Ti distruggo! La perversione della natura umana
Meditazione per la Ventisettesima domenica del T.O. anno B
Autore: Don Gaetano Piccolo
«Cerca in alto l’orizzonte della ragione, fa’ valere gli occhi dell’uomo che sei, guarda il cielo e la terra, gli splendori del firmamento, la fertilità della terra, il volare degli uccelli, il nuotare dei pesci, la vitalità dei semi, il succedersi regolare delle stagioni. Volgi l’attenzione al creato e pensa al Creatore. Ammira le cose che vedi e tendi a ciò che non vedi».
Sant’Agostino, Discorso 126,2.3
Il volto dell’altro
Il volto dell’altro ci sta davanti e ci interpella. A volte ci infastidisce, ci mette in crisi, ci ricorda il nostro fallimento. E allora siamo tentati di possederlo, di manipolarlo o di controllarlo. E quando non ci riusciamo, mettiamo in atto meccanismi per distruggerlo. I nostri conflitti nascono generalmente da uno strenuo tentativo di mettere le mani sull’altro: la perversione della relazione consiste nel tentativo di fare dell’altro quello che voglio, di usarlo, di disporre della sua vita. È una perversione perché la natura dell’essere umano è inevitabilmente relazionale: siamo fatti per costruire relazioni, non per distruggerle.
L’altro indispensabile
Per aiutarci a comprendere questa dimensione relazionale dell’essere umano, il libro della Genesi, che ci mette sempre davanti alle questioni fondamentali, assume come modello la differenza e la relazione tra l’uomo e la donna.
Il testo del libro della Genesi che ci viene proposto afferma per la prima volta che qualcosa non è buono. Fino a questo punto tutto ciò che Dio aveva creato era buono. L’essere umano era stato definito persino molto buono. C’è qualcosa però che appare subito come problema: si tratta della solitudine dell’uomo («non è bene che l’uomo sia solo», Gen 2,18). Nella solitudine infatti non c’è vita. L’uomo per vivere ha bisogno della relazione. Ha bisogno di un aiuto. Questo termine indica un aiuto fondamentale, necessario, un aiuto senza il quale si muore.
Nemmeno il potere può risolvere il dramma della solitudine dell’uomo: per quanto egli si illuda di mettere le mani sulle cose, continua a essere infelice. Dio infatti aveva dato all’uomo la possibilità di dare un nome agli animali (Gen 2,19): si tratta di una cessione di potere da parte di Dio. Dare il nome vuole dire infatti nella cultura ebraica possedere, comandare, fare dell’altro una mia proprietà. L’uomo anche se padrone è infelice! Per citare la frase finale del celebre film Into the wild (2007): «la felicità è reale solo se condivisa!».
Un altro che risponda
L’essere umano si realizza solo se ha qualcuno davanti a sé: un aiuto che gli corrispondesse (Gen 2,20). L’essere umano ha bisogno di uno che gli risponda. È questo per la Genesi il senso della duplicità insita nell’umanità: maschio (iš) e femmina (išša). Quando ci isoliamo, quando non ascoltiamo più nessuno, quando ci chiudiamo nel nostro mondo, quando l’altro è sempre e solo un nemico, tradiamo la nostra dimensione umana!
L’altro non può essere posseduto perché non è nostro, non è un mio oggetto, non è in mio potere: nel racconto della Genesi, infatti, nessuno dei due esseri viventi conosce l’origine dell’altro, non sa da dove viene: l’uomo è addormentato quando Dio crea la donna e la donna non era presente quando l’uomo veniva creato. L’altro non è mai in mio possesso perché non lo conosco mai fino in fondo e non posso farne ciò che voglio.
Un’origine comune
Al contrario, la Genesi ci rimanda a un’origine comune: la donna, l’alterità per eccellenza, è tratta dal fianco, come se fosse l’altro lato della stessa umanità. Siamo un’unica carne: fare male altro è fare male a me stesso.
La Lettera agli Ebrei, nel passo che leggiamo questa domenica, rimanda proprio a questa origine comune, rendendola ancora più radicale: «colui che santifica e coloro che sono santificati provengono tutti da una stessa origine» (Eb 2,11). Siamo salvati per mezzo di Gesù proprio perché egli ha assunto questa nostra umanità.
Il salmo 127, a sua volta, canta la complessità della vita, dove la fatica e la felicità stanno insieme dentro le dinamiche relazionali: «Della fatica delle tue mani ti nutrirai, sarai felice e vivrai di ogni bene» (Sal 127,2).
Il più debole nella relazione
La difficoltà di riconoscere e vivere la relazione con l’altro senza sottometterlo e senza approfittarne attraversa ogni epoca, la nostra come quella di Gesù. Nel Vangelo di questa domenica infatti, Gesù rimanda al testo della Genesi, che abbiamo commentato, proprio per affrontare il problema della violenza sul più debole. Siamo sempre davanti alla necessità di difendere chi per tanti motivi si trova in una posizione svantaggiata: dopo aver affrontato il tema del ripudio della donna, Gesù infatti difende i bambini, chiamandoli a sé e sottraendoli al rimprovero degli adulti. La donne e i bambini sono il simbolo di tutti coloro che in diversi contesti sono i deboli, coloro su cui ricade la violenza del potere, l’abuso della forza, molte volte nascosto anche dietro intenzioni di giustizialismo.
Gesù condanna il ripudio della donna perché era diventato uno strumento che lasciava la donna senza diritti, esponendola ulteriormente a essere sfruttata. Oggi possiamo purtroppo assistere a tante altre situazioni in cui il più debole è lasciato senza diritti. Il più debole non è tutelato. La gestione della giustizia ha molti spazi di arbitrio e generalmente chi è più potente usa il diritto in suo favore.
Attraverso le letture di questa domenica, la Chiesa dovrebbe alzare la sua voce e, anche al suo interno, tornare a difendere chi è veramente il più debole, chi è senza diritti, affinché le nostre relazioni possano essere autentiche, senza diventare luogo di abuso e di distruzione dell’altro.
Leggersi dentro
Sei uno che si prende cura di chi è più debole o uno che approfitta delle debolezze degli altri?
Sei disposto a rischiare e a comprometterti per difendere chi è più debole?