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Storia di un'anima - Capitolo 6 - Parte 2

Ricorso al Sommo Pontefice Leone XIII

Autore: Santa Teresa Di Lisieux

170 – La visita alla chiesa di Sant’Agnese mi fu di grande dolcezza, era un’amica d’infanzia che andavo a trovare nella sua casa, le parlai lungamente di colei che porta così bene il suo nome, e feci tutti i miei sforzi per ottenere una reliquia di quest’angelica Patrona della mia Madre carissima, avrei voluto portarla a lei, ma non ci fu possibile avere altro che una pietruzza rossa staccatasi da un ricco mosaico la cui origine risale al tempo di sant’Agnese e che lei stessa dovette guardare spesso. Non era incantevole che l’amabile Santa ci desse ella stessa ciò che cercavamo e che ci era proibito di prendere? L’ho considerato sempre come un pensiero delicato e una prova di quell’amore col quale la dolce sant’Agnese considera e protegge la Madre mia carissima!

171 – Trascorremmo sei giorni visitando le principali meraviglie di Roma, e il settimo giorno vidi la più grande: «Leone XIII». Quel giorno lo desideravo e lo temevo, da esso sarebbe dipesa la mia vocazione, perché la risposta che dovevo ricevere da Monsignore non era arrivata, e io avevo saputo da una lettera sua, Madre, che egli non era più molto ben disposto verso di me, così l’unica tavola di salvezza era il permesso del Santo Padre… ma per ottenerlo occorreva chiederlo, bisognava osare di parlare «al Papa» davanti a tutti, questo pensiero mi faceva tremare; quel che ho sofferto prima dell’udienza, lo sa soltanto il buon Dio, con la mia cara Celina. Mai dimenticherò la parte che ella prese a tutte le mie prove, pareva che la vocazione mia fosse sua. (Il nostro affetto reciproco veniva notato dai sacerdoti del pellegrinaggio: una sera eravamo in un gruppo tanto numeroso che le sedie mancavano, allora Celina mi prese sulle ginocchia e ci guardavamo con tanto affetto, che un sacerdote esclamò: «Come si vogliono bene! Ah, queste due sorelle non potranno separarsi mai!». Sì, è vero, ci amavamo, ma il nostro affetto era tanto puro e forte, che il pensiero di separarci non ci turbava affatto, perché sentivamo che niente, nemmeno l’oceano, avrebbe potuto allontanarci l’una dall’altra… Serenamente Celina vedeva la mia navicella che gettava l’ancora sulla riva del Carmelo; lei si rassegnava a restare nel mare burrascoso del mondo per quanto tempo Dio lo volesse, sicura di arrivare anche lei alla sponda ambita…).

172 – Domenica 20 novembre ci vestimmo secondo il cenmoniale del Vaticano (di nero, con un velo di merletto in testa) e decorate da una grande medaglia di Leone XIII attaccata a un nastro azzurro e bianco, facemmo il nostro ingresso in Vaticano, nella cappella del Sommo Pontefice. Alle otto lo vedemmo entrare per celebrare la santa Messa: fu un’emozione profonda. Benedisse i pellegrini numerosi riuniti intorno a lui, salì gli scalini dell’altare, e ci mostrò, con la sua pietà degna del Vicario di Gesù, che era veramente «il Santo Padre». ll cuore mi batteva forte, e pregavo ardentemente mentre Gesù discendeva tra le mani del suo Pontefice; comunque, ero piena di fiducia, il Vangelo di quel giorno portava le parole splendide: «Non temere, piccolo gregge, perché è piaciuto al Padre mio di darti il suo regno». E io non temevo nulla, speravo che il regno del Carmelo mi appartenesse presto, non pensavo allora a quelle altre parole di Gesù: «Vi preparo il mio regno come il Padre mio l’ha preparato a me»; cioè, vi riservo croci e prove, e in tal modo sarete degni di possedere il regno che sospirate; poiché è stato necessario che il Cristo soffrisse, ed entrasse così nella gloria, se desiderate aver posto accanto a lui, bevete il calice che egli stesso ha bevuto! Questo calice mi fu presentato dal Santo Padre, e le lacrime mie si confusero con la bevanda amara che mi veniva offerta.

