Un impegno sereno
Le opere di misericordia spirituale
Autore: Don Carlos Ayxelà
Un impegno sereno: le opere di misericordia spirituale
Le opere di misericordia spirituale riguardano la fame e la sete, la nudità e l’abbandono, la malattia e la prigionia che il cuore umano sperimenta in tante forme diverse.
La Chiesa ha la saggezza di una madre buona che sa ciò di cui hanno bisogno i propri figli perché crescano sani e forti, nel corpo e nello spirito. Con le opere di misericordia ci invita a scoprire continuamente che il corpo e l’anima degli uomini nostri fratelli hanno bisogno di essere curati e che Dio affida a ognuno di noi questa attenta vigilanza. «L’oggetto della misericordia è la vita umana stessa nella sua totalità. La nostra vita stessa in quanto “carne” è affamata e assetata, bisognosa di vestito, di casa, di visite, come pure di una sepoltura degna, cosa che nessuno può dare a sé stesso […]. La nostra vita stessa, in quanto “spirito”, ha bisogno di essere educata, corretta, incoraggiata, consolata […]. Abbiamo bisogno che altri ci consiglino, ci perdonino, ci sostengano e preghino per noi»[1].
Qui ci soffermiamo a considerare le opere spirituali, che riguardano la fame e la sete, la nudità e l’abbandono, la malattia e la prigionia che il cuore umano sperimenta in tante forme diverse di povertà spirituale che affliggono tutti noi e che, se siamo attenti, scopriamo anche attorno a noi[2]. Pur con il peso che portiamo sulle nostre spalle, Dio si aspetta che il nostro cuore si commuova come il suo, che non resti insensibile alle necessità degli altri. «In mezzo a tanto egoismo, a tanta indifferenza – ognuno ai fatti suoi! –, ricordo quei somarelli di legno, forti, robusti, che trottavano su un tavolo… – Uno aveva perso una zampa. Ma andava avanti, perché si appoggiava agli altri»[3].
La misericordia di tutti i giorni
Una volta san Josemaría ha ricordato la sua gioiosa esperienza di generosità cristiana, confermata nel corso degli anni: «Conosco migliaia di casi di studenti […] che hanno rinunciato a costruirsi il loro piccolo mondo privato, dandosi agli altri mediante un lavoro professionale che si sforzano di realizzare con perfezione umana, in attività di istruzione, di assistenza, di promozione sociale e così via, con uno spirito pieno di gioventù e di gioia»[4]. Dove ci sono cristiani che si riconoscono «come marcati a fuoco da tale missione di illuminare, benedire, vivificare, sollevare, guarire, liberare», lì troviamo «l’infermiera nell’animo, il maestro nell’animo, il politico nell’animo, quelli che hanno deciso nel profondo di essere con gli altri e per gli altri. Tuttavia, se uno divide da una parte il suo dovere e dall’altra la propria vita privata, tutto diventa grigio e andrà continuamente cercando riconoscimenti o difendendo le proprie esigenze»[5]. «Essendo tutti uomini, e figli di Dio, non possiamo concepire la nostra vita come l’affannosa realizzazione di un brillante curriculum, di una luminosa carriera»[6]. È naturale che ci entusiasmiamo davanti agli orizzonti che ci si aprono nel nostro lavoro; ma tale entusiasmo, se non vuole essere delirio – «vanità delle vanità» (Qo 1, 2) –, deve essere ispirato dalla passione di illuminare le intelligenze, di pacificare le tensioni, di confortare i cuori.
