Un apostolo che gode sempre
Meditazione sull' "Apostolato che Dio vuole"
Autore: Diego Zalbidea
Un apostolo che gode sempre
In un mondo pieno di attivismo, san Josemaría ci propone una “logica” sorprendente: in primo luogo, preghiera e mortificazione; soltanto dopo, azione. Così potremo sintonizzarci meglio con l’apostolato che Dio vuole.
Un padre disperato si avvicina a Gesù perché suo figlio è indemoniato. È facile comprendere la sua frustrazione: «Ho detto ai tuoi discepoli di scacciarlo, ma non ci sono riusciti» (Mc 9, 18). È probabile che gli apostoli, in questa conversazione, si siano sentiti confusi è un po’ vergognosi nel constatare la propria inefficacia. In occasioni precedenti erano riusciti a espellere demoni, ma quel giorno la loro esperienza non fu sufficiente. In maniera simile, molte volte nella nostra vita di apostoli non arrivano, apparentemente, i frutti che desideriamo. Quante volte Gesù è costretto a ripeterci il suo rimprovero forte, «O generazione incredula!» (Mc 9, 19), ma, nello stesso tempo, pieno di affetto e di zelo?
Gesù, tuttavia, non si ferma a quella osservazione, ma aggiunge subito dopo: «Se avrete fede pari a un granello di senape […] nulla vi sarà impossibile» (Mt 17, 20). Per ottenere questa capacità, questa fede piccola ma sufficiente, è necessaria una vita basata sulla forza di Cristo. Per far questo c’è una sola strada: «Questa specie di demoni non si può scacciare in alcun modo, se non con la preghiera» (Mc 9, 29). In queste poche frasi si nasconde il modo in cui Dio vuole che collaboriamo al suo desiderio di salvare tutti gli uomini. Gesù non cerca semplicemente di fornire una ricetta per la nostra efficacia, ma ci vuole mostrare un modo diverso di mettere a fuoco la questione; Gesù ci parla di fede e di preghiera. Da quel momento, dal momento in cui compresero questa logica, gli apostoli si sentono capaci di affrontare qualunque problema. Sanno che l’esito della missione non dipende soltanto da loro; sono consapevoli che saranno portatori di quell’amore di Dio che vuole la felicità di ognuno dei suoi figli.
Che cosa vuol dire in primo luogo
Coloro che ebbero la fortuna di partecipare alla canonizzazione di san Josemaría, probabilmente non hanno dimenticato un particolare delicato che ebbe Giovanni Paolo II durante l’omelia. Hanno potuto ascoltare, in quel momento così importante, un punto di Cammino che loro stessi avevano forse meditato molte volte. Con la sua voce solenne il Papa citò: «In primo luogo, orazione; poi, espiazione; in terzo luogo, molto “in terzo luogo”, azione»[1]. In un mondo come il nostro, caratterizzato da un eccesso di attività, questa appare una successione che ci lascia perplessi. Eppure ha un profondo significato. Infatti l’orazione e la mortificazione – preghiera dei sensi – in realtà ci dispongono all’azione di Dio, ci lanciano nella missione di Cristo. Nella logica dell’ordine proposto da san Josemaría palpita la forza dello Spirito Santo, giacché soltanto lui conosce il modo giusto e conveniente di chiedere (cfr. Rm 8, 26).
Se preghiamo ci distacchiamo da quello che facciamo noi, dalle nostre certezze; se preghiamo , ci fidiamo di Cristo, cerchiamo di fare la sua opera; manifestiamo il nostro desiderio di lavorare per lui, con lui e in lui. Non ci importano la stanchezza, le difficoltà, né il successo apparente o l’insuccesso. Se, invece, diamo la priorità all’azione, corriamo il rischio di pensare di essere noi a trasformare i nostri amici. Perché la nostra insicurezza cerca la sicurezza nei risultati. Vogliamo avere la certezza di star facendo bene. Ma in genere questo sguardo è superficiale, di scarsa efficacia; a questo sguardo, probabilmente, manca quel granello di senape del quale Gesù aveva parlato ai suoi discepoli.