173 – Dopo la Messa di ringraziamento che fece seguito a quella di Sua Santità, ebbe inizio l’udienza. Leone XIII era assiso sopra una grande poltrona, vestito semplicemente con una tonaca bianca, una mantellina dello stesso colore, e aveva sulla testa uno zucchetto. Intorno a lui stavano i cardinali, gli arcivescovi, i vescovi, ma io non li vidi se non in gruppo, occupata com’ero unicamente del Santo Padre; passammo dinanzi a lui in processione, ciascun pellegrino s’inginocchiava a turno, baciava mano e piede di Leone XIII, riceveva la benedizione, e due guardie nobili gli facevano cenno secondo l’etichetta, per avvertirlo che era tempo di alzarsi (intendo dire che avvertivano il pellegrino, mi spiego così male che si potrebbe pensare che avvertissero il Papa). Prima di penetrare nell’appartamento pontificio ero ben decisa a parlare, ma mi sentii mancare il coraggio quando vidi a destra del Santo Padre «Monsignor Révérony»! Quasi nel medesimo istante ci fu detto da parte sua che era proibito parlare a Leone XIII, l’udienza si sarebbe prolungata troppo. Mi voltai verso Celina cara, per sapere il suo parere: «Parla!», mi disse. Un minuto dopo ero ai piedi del Santo Padre; baciai la pantofola, egli mi porse la mano, ma io, invece di baciarla, giunsi le mani mie e alzai verso lui gli occhi pieni di lacrime: «Santo Padre – dissi -, ho da chiedervi una grazia grande». Allora il Sommo Pontefice abbassò la testa verso me, in modo che il mio volto quasi toccava il suo, e vidi i suoi occhi neri e profondi fissarsi su di me, parve che penetrasse in fondo all’anima. «Santo Padre – dissi – in onore del vostro giubileo, permettetemi di entrare nel Carmelo a quindici anni!…».

174 – L’emozione certo mi fece tremare la voce, cosicché il Santo Padre, volgendosi a Monsignor Révérony, il quale mi guardava meravigliato e scontento, disse: «Non capisco molto bene». Se il buon Dio l’avesse permesso, sarebbe stato facile che Monsignor Révérony mi ottenesse ciò che desideravo, ma invece volle darmi la croce e non già la consolazione. «Beatissimo Padre – rispose il Vicario Generale – è una bambina che desidera entrare nel Carmelo a quindici anni, ma i superiori stanno esaminando la questione». «Ebbene, figlia – rispose il Santo Padre guardandomi con bontà -fate ciò che vi diranno i superiori». Allora, appoggiando le mani sulle sue ginocchia, tentai un ultimo sforzo e dissi con voce supplice: «Oh! beatissimo Padre, se voi diceste «sì, tutti sarebbero d’accordo!…». Mi guardò fissamente, e pronunciò queste parole appoggiando su ciascuna sillaba: «Bene… bene… Entrerete se Dio lo vorrà! . ..» -. (La sua espressione era così penetrante e convinta, che mi pare d’intenderlo ancora). Poiché la bontà del Santo Padre mi dava animo, volli parlare ancora, ma le due guardie nobili mi toccarono gentilmente per farmi alzare; e vedendo che ciò non bastava, mi presero per le braccia, e Monsignor Révérony le aiutò a sollevarmi, perché io restavo ancora con le mani giunte appoggiate alle ginocchia di Leone XIII, e mi strapparono di peso dai suoi piedi… Nel momento in cui mi trasportarono via così, il Santo Padre posò la sua mano sulle mie labbra, poi l’alzò per benedirmi, allora gli occhi mi si empirono di lacrime, e Monsignor Révérony poté contemplare per lo meno altrettanti diamanti quanti ne aveva visti a Bayeux.