Tutti noi, in un modo o in un altro, abbiamo influenza nella cultura e nell’opinione pubblica: non soltanto gli scrittori, i professori o gli esperti della comunicazione. Ognuno a suo modo può fare molto per «insegnare agli ignoranti», «consigliare i dubbiosi» e «correggere chi sbaglia»: a tutti coloro che sono vittima, anche senza saperlo, della superficialità o delle ideologie; a coloro che hanno sete di sapere, di bere alla fonte della sapienza umana e divina; a coloro che non conoscono Cristo, «non hanno visto la bellezza del suo volto, ignorano le meraviglie della sua dottrina»[7]. L’impegno a pensare con fede, in modo che si percepisca lo splendore della verità; la disponibilità a complicarsi la vita organizzando incontri di formazione nei contesti più diversi; l’aspirazione a dare una forma cristiana alla propria professione, purificandola da ogni abuso e ampliandone gli orizzonti; l’interesse degli insegnanti a far crescere i propri alunni; l’iniziativa di orientare con la nostra esperienza coloro che cercano di farsi strada nel mondo professionale; la disponibilità ad aiutare o consigliare i colleghi nelle loro difficoltà; il sostegno ai giovani che non si decidono a formare una famiglia a causa della precarietà delle condizioni di lavoro; la nobiltà e il coraggio di «correggere chi sbaglia»… Queste e altre disposizioni che vanno ben oltre le etiche minimaliste, danno forma alla misericordia ordinaria che Dio chiede ai cristiani della strada.
Anche se conviene indubbiamente dar vita a progetti laddove abbiamo la possibilità di dare una mano, il terreno abituale della misericordia è un lavoro quotidiano sorretto dalla passione di aiutare: che altro posso fare? Chi posso coinvolgere ancora? Tutto questo è misericordia in azione, senza orari, senza calcoli: «una misericordia dinamica, non come un sostantivo cosificato e definito, né come aggettivo che decora un po’ la vita, ma come verbo – “misericordiare” ed “essere misericordiato”»[8].
Coprire la debolezza dell’altro
Questo binomio – misericordiare ed essere misericordiato – riecheggia la beatitudine più specifica di quest’anno giubilare: «beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia» (Mt 5, 7): in essi si farà strada la misericordia, perché, nel darla, la riceveranno dall’alto. Il genio di Shakespeare lo sintetizzò così: «La misericordia non è un obbligo. Scende dal cielo come il refrigerio della pioggia sulla terra. È una doppia benedizione: benedice chi la dà e chi la riceve»[9].
Ai misericordiosi, dunque, il Signore non promette soltanto clemenza e comprensione alla fine dei loro giorni, ma anche una misura generosa di doni – il cento per uno (Mt 19, 29) – già in questa vita: il misericordioso avverte più intensamente che Dio lo perdona e lo comprende; si rallegra a sua volta perdonando e comprendendo, anche quando ciò è difficile; e prova anche la gioia di vedere come la misericordia di Dio si contagia, attraverso di lui, agli altri: «perché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini» (1 Cor 1, 25). Quando affoghiamo il male con l’abbondanza di bene; quando evitiamo che la durezza degli altri indurisca il nostro cuore, e non rispondiamo alla freddezza con maggiore freddezza; quando ci rifiutiamo di scaricare su chi ci sta attorno le nostre difficoltà; quando ci sforziamo di superare la nostra suscettibilità e il nostro amor proprio, allora ingaggiamo «le battaglie di Dio […]. Non c’è altro rimedio che assumersi con impegno questa bellissima guerra d’amore, se veramente vogliamo ottenere la pace interiore e la serenità di Dio per la Chiesa e per le anime»[10].
Un’altra opera di misericordia spirituale consiste nel «sopportare pazientemente le persone moleste». Non si tratta soltanto di non sottolineare i difetti dell’altro, di non puntare il dito contro di lui: la misericordia copre le debolezze dell’altro, come fecero i figli di Noè[11], anche se nel coprirlo notiamo l’olezzo dei suoi difetti. Una misericordia a distanza non sarebbe misericordia. Di solito «l’odore delle pecore»[12] – perché nella Chiesa tutti siamo «pecora e pastore»[13] – non è gradevole, ma esporsi a esso è una mortificazione che, compiuta senza esibizione, senza che si noti, ha un profumo molto gradito a Dio: il bonus odor Christi[14]. «Quando digiuni, profumati la testa e lavati il volto, perché la gente non veda che tu digiuni, ma solo tuo Padre che è nel segreto» (Mt 6, 17-18).
