Annunciare la Parola - Lo Spirito Santo, principale agente dell'evangelizzazione
Terza predica di Quaresima
Autore: Cardinale Raniero Cantalamessa
Continuiamo e terminiamo oggi le nostre riflessioni sulla costituzione Dei Verbum, cioè sulla Parola di Dio. L’ultima volta ho parlato della “lectio divina”, cioè della lettura personale ed edificante della Scrittura. Seguendo lo schema tracciato da san Giacomo, abbiamo distinto in essa tre operazioni successive: accogliere la Parola, meditare la Parola, mettere in pratica la Parola.
Rimane una quarta operazione da fare, sulla quale vogliamo riflettere oggi: annunciare la Parola. La Dei Verbum parla brevemente del posto privilegiato che deve avere la Parola di Dio nella predicazione della Chiesa (DV, nr. 24), ma non si occupa direttamente dell’annuncio, anche perché a questo argomento il Concilio dedica un documento a parte, l’Ad gentes divinitus, sull’attività missionaria della Chiesa.
Dopo questo testo conciliare, il discorso è stato ripreso e aggiornato dal Beato Paolo VI con la Evangelii nuntiandi, da san Giovanni Paolo II, con la Redemptoris missio, e da papa Francesco con la Evangelii gaudium. Dal punto di vista dottrinale e operativo tutto, dunque, è stato detto, e al più alto livello del magistero. Sarebbe sciocco da parte mia pensare di potervi aggiungere qualcosa. Quello che è possibile fare, in accordo con il taglio dato a queste meditazioni, è mettere in luce qualche aspetto più direttamente spirituale del problema. Per farlo, parto dalla frase spesso ripetuta del Beato Paolo VI secondo cui “lo Spirito Santo è il principale agente dell’evangelizzazione” .
1. Il mezzo e il messaggio
Se io voglio diffondere una notizia, il primo problema che mi si pone è: con quale mezzo trasmetterla: via stampa? via radio? via televisione? Il mezzo è così importante che la moderna scienza delle comunicazioni sociali ha coniato lo slogan:”Il mezzo è il messaggio” (“The medium is the message”) Ora, qual è il mezzo primordiale e naturale con cui si trasmette la parola? E’ il fiato, il soffio, la voce. Esso prende, per così dire, la parola che si è formata nel segreto della mia mente e la porta all’orecchio dell’ascoltatore. Tutti gli altri mezzi non fanno che potenziare e amplificare questo mezzo primordiale del fiato o della voce. Anche la scrittura viene dopo e suppone la viva voce, giacché le lettere dell’alfabeto non sono che segni indicanti dei suoni.
Anche la Parola di Dio segue questa legge. Essa si trasmette per mezzo di un soffio. E qual è, o chi è, il soffio, o la ruah, di Dio, secondo la Bibbia? Lo sappiamo: è lo Spirito Santo! Può il mio fiato animare la parola di un altro, o il fiato di un altro animare la mia parola? No, la mia parola non può essere pronunciata che con il mio fiato e la parola di un altro con il suo fiato. Così, in modo analogo s’intende, la Parola di Dio non può essere animata che dal soffio di Dio che è lo Spirito Santo.
Questa è una verità semplicissima e quasi ovvia, ma di immensa portata. E’ la legge fondamentale di ogni annuncio e di ogni evangelizzazione. Le notizie umane si trasmettono o a viva voce, o via radio, stampa, internet e via dicendo; la notizia divina, in quanto divina, si trasmette via Spirito Santo. Lo Spirito Santo ne è il vero, essenziale mezzo di comunicazione, senza del quale non si percepisce, del messaggio, che il rivestimento umano. Le parole di Dio sono ” Spirito e vita” (cf. Gv 6,63) e non si possono perciò trasmettere o accogliere che “nello Spirito”.
Questa legge fondamentale è quella che vediamo in atto, concretamente, nella storia della salvezza. Gesù cominciò a predicare “con la potenza dello Spirito Santo (Lc 4,14 ss.). Egli stesso dichiarò: “Lo Spirito del Signore è su di me…Mi ha consacrato con l’unzione, per portare ai poveri un lieto messaggio” (Lc 4,18). Apparendo agli apostoli nel cenacolo la sera di Pasqua, egli disse: “Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi. Detto questo, alitò su di loro e disse: Ricevete lo Spirito Santo” (Gv 20, 21-22). Nel conferire agli apostoli il mandato di andare in tutto il mondo, Gesù conferì loro anche il mezzo per poterlo compiere -lo Spirito Santo- e lo conferì, significativamente, nel segno del soffio, dell’alito.