175 – Le due guardie nobili mi portarono, per così dire, fino alla porta, e là una terza mi dette una medaglia di Leone XIII. Celina, che mi seguiva, era stata presente alla scena: commossa quasi quanto me, ebbe tuttavia il coraggio di chiedere al Santo Padre una benedizione per il Carmelo. Monsignor Révérony con tono contrariato rispose: «È già benedetto, il Carmelo». Il buon Santo Padre riprese con dolcezza: «Oh sì, è già benedetto!». Prima di noi Papà era venuto ai piedi di Leone XIII (con gli altri signori). Monsignor Révérony era stato molto benevolo verso lui, l’aveva presentato come il padre di due carmelitane. il Sommo Pontefice, in segno di particolare favore, posò la mano sulla testa venerabile del mio caro Re, e parve imprimere in lui così un sigillo misterioso, nel nome di colui che veramente egli rappresenta… Ah! Ora che è in Cielo, questo padre di quattro carmelitane, non è più la mano del Pontefice che riposa sulla sua fronte, profetizzandogli il martirio… E la mano dello Sposo delle Vergini, del Re della gloria che fa risplendere la testa del suo servo fedele, e più che mai quella mano adorata rimarrà sulla fronte che ha glorificata!

176 – Il mio Babbo caro rimase addolorato trovando me tutta in lacrime all’uscita dall’udienza, fece tutto ciò che poté per consolarmi, ma invano… In fondo al cuore sentivo una grande pace, poiché avevo fatto assolutamente tutto il possibile per corrispondere a ciò che Dio mi chiedeva, ma quella pace era nel fondo, e l’amarezza mi colmava l’anima, perché Gesù taceva. Pareva assente, niente rivelava la sua presenza. Anche in quel giorno il sole non osò risplendere, e il cielo bello d’Italia, carico di nuvole cupe, pianse con me tutto il tempo. Ah! era finita, il mio viaggio non aveva più incanto per me, poiché lo scopo era fallito. Eppure, le ultime parole del Santo Padre avrebbero dovuto ben consolarmi: in verità, non erano una genuina profezia? Nonostante tutti gli ostacoli, quello che Dio misericordioso ha voluto si è compiuto. Ha permesso alle creature di fare non ciò che volevano, bensì la volonta sua.

177 – Da qualche tempo mi ero offerta a Gesù Bambino per essere il suo giocattolino, gli avevo detto che usasse me non già come un balocco di quelli pregevoli (i bimbi si contentano di guardarli senza osar di toccarli), bensì come una pallina senz’alcun valore che egli poteva buttar per terra, spingere con i piedi, bucare) lasciare in un cantuccio o stringere al cuore, a piacimento suo; in una parola volevo divertire Gesù Bambino, fargli piacere, volevo abbandonarmi ai suoi capricci infantili… Aveva esaudito la mia preghiera. A Roma Gesù bucò il suo giocattolino, volle vedere cosa c’era dentro, e, dopo averlo visto, contento della sua scoperta, lasciò cadere la pallina e si addormentò… Che cosa fece durante il sonno dolce, e che cosa divenne la pallina abbandonata? Gesù sognò che giocava ancora col suo balocco lasciandolo e prendendolo volta a volta, e, dopo averlo fatto ruzzolare lontano, se lo stringeva al cuore senza permettere più che si allontanasse dalla sua manina…

178 – Lei capisce, Madre mia cara, quanto fosse triste la pallina vedendosi per terra. Tuttavia non rinunciavo a sperare contro tutte le speranze. Qualche giorno dopo l’udienza del Santo Padre, Papà andò a vedere il buon fratel Simeone, e trovò presso lui Monsignor Révérony, il quale fu amabilissimo. Papà gli rimproverò giocosamente di non avermi aiutata nella mia impresa difficile, poi narrò la storia della sua reginetta al fratello Simeone. Il venerando vecchio ascoltò il racconto con interesse vivo, prese perfino degli appunti, e disse, commosso: «Una cosa simile non si vede in Italia!». Credo che il colloquio facesse gran buona impressione a Monsignor Révérony: in seguito mi dimostrò ad ogni istante che finalmente era convinto della mia vocazione.