La misericordia ribalta la facile tendenza a essere esigenti con gli altri e indulgenti con se stessi. Allora scopriamo spesso che ciò che ci sembrava un difetto era semplicemente una etichetta che avevamo messo all’altro, magari per un episodio isolato, o per una impressione alla quale avevamo dato troppa importanza; un «giudizio sommario» che si era cristallizzato e che ci impediva di vederlo così come egli è, perché percepivamo soltanto quel volto negativo, quel tratto gonfiato dal nostro amor proprio. La misericordia di Dio ci aiuta a evitare e, in certi casi, a pronunciare giudizi severi, dei quali a volte non siamo troppo consapevoli. Anche in questi casi vale la saggia sentenza di Tertulliano, secondo la quale «smettono di odiare coloro che smettono di ignorare – desinunt odisse qui desinunt ignorare»[15]. Una esigenza della misericordia ordinaria, dunque, è conoscere meglio coloro che vivono con noi, evitando di etichettarli: padri, figli, fratelli; vicini di casa, colleghi… Inoltre, quando siamo comprensivi con una persona, quando non la trattiamo in modo negativo, l’aiutiamo a crescere; invece, se ci fissiamo sulle sue inefficienze, produciamo una tensione, un irrigidimento che difficilmente aiutano a mettere in evidenza il meglio di ciascuno. Ogni nostra relazione con gli altri, specialmente in famiglia, deve essere «un “pascolo” misericordioso»: senza paternalismi; «ognuno, con cura, dipinge e scrive nella vita dell’altro»[16].
Occorre misericordia anche per accettare senza risentimenti la durezza con la quale gli altri a volte ci trattano. Non è facile amare quando si ricevono pedate o soltanto indifferenza, però «se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani?» (Mt 5, 47). Un cristiano non si caratterizza soltanto per essere comprensivo, ma anche per essere disposto alla riconciliazione quando ci si sbaglia o quando ci trattano con indifferenza. La disposizione sincera a «perdonare le offese» è l’unico modo per mettere fine alla spirale di incomprensioni che vediamo prendere corpo attorno a noi e che, quasi sempre, sono segno di poca conoscenza reciproca. Non è questo un atteggiamento idealista da ingenui che non stanno a contatto con la meschinità o con il cinismo, ma «potenza di Dio» (1 Cor 1, 18): una brezza delicata, capace di demolire le strutture più imponenti.
Inviati a consolare
«Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione, il quale ci consola in ogni nostra tribolazione perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in qualsiasi genere di afflizione con la consolazione con cui siamo consolati noi stessi da Dio» (2 Cor 1, 3-4). Il cristiano soffre come gli altri uomini; a volte soffre di più per le incomprensioni o per le difficoltà che gli crea la sua fedeltà a Dio[17]; però nello stesso tempo le sofferenze diventano per lui più leggere, perché ha la consolazione di suo Padre: «Questa è la tua sicurezza, il fondale in cui gettare l’àncora, succeda quel che succeda alla superficie del mare della vita. E troverai gioia, fortezza, ottimismo, vittoria!»[18]. La consolazione che Dio ci dà ci rende capaci di consolare, ci invia nel mondo a consolare, perché «la nostra tristezza infinita si cura soltanto con un infinito amore»[19].
Per «consolare chi è triste» è indispensabile imparare a leggere le necessità degli altri. Vi sono persone che appaiono tristi perché sentono «l’amarezza dovuta alla solitudine o alla indifferenza»[20]; altre perché sono sottoposte a una grande tensione e hanno bisogno di riposare: si tratterà di far loro compagnia e, a volte, di insegnare loro come ci si riposa, perché non hanno mai appreso quest’arte. Un buon figlio di Dio si sforza di emulare l’attività discreta del vero Consolatore, «nella fatica riposo, nella calura riparo, nel pianto conforto»[21]: occuparsi degli altri senza far loro notare che stiamo dedicando loro del tempo, senza che abbiano l’impressione che stimo concedendo udienza o che li stiamo dirigendo. «Stiamo parlando di un atteggiamento del cuore, che vive tutto con serena attenzione, che sa rimanere pienamente presente davanti a qualcuno senza stare a pensare a ciò che viene dopo, che si consegna ad ogni momento come dono divino da vivere in pienezza»[22]. Un figlio di Dio attraversa l’esistenza con la profonda convinzione che «ogni persona è degna della nostra dedizione»[23]: il sorriso, la disposizione ad aiutare, l’autentico interesse per gli altri, anche per quelli che neppure conosciamo, possono cambiare loro la giornata e certe volte la vita.
