Trasformare tutto in preghiera
Come pregare sempre - Parte seconda - la pratica - Cap 2
Autore: Padre Rodolphe Plus S.J.
Abbiamo visto come non sia necessario trovarsi sempre nell’atto di preghiera per vivere continuamente nello stato di preghiera.
Ogni azione fatta per Dio sale a Lui come un omaggio: costituisce una «elevazione» del nostro essere verso la suprema maestà divina, il riconoscimento -non sempre esplicito, ma tuttavia reale- della sua sovranità, il gesto filiale della creatura che offre tutto al suo Creatore e Padre.
In pratica, cosa dovrà richiedere da se stesso chi vuole veramente «pregare sempre»? Dovrà dare a ogni sua intenzione il massimo per l’uomo di perfezione soprannaturale. In questo sarà molto avvantaggiato se si sforzerà di fornire a ogni sua azione il massimo per l’uomo di perfezione tecnica.
In altre parole, dovrà purificare l’intenzione dei suoi atti e fare in ogni circostanza «del proprio meglio».
Non si pensa abbastanza ad ammirare la bontà di Dio nei confronti del meccanismo delle intenzioni umane.
Dovremmo veramente preoccuparci, se ci soffermiamo a riflettere sulla povertà cosi ordinaria dei nostri atti abituali e sulla miseria dei nostri risultati effettivi. Durante la giornata la trama delle nostre ventiquattro ore è intessuta solamente di tanti gesti di una banalità sostanziale: otto ore e più nel dormire, una o due per mangiare… e le altre? Anche le opere di coloro che esercitano un’attività «nobile» -come artisti, poeti e scrittori- che valore hanno rispetto a quanto è dovuto a Dio? Tenendo poi presente che il loro tempo è in gran parte impiegato in necessità pratiche -correzioni di bozze, rapporti con editori e impegni simili- assai lontane dalle creazioni artistiche o dalle geniali composizioni. Come costruire cose eterne con opere cosi umili? Le pulizie della casa per una madre di famiglia; la cura della cucina per una domestica; la spiegazione, ripetuta dieci o venti volte, di un brano di Cesare o di Virgilio per un insegnante!
«Io ho i miei desideri!», ha osservato qualcuno. E noi ripetiamo ben volentieri: «Fortunatamente abbiamo le nostre intenzioni». Possiamo infondere un’«anima» nella materia più o meno raffinata o grezza delle nostre azioni quotidiane: e subito, come per l’aggiunta di lievito alla pasta, tutta la materia palpita e cresce, agitata da una fermentazione nascosta. Erano inezie e diventano lodi eloquenti, erano versi inanimati e diventano poesia vivente: più nulla resta vile e insignificante; ogni cosa, rime di poeti o salse di cucina, speculazioni di alta filosofia o travi accatastate nel deposito del carpentiere, tutto può essere penetrato di eterno. Chi ha fatto il miracolo? L’intenzione.
Saremmo veramente sfortunati se Dio giudicasse secondo i nostri atti considerati in se stessi; sarebbero privilegiati solo coloro a cui è concesso compiere grandi imprese.
Il tribunale divino giudicherà secondo i motivi del nostro agire: quale consolazione pensare che una vita semplice e nascosta, ma animata da sublimi intenzioni, sopravanzerà senza paragone una vita degna ed elevata agli occhi del mondo, che pero è accompagnata da intenzioni piccole e vili! Tutto l’uomo è in ciò che vuole: nei suoi pensieri e nel suo cuore, non nel pennello, nella scopa o nella penna che utilizza.
Felice paese l’aldilà, dove i veri valori saranno finalmente ristabiliti, dove balzerà agli occhi di tutti che certi personaggi dai gesti appariscenti non sono invece che palloni gonfiati, mentre l’umile donna indicata un giorno da san Francesco d’Assisi a frate Ginepro sorpasserà in dignità soprannaturale anche tanti mediocri religiosi.