179 – L’indomani del giorno memorabile, bisognò partire fin dalla mattina alla volta di Napoli e Pompei. In onore nostro il Vesuvio brontolò tutta la giornata, emettendo con le sue cannonate, una colonna densa di fumo. Le tracce che ha lasciato sulle rovine di Pompei sono paurose, mostrano la potenza del Dio «che guarda la terra e la fa tremare, tocca le montagne, e le riduce in fumo». Mi sarebbe piaciuto passeggiare sola in mezzo alle rovine, meditando sulla fragilità delle cose umane, ma la folla dei viaggiatori guastava in gran parte il fascino malinconico della città distrutta. A Napoli fu tutto il contrario, il gran numero delle pariglie rese magnifica la nostra passeggiata al monastero di San Martino situato sopra una collina alta che domina la città intera; purtroppo i cavalli mordevano il freno minuto per minuto, e più d’una volta mi son vista all’ultima ora. Il cocchiere aveva un bel ripetere continuamente la parola magica dei vetturini italiani: «A-ppippo, A-ppippo» (Ah Pippo, ah Pippo…)», i poveri cavalli volevano rovesciar la carrozza, finalmente, grazie alla protezione dei nostri angeli custodi, arrivammo al nostro albergo magnifico. Durante tutto il viaggio abbiamo abitato in alberghi principeschi, mai ero stata circondata da tanto lusso, è proprio il caso di dire che la ricchezza non dà la felicità, perché sarei stata più felice sotto un tetto di paglia con la speranza del Carmelo, che in mezzo a tappezzerie dorate, scaloni bianchi di marmi, tappeti vellutati, con l’amarezza nel cuore. L’ho ben capito, la gioia non la troviamo negli oggetti che ci stanno intorno, bensì nel profondo dell’anima, possiamo averla in una prigione altrettanto bene che in un palazzo, la prova è che io sono più felice nel Carmelo, anche tra prove intime ed esteriori, che nel mondo, circondata dalle comodità della vita, e soprattutto dalle dolcezze del focolare paterno!

180 – Avevo l’anima immersa nella tristezza, tuttavia all’esterno mi mostravo la stessa, perché credevo che la supplica fatta da me al Santo Padre fosse ignota agli altri; ben presto mi persuasi del contrario: ero rimasta sola con Celina nel vagone (gli altri pellegrini erano discesi al buffet durante i pochi minuti di fermata), vidi Monsignor Legoux, vicario generale di Coutances, che aprì lo sportello e mi guardò sorridendo, poi disse: «Ebbene, come va la nostra piccola carmelitana?». Capì allora che tutto il gruppo conosceva il mio segreto; per fortuna nessuno me ne parlò, ma mi resi conto, da come mi guardavano con simpatia, che la mia istanza non aveva fatto brutta impressione, anzi… Nella cittadina di Assisi, ebbi l’occasione di salire nella carrozza di Monsignor Révérony, favore che non fu concesso ad alcuna signora durante l’intero viaggio. Ed ecco in qual modo ottenni questo privilegio.

181 – Dopo aver visitato i luoghi profumati dalle virtù di san Francesco e di santa Chiara, avevamo visto per ultimo il monastero di Sant’Agnese, sorella di santa Chiara; avevo contemplato a mio piacimento la testa della Santa, quando, ritirandomi una delle ultime, mi accorsi che avevo perduto la mia cintura; la cercai in mezzo alla folla, un sacerdote ebbe pietà di me e mi aiutò, ma dopo che me l’ebbe trovata, lo vidi allontanarsi, e rimasi sola a cercare perché, se la cintura c’era, impossibile metterla, mancava la fibbia… Finalmente la vidi brillare in un angolo; afferrarla e aggiustarla al nastro fu tutt’uno, ma la ricerca era stata lunga, perciò rimasi attonita quando mi ritrovai sola dinanzi alla chiesa; tutte le vetture erano sparite, fuorché quella di Monsignor Révérony. Che partito prendere? Dovevo correre dietro le carrozze che non vedevo più, espormi al rischio di perdere il treno e mettere il mio Babbo caro nell’inquietudine, oppure chiedere un posto nel calesse di Monsignor Révérony? Mi decisi per quest’ultima soluzione. Col piglio più garbato e meno impacciato possibile – nonostante il mio estremo impaccio – gli esposi la condizione difficile, e misi anche lui in diffiicoltà perché la sua vettura era gremita dai signori più autorevoli del pellegrinaggio, non c’era una briciola di posto; ma un signore cortesissimo si affrettò a scendere, mi fece salire al suo posto, e andò egli stesso modestamente accanto al cocchiere. Somigliavo a uno scoiattolo in trappola, ed ero ben lungi dal sentirmi comoda, circondata così da tutti quei grandi personaggi, e soprattutto dal più temibile, in faccia al quale ero situata… E che tuttavia fu gentilissimo con me, e interruppe varie volte la conversazione con quei signori per parlarmi del Carmelo. Prima di arrivare alla stazione tutti i grandi personaggi tirarono fuori i loro grandi portafogli per dare la mancia al cocchiere (già pagato), io feci come loro e presi il mio minimo portamonete, ma Monsignor Révérony non mi permise di estrarne delle monetine, preferì darne lui una grossa per lui e per me.