Secondo Marco e Matteo, l’ultima parola che Gesú disse agli apostoli prima di salire al cielo fu “Andate!”: “Andate in tutto il mondo, predicate il Vangelo a ogni creatura” (Mc 16,15; Mt 28, 19). Secondo Luca, il comando finale di Gesú sembra l’opposto: Restate! Rimanete!: “Restate in città finché non siate rivestiti di potenza dall’alto” (Lc 24, 49). Naturalmente, non c’è alcuna contraddizione; il senso è: andate in tutto il mondo, ma non prima di aver ricevuto lo Spirito Santo.
Tutto il racconto della Pentecoste serve a mettere in luce questa verità. Viene lo Spirito Santo ed ecco che Pietro e gli altri apostoli, a voce alta, cominciano a parlare di Cristo crocifisso e risorto e la loro parola ha una tale unzione e potenza che tremila persone si sentono trafiggere il cuore. Lo Spirito Santo, venuto sugli apostoli, si trasforma in essi in un irresistibile impulso a evangelizzare.
San Paolo arriva ad affermare che senza lo Spirito Santo è impossibile proclamare che “Gesù è il Signore!” (1 Cor 12, 3), che è l’inizio e la sintesi di ogni annuncio cristiano. San Pietro, dal canto suo, definisce gli apostoli “coloro che hanno annunciato il Vangelo nello Spirito Santo” (1 Pt 1,12). Indica con la parola “Vangelo” il contenuto e con l’espressione “nello Spirito Santo” il mezzo, o il metodo, dell’annuncio.
2. Parole e opere
La prima cosa da evitare quando si parla di evangelizzazione è quella di pensare che essa sia sinonimo di predicazione e quindi riservata a una categoria particolare di cristiani. Parlando della natura della rivelazione la Dei Verbum dice:
“L’economia della Rivelazione comprende eventi e parole intimamente connessi, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole, mentre le parole proclamano le opere e illustrano il mistero in esse contenuto” .
Si tratta di una affermazione che risale a san Gregorio Magno. “Il nostro Signore e Salvatore, scriveva il santo dottore, a volte ci ammonisce con quello che dice, a volte invece con quello che fa”: “aliquando nos sermonibus, aliquando vero operibus admonet”. Questa legge che vale per la Rivelazione nel suo nascere, vale anche per il suo diffondersi. In altre parole, non si evangelizza soltanto con le parole, ma prima ancora con le opere e la vita; non con quello che si dice, ma con quello che si fa e che si è.
Marshall Mc Luhan una volta ha spiegato il suo famoso slogan “il mezzo è il messaggio” in modo per noi illuminante. Dice che soltanto in Gesú Cristo “non c’è differenza alcuna tra il mezzo e il messaggio; in realtà il suo è l’unico caso in cui si può dire che il mezzo e il messaggio sono perfettamente identici” . In altre parole, in Cristo il rivelatore è anche la rivelazione. Ora, è vero che una identificazione così totale esiste soltanto in Cristo, ma in senso derivato essa dovrebbe realizzarsi anche in colui che predica il Vangelo. Se egli ha consegnato totalmente la sua vita a Cristo, se può dire con san Paolo: “Non sono più io che vivo, Cristo vive in me” (Gal 2,20), allora anche di lui si può dire che “il mezzo è il messaggio”, che la sua vita è il suo annuncio.
C’è un detto in inglese che acquista un significato tutto particolare applicato all’evangelizzazione: “I fatti parlano più forte delle parole”: “Deeds speak louder than words”. Una frase, anch’essa spesso ripetuta, di Paolo VI nella Evangelii nuntiandi dice: “L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni” .
Uno dei più noti filosofi moralisti del secolo scorso (non occorre farne il nome) una sera fu sorpreso in un locale con una compagnia poco edificante. Un collega gli chiese come poteva conciliare la sua condotta con quello che scriveva nei suoi libri; lui rispose tranquillamente: “Avete mai visto un segnale stradale che si mette a camminare nella direzione che indica?”. Una risposta brillante, ma che si condanna da sé. Gli uomini non sanno che farsene di “indicatori stradali” che indicano la direzione da prendere, ma loro non si spostano di un centimetro.