La tentazione di metterci al primo posto può farsi presente anche, in modo più subdolo, anche nella nostra orazione. Ciò avviene quando pensiamo che sia necessario convincere Dio di meritare i frutti o di essere all’altezza. Senza volere, a volte concepiamo la nostra preghiera come qualcosa di esclusivamente nostro. Ci mettiamo di fronte a Cristo e non accanto a lui; o, meglio ancora, non ci mettiamo in lui. Non è difficile, allora, considerare la nostra orazione o la nostra azione come una moneta per comprare frutti apostolici. In senso contrario, sant’Agostino spiega che Dio «vuole che, attraverso l’orazione, si accresca la nostra capacità di desiderare, in modo da diventare così più capaci di ricevere i doni che Egli ci prepara. I suoi doni, infatti, sono molto grandi e la nostra capacità di ricevere è piccola e insignificante»[2]. In definitiva, la nostra preghiera ci prepara a desiderare di unirci ai progetti di Cristo, quali che siano.
Può aiutarci a cambiare questa mentalità commerciale nell’orazione un racconto di san Josemaría: «Nel 1940, sulla spiaggia di Valencia, ho potuto osservare che alcuni pescatori – forti, robusti – trascinavano la rete fin sulla sabbia. Un bambino piccolo si era messo tra loro e, nel tentativo di imitarli, tirava anche lui la rete. Era di intralcio agli altri, però notavo che la rudezza di quegli uomini di mare s’inteneriva, e non allontanavano il piccino, lasciandolo nella illusione di aiutare nello sforzo. Vi ho raccontato molte volte questo episodio, perché mi commuove pensare che Dio nostro Signore anche a noi lascia mettere mano nelle sue opere e ci guarda con tenerezza vedendo il nostro impegno per collaborare con Lui»[3].
L’orazione ci aiuta proprio a comprendere il privilegio di questa scelta, la fortuna che ci è toccata di partecipare a questa missione. Cristo vuole che ci sentiamo suoi collaboratori e che, nella nostra piccolezza, lo siamo per davvero. Dal fatto riusciamo a mettere le nostre mani nelle reti di Cristo «dipendono molte cose grandi»[4]. Poi, è lui che farà tutto e, inoltre, ci dà spesso anche il premio: «Neppure abbiamo visto la battaglia, eppure abbiamo ottenuto la vittoria; è stato il Signore a lottare e noi siamo stati incoronati»[5]. Cristo ci dona la capacità di godere della missione, di riservarci la parte migliore, di segnare un punto a nostro favore, anche quando alcune volte, esteriormente, non ne vediamo i frutti. Dio ha promesso che coloro che egli ha scelto «non faticheranno invano» (Is 65, 23) e la sua promessa dovrebbe bastarci.
Perché siano felici
Durante la guerra civile spagnola san Josemaría, poco prima di abbandonare un luogo in cui si era rifugiato, diresse la meditazione a voce alta a coloro che stavano con lui. Li mise a parte di un progetto al quale pensava da un po’ di tempo: aveva in animo di scrivere, appena possibile, un piccolo libro che avrebbe avuto per titolo Trattato della felicità o, semplicemente, Sulla felicità. Allora lesse loro l’inizio che aveva pensato: «Gesù e io vogliamo che tu sia felice, qui e nell’altro mondo»[6]. Anche se questo libro non ha mai visto la luce, questo inizio è già molto importante. La nostra missione di apostoli potrebbe definirsi così: accanto a Gesù, cercare di fare felici gli altri.
Cristo vuole fare di noi i canali della sua grazia, dei suoi miracoli; chiamandoci nella sua barca, ci ha regalato la sete del suo cuore. Tutti noi, grazie al battesimo, abbiamo anima sacerdotale, vale a dire, la capacità di essere mediatori; ci ha inviato per dare frutti e perché i nostri frutti rimangano (cfr. Gv 15, 16). Proprio questo è il significato di godere: percepire o gustare i prodotti e i benefici di qualcosa. Può darsi che alcune volte fissiamo l’attenzione solamente sulle difficoltà. È il momento di pregare, di scoprire che il protagonista è lo Spirito Santo. È il momento dell’orazione e della mortificazione che, anche se possono sembrare poco efficaci, in realtà sono il rimedio ai mali più profondi che affliggono il mondo. Altre volte, invece, vedremo il frutto dei nostri sforzi e avremo una grande voglia di ringraziare. In entrambi i casi Dio vuole che godiamo della nostra missione, che l’assaporiamo, che gustiamo l’amore di Gesù per le anime.