182 – Un’altra volta mi trovai accanto a lui in omnibus; fu ancor più benevolo, e mi promise che avrebbe fatto tutto il possibile affinché io entrassi nel Carmelo. Pur mettendo un po’ di balsamo sulle mie piaghe, quei piccoli incontri non impedirono che il viaggio di ritorno fosse per me ben meno piacevole che quello di andata, perché non avevo più la speranza «del Santo Padre», non trovavo più soccorso alcuno sulla terra che mi pareva un deserto arido, senz’acqua; tutta la speranza mia era nel buon Dio solo… stavo facendo esperienza che è meglio rivolgersi a lui che ai suoi santi…

183 – La tristezza dell’anima mia non m’impedì d’interessarmi vivamente ai luoghi che visitavamo. A Firenze fui felice di contemplare santa Maddalena de’ Pazzi in mezzo al coro delle carmelitane le quali ci aprirono la grata maggiore; poiché non sapevamo di poter godere di questo privilegio, e poiché molte persone desideravano far toccare le loro corone alla tomba della Santa, io sola riuscii a passare la mano attraverso la grata che la proteggeva, così tutti mi portarono dei rosari, ed ero ben fiera del mio compito. Bisognava che trovassi sempre il modo per toccar tutto, così nella chiesa di Santa Croce in Gerusalemme (a Roma) potemmo vedere alcuni frammenti della vera Croce, due spine ed un sacro chiodo racchiusi entro un magnifico reliquiario d’oro cesellato, ma senza vetro, perciò io trovai modo, venerando la reliquia preziosa, d’insinuare il mignolo in uno spazio del reliquiario, e potei toccare il chiodo che fu bagnato dal Sangue di Gesù. Fui veramente troppo audace. Ma il Signore vede il fondo dei cuori, sa che l’intenzione mia era pura, è che per niente al mondo avrei voluto fargli dispiacere, agivo con lui da bambina che si crede tutto permesso e considera come propri i tesori del Padre.

184 – Non riesco ancora a capire perché mai le donne siano tanto facilmente scomunicate in Italia, ad ogni piè sospinto ci veniva detto: «Non entrate qua… non entrate là, sareste scomunicate!». Ah povere donne, quanto disprezzo per loro! Eppure, sono ben più numerose degli uomini quelle che amano Dio, e durante la Passione di Nostro Signore le donne ebbero più coraggio degli Apostoli, poiché sfidarono gli insulti dei soldati e osarono asciugare il Volto adorato di Gesù. Certamente per questo egli permette che il disprezzo sia il loro retaggio sulla terra, poiché l’ha scelto per se stesso. In Cielo, saprà ben mostrare che i pensieri suoi non sono quelli degli uomini, poiché allora le ultime saranno le prime… Più d’una volta, durante il viaggio, non ho avuto la pazienza di attendere il Cielo per essere la prima. Un giorno in cui visitavamo un convento di Carmelitani non mi contentai di seguire i pellegrini nelle gallerie esterne, mi spinsi fino nel chiostro interno… a un tratto vidi un buon vecchio carmelitano che da lontano mi faceva segno che mi allontanassi, ma io, invece di andarmene, mi avvicinai a lui, e indicandogli i quadri del chiostro gli feci cenno che erano belli. Capì senza dubbio dai miei capelli sciolti e dall’aria giovane che ero una bambina, mi sorrise con bontà, e si allontanò vedendo che non si trovava davanti a una nemica; se avessi potuto parlargli italiano, gli avrei detto che ero una futura carmelitana, ma a causa di quelli che fecero la torre di Babele, la cosa mi fu impossibile.