Io ho un bell’esempio dell’efficacia della testimonianza, nell’ordine religioso stesso cui appartengo. Il contributo maggiore, anche se nascosto, che l’ordine dei Cappuccini ha dato all’evangelizzazione nei cinque secoli della sua storia non è stato, credo, quello dei predicatori di professione, ma quello della schiera di “fratelli laici”: semplici e incolti portinai dei conventi o questuanti. Intere popolazioni hanno ritrovato o mantenuto la loro fede grazie al contatto con essi. Uno di essi, il Beato Nicola da Gesturi, parlava così poco che la gente lo chiamava “Frate silenzio”, eppure in Sardegna, a 58 anni dalla sua morte, l’ordine dei Cappuccini si identifica con fra Nicola da Gesturi, oppure con fra Ignazio da Laconi, un altro santo frate questuante del passato. Lo stesso avvenne qui a Roma, agli inizi dell’ Ordine, con san Felice da Cantalice. Si è realizzata la parola che Francesco d’Assisi rivolse un giorno ai frati predicatori: ”Perché vi gloriate della conversione degli uomini? Sappiate che a convertirli sono stati i miei frati semplici con le loro preghiere” .
Una volta, durante un dialogo ecumenico, un fratello pentecostale mi chiese – non per polemica, ma per cercare di capire – perché noi cattolici chiamiamo Maria “la Stella dell’evangelizzazione”. Fu l’occasione anche per me per riflettere su questo titolo attribuito a Maria da Paolo VI, a conclusione della Evangelii nuntiandi. Giunsi alla conclusione che Maria è la stella dell’evangelizzazione perché non ha portato una parola particolare a un popolo particolare, come hanno fatto anche i massimi evangelizzatori della storia; ha portato la Parola fatta carne e l’ha portata (anche fisicamente) al mondo intero! Non ha mai predicato, non ha pronunziato che pochissime parole, ma era piena di Gesú e dovunque andava ne spandeva il profumo, tanto che Giovanni Battista lo avvertì fin dal seno di sua madre. Chi può negare che la Vergine di Guadalupe abbia avuto un ruolo fondamentale nell’evangelizzazione e nella fede del popolo messicano?
Parlando a un ambiente di Curia, mi sembra giusto mettere in luce il contributo che possono dare -e che danno di fatto – all’evangelizzazione quelli che passano la maggioranza del loro tempo dietro una scrivania e a trattare affari apparentemente estranei all’evangelizzazione. Se concepisce il proprio lavoro come servizio al Papa e alla Chiesa; se rinnova ogni tanto questa intenzione e non permette che la preoccupazione della carriera prenda il sopravvento nel suo cuore, il modesto impiegato di una Congregazione contribuisce all’evangelizzazione più di un predicatore di professione, se questi cerca di piacere agli uomini più che a Dio.
3. Come si diventa evangelizzatori
Se l’impegno per l’evangelizzazione è di tutti, cerchiamo di vedere quali ne sono le premesse e a quali condizioni si diventa davvero evangelizzatori. La prima condizione ci è suggerita dalla parola che Dio rivolse ad Abramo: “Esci dalla tua terra e va’” (cf. Gen 12, 1). Non c’è missione e invio senza una previa uscita. Parliamo spesso di una Chiesa “in uscita”. Dobbiamo renderci conto che la prima porta da cui uscire, non è quella della Chiesa, della comunità, delle istituzioni, delle sacrestie; è quella del nostro “io”. Lo ha spiegato bene, in una occasione, papa Francesco: “Essere in uscita, diceva, significa innanzitutto uscire dal centro per lasciare al centro il posto a Dio”. Secondo un’espressione di Teilhard de Chardin, bisogna “decentraci da noi stessi e ricentrarci su Cristo”.
Più intenso del grido rivolto ad Abramo, è quello che Gesú rivolge a colui che chiama a collaborare con lui nell’annuncio del Regno: “Parti, esci dal tuo io, rinnega te stesso! Allora tutto diventa mio. La tua vita cambia, il mio volto diventa il tuo. Non sei più tu che vivi, ma io vivo in te”. È l’unico modo per vincere il pullulare di invidie, gelosie, paure di perdere la faccia, rancori, risentimenti, situazioni di antipatia che riempiono il cuore dell’uomo vecchio; per essere “abitati” dal Vangelo e diffondere odore di Vangelo.
