Messe presso Nostra Signora delle Vittorie affinché facesse guarire la sua povera figlioletta. Ah, come mi commossi vedendo la fede e l’amore del mio re caro! Avrei voluto dirgli: «sono guarita!», ma gli avevo già dato troppe gioie false, e non erano i miei desideri a poter fare un miracolo, perché un miracolo ci voleva per guarirmi. Ce ne voleva uno, e lo fece Nostra Signora delle Vittorie. Una domenica (durante la novena delle Messe), Maria uscì in giardino lasciandomi con Leonia la quale leggeva accanto alla finestra; in capo a qualche minuto mi misi a chiamare a bassa voce: «Mamma… Mamma…». Leonia era abituata a intendermi chiamare sempre così, non ci fece caso. La cosa durò a lungo, allora chiamai più forte, e finalmente Maria tornò, vidi perfettamente quando entrò, ma non potevo dire che la riconoscevo, e continuai a chiamare sempre più forte: «Mamma». Soffrivo molto di quella lotta forzata e inspiegabile, e Maria ne soffriva forse più di me; dopo vani sforzi per dimostrarmi che era vicina a me, si mise in ginocchio accanto al mio letto con Leonia e Celina, si volse alla Vergine Santa e pregò col fervore di una madre la quale chiedesse la vita del figlio: in quel momento ottenne quello che desiderava.
94 – Non trovando soccorso sulla terra, la povera Teresa si era rivolta anche lei alla Madre del Cielo, la pregava con tutto il cuore perché avesse finalmente pietà di lei… A un tratto la Vergine Santa mi parve bella, tanto bella che non avevo visto mai cosa bella a tal segno, il suo viso spirava bontà e tenerezza ineffabili, ma quello che mi penetrò tutta l’anima fu «il sorriso stupendo della Madonna». Allora tutte le mie sofferenze svanirono, delle grosse lacrime mi bagnarono le guance, ma erano lacrime di una gioia senza ombre. Ah, pensai, la Vergine Santa mi ha sorriso, come sono felice! Ma non lo dirò a nessuno, perché altrimenti la mia felicità scomparirebbe. Senza alcuno sforzo abbassai gli occhi e vidi Maria che mi guardava con amore, pareva commossa, quasi capisse il favore che la Madonna mi aveva concesso. Ah! era proprio a lei, alle commoventi preghiere di lei, che io dovevo la grazia del sorriso da parte della Regina dei Cieli. Vedendo il mio sguardo fisso sulla Vergine Santa, ella pensò: «Teresa è guarita!». Sì il fiore umile stava per rinascere alla vita, il raggio splendido che l’aveva riscaldato non doveva interrompere i propri benefizi: agi non in modo subitaneo, bensì gradatamente, dolcemente, risollevò il fiore e lo rafforzò a tal segno che cinque anni dopo si aprì sulla montagna benedetta del Carmelo.
95 – Come ho detto, Maria aveva intuito che la Santa Vergine mi aveva concesso qualche grazia nascosta, perciò, appena fui sola con lei, mi chiese che cosa avevo visto e io non potei resistere alle sue domande così tenere e premurose; stupita vedendo il mio segreto scoperto senza che io l’avessi rivelato, lo confidai tutto intero a Maria. Ahimè! Come avevo presentito, la mia felicità scomparve e si mutò in amarezza; per quattro anni il ricordo della grazia ineffabile che avevo ricevuta fu per me una vera pena d’animo, dovevo ritrovare la mia gioia soltanto ai piedi di Nostra Signora delle Vittorie, allora mi venne restituita in tutta la sua pienezza… riparlerò più tardi di questa seconda grazia della Santa Vergine Maria. Ora debbo dirle, Madre mia cara, in qual modo la gioia si cambiò in tristezza. Maria dopo aver inteso il racconto ingenuo e sincero della «mia grazia», mi chiese il permesso di dirlo al Carmelo, io non potevo dire di no. Alla mia prima visita all’amato Carmelo, fui piena di gioia vedendo la mia Paolina con l’abito della Vergine: che momento bello e dolce per noi due! C’erano tante cose da dire che non riuscivo a dir nulla, avevo il cuore troppo pieno. La buona madre Maria Gonzaga c’era anche lei, e mi dimostrò mille prove d’affetto; vidi ancora altre religiose e in presenza loro fui interrogata riguardo alla grazia che avevo avuta, e se la Vergine portava il Bambino Gesù, se c’era molta luce, e così via. Tutte quelle domande mi turbarono e mi fecero dispiacere, io potevo dire una cosa sola: «la Vergine Santa mi era sembrata bellissima, e l’avevo vista che mi sorrideva». Soltanto il volto di lei mi aveva colpita, così, vedendo che le carmelitane s’immaginavano tutt’altra cosa (e d’altra parte già cominciavano le mie sofferenze d’animo riguardo alla mia malattia), mi figurai d’aver mentito. Senza dubbio, se avessi custodito il mio segreto, avrei anche conservato la mia felicità, ma la Vergine Santa ha permesso questo tormento per il bene dell’anima mia; forse avrei avuto, altrimenti, qualche pensiero di vanità, mentre così, trovandomi nella umiliazione, non potevo guardarmi senza un sentimento di profondo orrore. Ah! quello che ho sofferto, lo potrò dire soltanto in Cielo!
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