Non basta ammirare la bellezza e l’importanza dell’intenzione; occorre segnalare la difficoltà di riuscire a mantenerla sempre rettamente orientata.
La gran parte dei motivi del nostro agire sono «mescolati». Senza neppur prendere in considerazione le persone in mala fede, esaminiamo il caso ordinario del buon cristiano, dell’anima fervorosa. Senza dubbio cerca Dio, ma non Dio solo: vi aggiunge anche un po’ del suo piccolo capriccio, una minuscola soddisfazione dell’amor proprio, il desiderio di benessere o di vanità.
L’Imitazione di Cristo raccomanda di avere lo sguardo semplice -oculus simplex- cioè un intento esclusivamente soprannaturale, non inquinato o guastato dalla varietà dei motivi umani. Sant’Ignazio propone ai suoi figli il medesimo ideale: «Ut in omnibus quaerant Deum». «Che in tutte le cose cerchino Dio e Dio solo».
Bisogna sempre ritornare su questa raccomandazione di tutti i maestri di vita spirituale.
L’uomo impoverisce tutto ciò che tocca: formato com’è di polvere e di spirito, e ovunque portatore di dualità. Nato dalla mescolanza di due diversi elementi, tende alla mescolanza.
Questa tendenza deve essere tenuta a freno, facendo spesso l’esame di coscienza sui motivi delle nostre azioni e verificando la rettitudine dell’intenzione. Vi sono persone la cui costante preoccupazione è di apparire in buona luce agli occhi degli altri: «Chissà cosa pensano di me, cosa dicono… chissà cosa potrebbero pensare…?!». Il caso è purtroppo frequente. Se sapessimo piuttosto quanto poco, il più delle volte, gli altri badano a noi! o meglio, quanto poco la loro opinione meriti di essere presa in considerazione e di influenzarci! La maggior parte delle persone si lascia guidare da pure ombre. Gettiamo luce, una buona volta, su questi fantasmi: per chi e per che cosa agisco? Per il sorriso di Pietro o di Paolo? Per la presunta approvazione -spesso inesistente- della signora tale o tal altra?… Ma via!
In certi casi, prima di agire, converrà che mediante uno sforzo -anche positivo ed esplicito- ci esercitiamo a eliminare questa mescolanza di motivi, quando esiste, per potere arrivare gradualmente a sopprimerla in ogni circostanza. Meglio ancora se ci abitueremo a operare per quel motivo che ci apparirà più nobile. Se devo lavorare, potrò farlo per varie ragioni: perché é mio dovere, perché é volontà di Dio: é il motivo più perfetto; perché mi assicuro una posizione e una condizione familiare onorevole: é un motivo eccellente, ma di ordine umano e quindi inferiore al precedente che, in sé, era del tutto soprannaturale; oppure potrò agire perché quel lavoro mi mette in mostra, mi da occasione di fare bella figura: motivo, quest’ultimo, gia molto meno nobile.
Non crediamo, tuttavia, di aver tutto perduto se durante l’azione è intervenuta un’intenzione meno pura di quella che ci aveva mossi.
È certo che se l’intenzione è chiaramente cattiva e opposta alla prima, in modo tale da annullarla completamente – attenti alle due condizioni!- il risultato è un’azione malvagia la cui gravità è da valutarsi secondo le norme ordinarie di morale riguardanti il peccato.
Nella maggior parte dei casi, però, la prima intenzione buona mantiene il suo valore: io faccio l’elemosina per pietà, per carità; il motivo secondario che si insinua -il desiderio di essere notato, per esempio- non distrugge del tutto la precedente intenzione, semplicemente la altera un poco, aggiungendo un elemento umano a un’attività che inizialmente era solo soprannaturale. L’atto rimane buono, ma il suo merito è un po’ diminuito dall’intrusione del motivo meno nobile; in queste occasioni conviene ripetere le parole che san Bernardo raccomandava ai suoi monaci: «Non propter te coepi, nec propter te desinam». «Non è per te che ho cominciato, e non sarà per te che finirò».