La Bibbia ci offre un’immagine che contiene più verità di interi trattai di pastorale dell’annuncio: quella del libro mangiato che si legge in Ezechiele:
“Io guardai ed ecco, una mano tesa verso di me teneva un rotolo. Lo spiegò davanti a me; era scritto all’interno e all’esterno e vi erano scritti lamenti, pianti e guai. Mi disse: “Figlio dell’uomo, mangia questo rotolo, poi va’ e parla alla casa d’Israele”. Io aprii la bocca ed egli mi fece mangiare quel rotolo, dicendomi: “Figlio dell’uomo, nutrisci il ventre e riempi le viscere con questo rotolo che ti porgo”. Io lo mangiai e fu per la mia bocca dolce come il miele (Ez 2, 9 – 3, 3; cf anche Ap 10, 2).
C’è una differenza enorme tra la parola di Dio semplicemente studiata e proclamata e la parola di Dio prima “mangiata” e assimilata. Nel primo caso si dice di un predicatore che “parla come un libro stampato”; ma non si arriva così al cuore della gente, perché al cuore arriva solo ciò che parte dal cuore. “Cor ad cor loquitur, era il motto del beato cardinal Newman.
Riprendendo l’immagine di Ezechiele, l’autore dell’Apocalisse vi apporta una piccola, ma significativa variante. Dice che il libro ingoiato era sì dolce come il miele sulle labbra, ma amaro come il fiele nelle viscere (cf. Ap 10, 10). Sì perché, prima di ferire gli ascoltatori la parola deve ferire l’annunciatore, mostrargli il suo peccato e spingerlo alla conversione.
Non è il lavoro di un giorno. C’è però una cosa che si può fare in un giorno, oggi stesso: acconsentire a questa prospettiva, prendere la decisione irrevocabile, per quanto sta in noi, di non vivere più per noi stessi, ma per il Signore (cf. Rom 14, 7-9). Tutto questo non può essere solo frutto dello sforzo ascetico dell’uomo; è anch’esso opera della grazia, frutto dello Spirito Santo. “Perché non viviamo più per noi stessi, ma per lui (Cristo) che è morto e risorto per noi, ha mandato, o Padre, lo Spirito Santo, primo dono ai credenti”. Così la liturgia ci fa pregare nella Preghiera eucaristica IV.
E ‘ semplice sapere come si ottiene lo Spirito Santo in vista dell’evangelizzazione. Basta vedere come l’ ottenne Gesù e come l’ ottenne la Chiesa stessa il giorno di Pentecoste. Luca così descrive l’evento del battesimo di Gesù: “Mentre Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì e scese su di lui lo Spirito Santo” (Lc 3,21-22). Fu la preghiera di Gesù a squarciare i cieli e a fare discendere lo Spirito Santo e lo stesso avvenne per gli apostoli. Lo Spirito Santo, a Pentecoste, venne su di essi mentre erano “concordi e perseveranti nella preghiera” (At 1,14 ).
Lo sforzo per una rinnovato impegno missionario è esposto a due pericoli principali. Uno è l’inerzia, la pigrizia, il non fare nulla e lasciare che facciano tutto gli altri. L’altro è il lanciarsi in un attivismo umano febbrile e vuoto, con il risultato di perdere a poco a poco il contatto con la sorgente della parola e della sua efficacia. Sarebbe anche questo un votarsi al fallimento. Più aumenta il volume dell’attività, più deve aumentare il volume della preghiera. Si obietta: questo è assurdo; il tempo è quello che è! D’accordo, ma chi ha moltiplicato i pani, non potrà forse moltiplicare anche il tempo? Del resto, è quello che Dio fa continuamente e di cui facciamo ogni giorno l’esperienza. Dopo aver pregato, si fanno le stesse cose in meno di metà del tempo.
Si dice ancora: Ma come starsene tranquilli a pregare, come non correre, quando la casa brucia? E’ vero anche questo. Ma immaginate questa scena: una squadra di pompieri ha ricevuto un allarme e si precipita a sirene spiegate sul luogo dell’incendio; ma, arrivata sul posto, si accorge di non avere nei serbatoi neppure una goccia d’acqua. Così siamo noi, quando corriamo a predicare senza pregare. Non è che venga a mancare la parola; al contrario, meno si prega più si parla, ma sono parole vuote, che non arrivano al di nessuno.
