Vado di fretta! La felicità e la capacità di fermarsi
Meditazione per la Quindicesima domenica del T.O. anno C
Autore: Gaetano Piccolo
«Ci caricò sul suo giumento, cioè ci prese nella sua carne;
ci condusse all’ospizio, cioè alla Chiesa;
ci affidò all’albergatore, cioè ai suoi inviati;
e perché fossimo curati tirò fuori due denari,
cioè i due precetti della carità:
la carità di Dio e quella del prossimo».
Sant’Agostino, Esposizione sul Salmo 125, 15
Cambiare sguardo
Sarà anche a fin di bene, ma la maggior parte delle volte il nostro sguardo è rivolto solo su di noi, sulle nostre prestazioni, sul nostro efficientismo, sulla nostra immagine da mostrare. Persino sul piano morale diventa centrale la correttezza del nostro comportamento, come se la nostra felicità dipendesse da questa capacità di non sbagliare mai. E così anche la vita spirituale si trasforma in un’autocommiserazione o in un’autopromozione dei propri trofei davanti a Dio.
Purtroppo, il tempo ci dirà che una vita passata a guardare se stessi, anche con l’obiettivo di migliorare e raggiungere traguardi etici e spirituali sempre più esigenti, non comporta necessariamente una vita felice. La vita diventa piena quando siamo capaci di cambiare il nostro sguardo o, come ci insegna il testo del Vangelo di Luca, di cambiare la domanda.
Domande false e domande vere
A volte persino le domande che rivolgiamo a Dio nella nostra preghiera non sono autentiche, rischiano di essere superficiali, domande di facciata che non esprimono quello che ci portiamo veramente nel cuore.
Che senso ha per un esperto della Legge porre una domanda sulla Legge? Luca dice esplicitamente che si tratta di un modo per mettere alla prova Gesù, come facciamo a volte anche noi quando chiediamo qualcosa a Dio solo per mettere alla prova la sua bontà o la sua potenza, rimanendo puntualmente delusi. Eppure quella domanda svela qualcosa di quest’uomo: è un uomo che parla di doveri e di eredità. Usa termini giuridici, pensando di racchiudere l’eternità della vita nella correttezza di un comportamento. Come se la felicità fosse la conseguenza di quella correttezza.
Inizi di un cambiamento
Gesù non perde molto tempo con chi ragiona in questi termini. Sembra quasi che stia passando oltre, quando viene tirato indietro da un’altra domanda di quell’uomo, una domanda che finalmente rivela quello che si porta nel cuore e crea le condizioni per cominciare a guardare le cose da un altro punto di vista: chi è il mio prossimo? Chi è vicino a me?
Qui il riferimento sono ancora io. Si tratta ancora di una persona che pretende che il mondo giri attorno a lui, nell’illusione di essere il centro dell’universo, come un bambino che vede solo i suoi bisogni, che misura tutto a partire da se stesso.
Questo però è il varco che permette a Gesù di entrare nella sua vita e di aiutarlo a cambiare sguardo. Gesù gli racconta una storia nella quale si può rivedere, ma soprattutto una storia alla fine della quale la sua domanda troverà una formulazione nuova: chi è stato prossimo? Questa è la domanda dell’adulto che non aspetta che qualcuno si accorga di lui, ma prende l’iniziativa, fa il primo passo, si accorge del bisogno dell’altro e se ne prende cura. Questa è la domanda che porta alla felicità.
Vulnerabili nostro malgrado
Questa storia racconta di un viaggio, che è in qualche modo immagine della vita. Quel viaggio nel quale incrociamo la vita degli altri, ma ci capita anche di farci male e di essere feriti, perché questo viaggio parla della nostra vulnerabilità, di quella debolezza che ci accomuna tutti, perché prima o poi tutti facciamo l’esperienza di essere feriti e di ritrovarci mezzi morti.
C’è un uomo infatti che sta scendendo da Gerusalemme a Gerico. Scendere sembra qui uno sprofondare negli inferi della sofferenza, del dolore e del tradimento. È semplicemente un uomo, di lui non si dice nulla. Ciascuno di noi potrebbe essere quell’uomo. Non parla, non dice nulla, non sappiamo di dove sia, a quale popolo appartenga. È semplicemente un uomo, come ciascuno di noi. Un uomo ferito e questo dovrebbe bastare, senza altre motivazioni, per indurci a fermarci e a prenderci cura di lui.
Culto e compassione
Invece, per quella stessa strada scendono un sacerdote e un levita. Questa direzione del viaggio è forse un’allusione al fatto che avevano terminato da poco il loro turno di servizio nel Tempio di Gerusalemme e stanno ritornando a casa. Vedono, ma non si fermano, perché il culto non implica automaticamente la compassione. Si può passare tanto tempo nella casa di Dio e non aprire gli occhi sulle ferite degli altri.
Per quella stessa strada, passa anche un samaritano. Sono gli incroci della vita. Nel suo caso, si tratta di un viaggio che non ha il carattere della liturgia e della religiosità. Eppure si ferma, perché avere compassione davanti alle ferite di un altro è questione di umanità, non di culto o religione. Si ferma davanti a un uomo anonimo, come per dire che non c’è una motivazione speciale per interrompere il suo viaggio.
Compassione concreta
La compassione poi è fatta di gesti concreti, non rimane uno sguardo, un sentimento, un’idea romantica. Questo samaritano compie delle azioni: si fa vicino, fascia le ferite, versa olio e vino, ne porta il peso trasportandolo in un albergo, se ne prende cura.
Non solo. Il suo sguardo pensa anche al futuro. Si impegna a tornare ed eventualmente a completare la sua opera. Per il momento lascia due denari, più o meno due giornate di lavoro, né tanto né poco, ma quanto serve in quel momento. Prendersi cura delle ferite dell’altro non chiede gesti straordinari, ma l’onestà di riconoscere quello che serve oggi.
Quell’uomo sono io
Se il dottore della legge che è in ciascuno di noi desidera trovare la vita piena, deve allora cambiare il suo sguardo, deve imparare dal samaritano, che ha preso l’iniziativa, lasciandosi muovere dalla compassione. Quando saremo capaci anche noi di uscire da noi stessi e dal ripiegamento sui nostri bisogni? Forse solo quando ci saremo accorti che un giorno anche noi ci siamo ritrovati mezzi morti sulla strada e un Samaritano, Gesù, ha avuto compassione di noi e si è preso cura delle nostre ferite. Non si diventa samaritani senza la consapevolezza di essere vulnerabili, persone ferite a cui tante volte è stata ridata la vita.
Sì, Gesù è il Samaritano, colui che versa olio e vino sulle nostre ferite, segni messianici preannunciati dai profeti, colui che tornerà e porterà a compimento l’opera che già ha iniziato in nostro favore.
Leggersi dentro
Qual è la domanda che oggi ti sta a cuore?
Cosa ti spinge a non fermarti o a fermarti davanti alle ferite dell’altro?