Un’intenzione pura sarà normalmente accompagnata da opere perfette. Si agisce bene quando si è animati da nobili sentimenti.
Se credessimo alle lamentele che si levano ovunque, le opere ben fatte sarebbero sempre più rare: la serietà professionale viene meno, si lavora sempre peggio e in modo abborracciato. Non vi è più, come un tempo, la preoccupazione di fare «il meglio possibile».
Non è forse vero che l’abitudine di prendere le cose alla leggera è penetrata un po’, dal mondo paganizzante che ci circonda, anche nella vita del cristiano?
Con quale serietà ciascuno di noi opera secondo il proprio stato? Come adempiamo ai nostri lavori quotidiani? Ci impegnamo veramente al meglio delle nostre possibilità? Se non è così, che cosa aspettiamo? Dal momento che abbiamo un Padrone tanto buono che ricompensa ogni più piccola azione, anche quando è imperfetta, ci accontenteremo di offrirgli delle azioni fatte a metà, un mezzo lavoro, un’attività di scarso rendimento?
Spesso desidereremmo una vita diversa da quella che il buon Dio provvidenzialmente ci ha assegnato. La vorremmo piena di altri avvenimenti, di altre attività, di doveri di stato meno monotoni e più brillanti. Non è un segreto: nemo sua sorte contentus, nessuno è contento della propria sorte. Si preferirebbe cambiare con il vicino. Ebbene, Dio non ci chiede di fare altre cose, ci chiede di fare in altro modo; non di cambiare i nostri atti, ma solamente il modo di compierli. Lavare i panni o correggere bozze di stampa, quando appartengono ai doveri di stato, sono tesori che accumuliamo per il cielo; ma molto dipende da come li compiamo. Esistono diverse forme di «sabotaggio». Un buon esame di coscienza ci rivelerà che spesso coltiviamo la brutta abitudine dello sciopero bianco e del sabotaggio a porte chiuse.
I santi non si comportavano certo così, ma facevano bene quello che dovevano fare; è la nozione più elementare e nello stesso tempo più profonda di santità. Alcuni di essi hanno potuto compiere grandi imprese, ma non sono state queste che li hanno resi santi; anzi, hanno meritato di poterle compiere proprio perché sono rimasti abitualmente fedeli nelle piccole cose.
San Giovanni Berchmans è salito all’onore degli altari perché, in una pur breve vita, ha raggiunto la completa perfezione nelle azioni ordinarie. Un tale a cui fu chiesto cosa pensasse delle virtù di padre Chevrier, fondatore del Prado, rispose: «Non so nulla; o meglio, so una cosa sola: tiene sempre chiuse le porte di casa sua». Semplice battuta, ma che la dice lunga, poiché rivela un perfetto autocontrollo e un’assoluta fedeltà alle piccole cose.
Chi non può essere santo in questo modo? Vivere, nella grigia monotonia quotidiana, una vita radiosamente santa perché trascorsa in continua preghiera.
Abbiamo spiegato altrove che il segreto della vita fervorosa consiste nell’avere per ideale: Agire in ogni circostanza come agirebbe nostro Signore, se si trovasse al nostro posto. Abbiamo anche sottolineato che ciò non costituisce una fantasia o un’ipotesi più o meno fittizia; è una realtà. Ognuno di noi, quando è in grazia di Dio, è parte vivente di Cristo; per conseguenza è Cristo stesso nella sua accezione totale che, in noi e per noi, compie ogni nostro atto soprannaturale.
Come eseguirebbe Gesù questo umile dettaglio della mia esistenza? Cosi anch’io devo eseguirlo. E quell’altro?… E quell’altra cosa ancora?…
Un’anima che adottasse questa regola di condotta pratica, non avrebbe più bisogno di cercare altrove una formula di santità: l’avrebbe gia trovata. Nessun’altra può dirsi più rapida ed efficace.