185 – Dopo aver visitato anche Pisa e Genova, tornammo in Francia. Durante il percorso, vedute magnifiche: ecco, corriamo lungo il mare, e la ferrovia è tanto vicina che mi pare le onde arrivino fino a noi (questo spettacolo fu causato da una tempesta, ed era sera, cosicché la scena appariva ancor più maestosa), ora ecco delle aperte distese di aranceti dai frutti maturi, di verdi olivi dalla ramaglia lieve, di palme graziose… al cader del giorno vedevamo numerosi piccoli porti di mare che s’illuminavano di mille luci, mentre in cielo scintillavano le prime stelle. Ah, che poesia mi empiva l’anima mentre vedevo tutte quelle cose per la prima e l’ultima volta! Senza rimpianto le vedevo svanire, il cuore mio aspirava a meraviglie diverse, aveva contemplato abbastanza le bellezze della terra, ora desiderava quelle del Cielo, e io, per darle alle anime, volevo diventare prigioniera! Prima di vedere aprirsi dinanzi a me le porte della prigione benedetta, dovevo ancor lottare e soffrire: lo sentivo mentre tornavo in Francia, tuttavia la mia fiducia era tanto grande che speravo ancora nel permesso di entrare il 25 dicembre.

186 – Appena arrivate a Lisieux, la prima visita fu per il Carmelo. Quale incanto fu quel colloquio! Avevamo tante cose da dirci, dopo un mese di separazione, un mese che mi era parso lungo e istruttivo più di parecchi anni messi insieme. Madre mia cara, quanto mi fu dolce rivederla e aprire a lei la piccola anima mia ferita. A lei che mi sapeva capire tanto bene: una parola, uno sguardo le bastavano per indovinare tutto! Mi abbandonai completamente, avevo fatto tutto quello che dipendeva da me, tutto, perfino parlare al Santo Padre, così non sapevo che cosa avrei dovuto fare ancora. Lei mi disse di scrivere a Monsignor Vescovo e ricordargli la sua promessa; lo feci subito come meglio potei, ma in termini che lo zio trovò un po’ troppo semplici. Rifece egli stesso la lettera; nel momento in cui stavo per spedirla, ne ricevetti una da lei che mi diceva di non scrivere, di attendere qualche giorno; obbedii subito, perché ero sicura che quello era il mezzo migliore per non mgannarmi. Finalmente, dieci giorni prima di Natale, la mia lettera partì. Ben convinta che la risposta non avrebbe tardato, andavo ogni mattina dopo la Messa alla posta con Papà, credendo trovarci il permesso per volar via, ma ogni mattina mi portava una delusione nuova, che tuttavia non scuoteva la mia fede. Chiedevo a Gesù che spezzasse le mie catene; le spezzò, infatti, ma in un modo affatto diverso da quello che mi aspettavo. La bella festa di Natale arrivò, e Gesù non si destò… lasciò per terra la sua pallina senza gettarle nemmeno uno sguardo.

187 – Avevo il cuore affranto quando andai alla Messa di mezzanotte, avevo pur contato di ascoltarla da dietro le grate del Carmelo! Fu una prova ben grande per la mia fede, ma «il Cuore che veglia durante il sonno» mi fece capire che concede miracoli a coloro la cui fede uguaglia un granello di senape e fa mutar di posto le montagne per rendere salda questa fede così piccola; ma per i suoi intimi, per sua Madre, non fa miracoli prima di avere messo a prova la loro fede. Non lasciò forse morire Lazzaro, nonostante che Marta e Maria gli avessero fatto dire che era malato. Alle nozze di Cana, la Santa Vergine domandò a Gesù di venire in aiuto del padrone di casa, e non le rispose Gesù che l’ora sua non era ancor giunta. Ma dopo la prova, quale ricompensa! L’acqua si cambia in vino… Lazzaro risuscita. Così Gesù agì verso la sua Teresa: dopo averla lungamente provata, colmò tutti i desideri del cuore di lei.