4. Evangelizzazione e compassione
Accanto alla preghiera un altro mezzo per ottenere lo Spirito Santo è la rettitudine di intenzione. L’ intenzione nel predicare Cristo può essere inquinata da varie cause. San Paolo ne elenca alcune nella Lettera i Filippesi: per convenienza, per invidia, per spirito di contesa e di rivalità (Fil 1, 15-17). La causa che racchiude tutte le altre è però una sola: la mancanza d’amore. San Paolo dice: “Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o come un cembalo che tintinna” (l Cor 13,1).
L’esperienza mi ha fatto scoprire una cosa: che si può annunciare Gesù Cristo per motivi che hanno poco o nulla a vedere con l’amore. Si può annunciare per proselitismo, per trovare, nell’aumento del numero degli adepti, una legittimazione alla propria piccola chiesa, specie se di propria, o di recente, fondazione. Si può annunciare, prendendo alla lettera una frase del Vangelo, per portare il Vangelo ai confini della terra (cf. Mc 13, 10), in modo da riempire il numero degli eletti e affrettare il ritorno del Signore.
Alcuni di questi motivi non sono in se stessi cattivi. Ma da soli non bastano. Manca quel genuino amore e compassione per gli uomini che è l’anima del Vangelo. Il Vangelo dell’amore non si può annunciare che per amore. Se non ci sforziamo di amare le persone che abbiamo davanti, le parole ci si trasformano facilmente tra le mani in pietre che feriscono e dalle quali ci si ripara, come ci si mette al riparo da una grandinata.
Io ho sempre davanti agli occhi la lezione che la Bibbia, implicitamente, ci da con la vicenda di Giona. Giona è costretto da Dio ad andare a predicare a Ninive. Ma i niniviti erano nemici d’Israele e Giona non amava i niniviti. Egli è visibilmente contento e soddisfatto quando può gridare: “Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta!”. La prospettiva non sembra dispiacergli affatto. Se non che i niniviti si pentono e Dio risparmia loro il castigo. A questo punto Giona entra in crisi. “Tu ti dai pena – gli dice Dio quasi scusandosi- per quella pianta di ricino…e io non dovrei avere pietà di Ninive, quella grande città, nella quale sono più di centoventimila persone, che non sanno distinguere fra la mano destra e la sinistra?” (Giona 4,10 s.). Dio deve fare più fatica per convertire lui, il predicatore, che non per convertire tutti gli abitanti di Ninive!
Amore, dunque, per gli uomini. Ma anche e soprattutto amore per Gesù. È l’amore di Cristo che ci deve spingere. “Mi ami tu? – dice Gesù a Pietro -. Pasci le mie pecore” (cf Gv 21,15 ss.). Bisogna amare Gesù, perché solo chi è innamorato di Gesù lo può proclamare al mondo con intima convinzione. Non si parla con trasporto se non di ciò di cui si è innamorati.
Proclamando il Vangelo, sia con la vita che con le parole, noi non diamo a Gesù solo gloria, gli diamo anche gioia. Se è vero che “la gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita di coloro che si incontrano con Gesú” , è vero anche che chi diffonde il Vangelo riempie di gioia il cuore di Gesú. Il senso di gioia e di benessere che una persona prova nel sentire improvvisamente tornare a fluire la vita in un suo membro fino allora inerte o paralizzato, è un piccolo segno della gioia che prova Cristo quando sente il suo Spirito tornare a vivificare qualche membro morto del suo corpo.
C’è, nella Bibbia, una parola che non avevo mai notato prima d’ora: “Come fresco di neve al tempo della mietitura, è un messaggero verace per chi lo manda; egli rinfranca l’animo del suo Signore” (Prov 25, 13). L’immagine della calura e del fresco fa pensare a Gesù sulla croce che grida: “Ho sete!”. E’ lui il grande “mietitore” assetato di anime, che siamo chiamati a rinfrancare con il nostro umile e devoto servizio al Vangelo. Che lo Spirito Santo, “principale agente dell’evangelizzazione”, ci conceda di dare a Gesù questa gioia, con le parole o con le opere, secondo il carisma e l’ufficio che ognuno di noi ha nella Chiesa.