Quando preghiamo ci andiamo riempiendo della pazzia del suo cuore, la stessa che lo ha spinto ad abbassarsi fino a diventare uno come noi; la pazzia che lo ha portato a Betlemme e poi alla croce; la pazzia che lo trattiene ancora oggi nel tabernacolo, per aspettarci. «Lo zelo è una divina pazzia d’apostolo, che io desidero per te, e ha i seguenti sintomi: fame di stare con il Maestro; preoccupazione costante per le anime; perseveranza che nulla fa venir meno»[7]. Pieno di questo fervore, l’apostolo si lancia nella avventura di condividere la sua esperienza, di condividere la felicità di Dio, la felicità di un creatore trascinato dal fragile affetto delle sue creature. È tanto semplice rimanere con lui, perseverare accanto a lui: bastano l’orazione e la mortificazione, una cosa praticabile, alla portata di tutti.
L’apostolato del sognare
Il Papa ci chiede di «sognare grandi cose, cercare orizzonti ampi, osare di più, aver voglia di conquistare il mondo, saper accettare proposte impegnative»[8]. Sognare non costa nulla, ma per farlo è indispensabile ancora una volta dare la priorità alla preghiera. In tal senso la santa Messa può essere il luogo idoneo, in quanto comprende l’immensa possibilità che abbiamo di introdurci nella preghiera, nella donazione e nella gratitudine per Gesù Cristo.
Il beato Álvaro ci ricorda questa grande opportunità, giacché «nella Santa Messa troviamo il rimedio alla nostra debolezza, l’energia in grado di superare tutte le difficoltà dell’attività apostolica. Siatene convinti: per aprire nel mondo solchi di amore di Dio, vivete bene la Santa Messa! Perché il Signore ci mandi vocazioni con divina abbondanza e perché si formino bene, ricorrete al Santo Sacrificio! Importunate continuamente il Padrone della messe, ben uniti alla Santissima Vergine, colmando di richieste la vostra Messa!»[9]. Quando siamo di fronte all’altare del Santo Sacrificio, quello è il momento ideale per sognare, per chiedere senza stancarci. Quando preghiamo con Cristo – ed è ciò che facciamo durante la santa Messa – osiamo lanciare di nuovo la rete nello stesso luogo dove magari in precedenza abbiamo fallito, quando lavoravamo per conto nostro.
Il vero apostolo è concentrato sul suo maestro e il solo fatto di lavorare nella sua vigna, accanto a lui, è già il miglior salario (cfr. Mt 20, 1-16). Per questo, quando invita altri ad unirsi alla sua attività, sicuramente l’apostolo «insiste al momento opportuno e non opportuno» (2 Tm 4, 2), ma lo fa con la creatività dell’amore che suggerisce e apre nuove prospettive. Proprio perché vuole fare felici i suoi amici, non li obbliga. Se un giorno fossimo costretti a insistere, non saremmo opprimenti con gli altri, dato che non faremmo altro che seguire il dolce mandato di Cristo. L’apostolo cerca di ricalcare lo stesso stile di un Dio innamorato ma rispettoso e delicato, contrario a forzare le coscienze; questo stile è quello che più attrae, quello che più spinge.
Anche san Josemaría invitava le persone che gli stavano attorno a sognare in grande perché sapeva che, se lo facessimo, ci accenderemmo, si accenderebbe un fuoco che ci darebbe il coraggio di mettere in gioco i nostri talenti. Perciò sbaglieremmo se contrapponessimo orazione e azione. Sarebbe ugualmente erroneo pensare che tutto dipenda dall’azione, dall’accontentarci di una preghiera incapace di spingerci a fare l’impossibile per avvicinare un’anima a Gesù. Forse quest’ultimo caso certe volte può essere più difficile perché conosciamo bene le nostre resistenze e la nostra tendenza alla comodità. Tuttavia il nostro lavoro di apostoli, anche quando ci sentiamo «servi inutili», dà sempre frutto (cfr. Lc 17, 10).