Con tutti, conosciuti e sconosciuti, la nostra misericordia troverà «un fiume ampio, calmo e sicuro»[24] nella preghiera: «Intercedere, chiedere in favore di un altro, dopo Abramo, è la prerogativa di un cuore in sintonia con la misericordia di Dio»[25]. Perciò la Chiesa ci incoraggia a «pregare Dio per i vivi e per i morti». Una delle nostre gioie in cielo sarà scoprire quanto bene ha fatto a tante persone una brevissima preghiera in mezzo alla confusione del traffico o del trasporto pubblico, a volte forse come risposta misericordiosa a un gesto poco amabile; la speranza che Dio ha ispirato, per nostra tramite, a coloro che soffrivano per un qualunque motivo; la consolazione che hanno ricevuto i vivi e i morti dal nostro ricordo – memento – nella Santa Messa, inseriti nella preghiera di Gesù al Padre, nello Spirito Santo.
Termina così questo breve percorso attraverso le opere di misericordia, che in realtà sono «infinite, ciascuna con la sua impronta personale, con la storia di ogni volto. Non sono soltanto le sette corporali e le sette spirituali in generale. O piuttosto, queste, così numerate, sono come le materie prime – quelle della vita stessa – che, quando le mani della misericordia le toccano o le modellano, si trasformano, ciascuna di esse, in un’opera artigianale. Un’opera che si moltiplica come il pane nelle ceste, che cresce a dismisura come il seme di senape»[26].
Carlos Ayxelá
[1] Papa Francesco, 3ª meditazione durante il Giubileo dei sacerdoti, 2-VI-2016.
[2] Il Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica le enumera così: insegnare agli ignoranti, consigliare i dubbiosi, ammonire i peccatori, consolare gli afflitti, perdonare le offese, sopportare pazientemente le persone moleste, pregare Dio per i vivi e per i morti.
[3] San Josemaría, Forgia, 563.
[4] San Josemaría, Colloqui, 75.
[5] Papa Francesco, Es. ap. Evangelii gaudium, 24-XI-2013, 273.
[6] San Josemaría, Amici di Dio, 76.
[7] San Josemaría, È Gesù che passa, 179.
[8] Papa Francesco, 1ª meditazione durante il Giubileo dei sacerdoti, 2-VI-2016.
[9] W. Shakespeare, Il mercante di Venezia, Atto IV, Scena I. Cfr. Papa Francesco, Messaggio per la 50ª Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, 24-I-2016.
[10] San Josemaría, Appunti presi durante una meditazione, II-1972, citato in Es Cristo que pasa, Ediciόn crítico-histόrica preparada por Antonio Aranda, Rialp 2013, 8d.
[11] Cfr. Gn 9, 22-23.
[12] Papa Francesco, Omelia, 28-III-2013.
[13] Cfr. Javier Echevarría, Lettera pastorale, 1-VIII-2007.
[14] Cfr. 2 Cor 2, 15.
[15] Tertulliano, Ad Nationes, 1, 1. Anche sant’Agostino tratta la questione ne In Evangelium Ioannis Tractatus, 89 e 90.
[16] Papa Francesco, Es. ap. Amoris Laetitia, 19-III-2016, 322.
[17] I salmi fanno eco spesso a questa difficoltà del credente. Cfr., per es., Sal 42 (41), 10-12; 44 (43), 10-26; 73 (72).
[18] San Josemaría, Via Crucis, VII stazione, 2.
[19] Papa Francesco, Es. ap. Evangelii gaudium, 24-XI-2013, 265.
[20] San Josemaría, Discorso al Centro ELIS in occasione della sua inaugurazione, 21-XI-1965 (in L’Osservatore Romano, 22/23-XI-1965).
[21] Messale Romano, Pentecoste, Sequenza Veni, Sancte Spiritus.
[22] Papa Francesco, Enc. Laudato si’, 24-V-2015, 226.
[23] Papa Francesco, Es. ap. Evangelii gaudium, 24-XI-2013, 274.
[24] San Josemaría, Amici di Dio, 306.
[25]Catechismo della Chiesa Cattolica, 2635.
[26] Papa Francesco, 3ª meditazione durante il Giubileo dei sacerdoti, 2-VI-2016. Cfr. Mt 13, 31-32; 14, 19-20.
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