188 – Nel pomeriggio della festa radiosa trascorsa da me tra le lacrime, andai a trovare le carmelitane; fu grande la mia sorpresa quando vidi, nel momento in cui apersero le grate, un incantevole Gesù Bambino che teneva in mano una palla su cui era scritto il nome mio. Le carmelitane, al posto di Gesù troppo piccolo per parlare, mi cantarono un cantico composto dalla mia Madre amata; ciascuna parola diffondeva nell’anima mia una consolazione dolcissima, mai dimenticherò questa delicatezza del cuore materno che mi colmò sempre delle tenerezze più fini… Dopo aver ringraziato con lacrime soavi, raccontai ìa sorpresa che Celina mi aveva fatto al ritorno dalla Messa di mezzanotte. Avevo trovato in camera mia, in mezzo a una vasca graziosa, una navicella che portava Gesù Bambino addormentato, con una pallina accanto a lui; sulla vela bianca Celina aveva scritto: «Io dormo, ma il cuore mio veglia», e sulla nave questa sola parola: «Abbandono!». Ah, se Gesù non parlava alla sua piccola fidanzata, se gli occhi suoi divini restavano sempre chiusi, almeno le si rivelava per mezzo di anime atte a capire le delicatezze e l’amore del suo Cuore.

189 – Il primo giorno dell’anno 1888 Gesù mi fece ancora dono della sua croce, ma questa volta fui sola a portarla, perciò fu tanto più dolorosa quanto incompresa. Una lettera di madre Maria di Gonzaga mi annunciò che la risposta di Monsignor Vescovo era giunta il 28, festa dei santi Innocenti, ma che non me l’aveva resa nota perché aveva deciso che io entrassi soltanto dopo quaresima. Non potei trattenere il pianto pensando a un rinvio così lungo. Quella prova ebbe per me un carattere particolarissimo, vedevo i miei legami spezzati dalla parte del mondo, e questa volta era l’arca santa che rifiutava l’ingresso all’umile colomba. Credo bene che dovetti sembrare irragionevole quando non accolsi gioiosamente i miei tre mesi di esilio, ma credo altresì che, senza saperlo, questa prova fu grande e mi fece crescere molto nell’abbandono e nelle altre virtù.

190 – In quale modo trascorsero quei tre mesi tanto ricchi di grazie per l’anima mia? Anzitutto mi venne in mente di non costringermi ad una vita tanto ben regolata come quella cui ero avvezza, ma ben presto capii il valore del tempo che mi veniva offerto, e risolsi di darmi più che mai a vita seria e mortificata. Quando dico: «mortificata», non è per far credere che io facessi penitenze, ahimè! non ne ho fatte mai, ben lungi dal somigliare alle anime belle che fin dall’infanzia praticavano ogni sorta di mortificazioni, non sentivo per esse alcuna attrattiva. Certamente ciò proveniva dalla mia viltà, perché avrei potuto, come Celina, trovar mille piccole invenzioni per farmi soffrire, invece mi sono sempre lasciata coccolare nell’ovatta, e imbeccare come un uccellino che non abbia bisogno di far penitenza… Le mie mortificazioni consistevano nel rompere la mia volontà, sempre pronta a imporsi, nel trattenere una battuta di risposta, nel rendere servizietti senza farli valere, nel privarmi di appoggiare il dorso quand’ero seduta, ecc. ecc. Fu per mezzo di questi nonnulla che mi preparai a diventare la fidanzata di Gesù, e non posso dire quanti ricordi cari mi abbia lasciato quell’attesa. Tre mesi passano veloci, finalmente arrivò il momento desideratissimo!