I frutti, dunque, non si comprano. Non soltanto valgono molto più di quello di cui potremmo mai disporre, ma non sono neppure in vendita: sono gratuiti, e Dio li concede quando vuole e come vuole, perché «il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno prima ancora che glieli chiediate» (Mt 6, 8). Potremmo dire che i frutti si sognano. In tal senso, il frutto principale dell’orazione e della mortificazione rimane in noi. La relazione con Gesù che può nascere da questo abbandono in lui ci libera dalla tentazione di pensare che tutto dipenda da noi.
Anime coraggiose
Può succedere che, con maggiore frequenza di quanto immaginiamo, viviamo la nostra missione secondo una prospettiva che tiene poco conto dei tempi e dei modi di Dio. Questo ci può succedere, per esempio, quando l’apparente mancanza di frutti ci toglie la pace o ci rattrista. Forse si manifesterà nella poca audacia nell’intraprendere nuove iniziative oppure quando ci affezioniamo ad alcuni modi di fare che ci danno sicurezza. Non è difficile che, allora, sorga in noi la tendenza a rimproverare agli altri la loro mancanza di impegno o a giudicare interiormente. Però questi atteggiamenti non sono propri di un apostolo perché non sono gli atteggiamenti che ebbe Cristo. Al contrario, dice santa Teresa, «conviene molto non ridurre i desideri, perché Sua Maestà è amico delle anime coraggiose»[10]. Il vero apostolo lo è venticinque ore al giorno. Ha compreso la sua missione sino in fondo e sa da dove proviene l’efficacia. Sa che Dio conta sulla sua libertà e che, nello stesso tempo, tutto dipende dalla grazia, che è un mistero. Sogna intorno a ciò che l’amore di Dio può fare nel mondo e fa tutto il possibile per farlo presente tra le persone che frequenta.
San Josemaría, dopo aver parlato del titolo del libro che voleva scrivere, riferiva circa le linee generali del suo nascente progetto: «Non con uno stile pedante, né con il tono pretenzioso di chi vuole scrivere massime, ma con un linguaggio affettuoso, familiare, annoterei tre o quattro idee, che suonino come confidenze all’orecchio»[11]. Questa è la nostra missione: aiutare Cristo a smuovere e riscaldare i cuori. E questo richiede, più che mai, un clima di affetto, di vicinanza e, in una parola, di amicizia.
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Con l’orazione e con la mortificazione evitiamo di fare soltanto la nostra missione e, invece, la associamo a quella di Cristo. Comprendiamo, infine, il suo modo di salvare il suo straordinario rispetto della libertà, il suo modo di invitare e la sua pazienza nell’aspettare. Gesù ci libera da noi stessi per renderci fecondi, felici, in grado di godere della sua missione. Possiamo ricorrere alla regina degli apostoli, maestra di orazione, affinché ci aiuti a godere di questa immensa gioia: «Guarda come prega suo Figlio, a Cana. E come insiste, senza perdersi d’animo, con perseveranza. E come ottiene»[12].
Diego Zalbidea
[1] San Josemaría, Cammino, n. 82.
[2] Sant’Agostino, Lettera 130.
[3] San Josemaría, Lettera 29-IX-1957, n. 65.
[4] San Josemaría, Cammino, n. 755.
[5] San Giovanni Crisostomo, Sul cimitero e la croce, 2: PG 49, 396.
[6] San Josemaría, Crescere al di dentro, p. 273.
[7] San Josemaría, Cammino, n. 934.
[8] Papa Francesco, es. ap. Christus vivit, n . 15.
[9] Beato Álvaro, Lettera 1-IV-1986.
[10] Santa Teresa di Gesù, Vita, 13, 2-3.
[11] San Josemaría, Crescere al di dentro, p. 273.
[12] San Josemaría, Cammino, n. 502.
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