Dove Dio ci vuole: creare l'unità di vita
Cercare la presenza di Dio nella quotidianità
Autore: Don Guillaume Derville
«È Dio che suscita in voi il volere e l’operare secondo i suoi benevoli disegni», scrive san Paolo ai filippesi (Fil 2, 13). È il Signore che unifica la nostra vita: veniamo da Lui e andiamo verso di Lui, e di fatto Egli ci accompagna molto da vicino nel nostro pellegrinaggio terrestre, nel nostro camminare per agrum attraverso il grande campo del mondo (cfr. Mt 13, 38). Cristo è «via, veritas et vita: via, verità e vita» (Gv 14, 6). Verità e vita, commenta sant’Agostino, perché è Dio; e via perché è uomo[1]. Questa realtà ci riempie di pace. Nella nostra vita, la via, qualche volta pianeggiante, altre volte più accidentata e ardua, non è lontana dalla meta, perché la meta stessa è già presente in spe, nella speranza, a ogni passo. «Egli stesso – scrive san Tommaso – è nello stesso tempo la via e il suo punto terminale. È la via secondo la sua umanità, il punto terminale secondo la sua divinità»[2].
Nell’Incarnazione, il Verbo di Dio «riprende la traversata del deserto umano passando attraverso la morte e arriva alla risurrezione, trascinando con sé verso Dio l’intera umanità. Ora Gesù non si trova più confinato in un luogo e in un tempo determinato, ma il suo Spirito, lo Spirito Santo, emana da Lui ed entra nei nostri cuori, unendoci così con Gesù stesso e con Lui al Padre – con il Dio uno e trino»[3]. L’unità di vita consiste proprio nella elevazione di ciò che è umano all’ordine soprannaturale; è una incarnazione di ciò che è divino nell’umano. Per questo, «se accettiamo la responsabilità di essere suoi figli, vedremo che Dio ci vuole molto umani. La testa deve arrivare al cielo, ma i piedi devono poggiare saldamente per terra. Il prezzo per vivere da cristiani non è la rinuncia a essere uomini o la rinuncia allo sforzo per acquistare quelle virtù che alcuni posseggono anche senza conoscere Cristo. Il prezzo di ogni cristiano è il Sangue redentore di Gesù nostro Signore, che ci vuole – ripeto – molto umani e molto divini, costanti nell’impegno quotidiano di imitare Lui, perfectus Deus, perfectus homo»[4].
«Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice “Dammi da bere”, tu stessa gliene avresti chiesto ed egli ti avrebbe dato acqua viva» (Gv 4, 10). Il Signore, con la sua sete, mostra alla donna samaritana la sua umanità; nella sua promessa di acqua viva, la sua divinità. «Signore, dammi di quest’acqua, perché non abbia più sete», risponde la donna, che comincia a intravedere che Colui che le parla non è un galileo qualsiasi. La samaritana passa dalla sufficienza di chi crede di poter costruire la propria vita da sola al chiedere, balbettando, il dono di Dio. Soltanto Egli può appagare la sete del nostro cuore: appare impossibile arrivare a Dio senza Dio, se lo Spirito non opera in modo tale che Dio viva in noi.
Stare dove Dio ci vuole
«Tutto il panorama della vocazione cristiana, quell’unità di vita che ha come nerbo la presenza di Dio, nostro Padre, può e deve divenire una realtà quotidiana»[5]. Questa convinzione spingeva san Josemaría, già nei primi anni dell’Opera, a «parlare spesso della presenza di Dio sia in conversazioni private, che davanti a più persone, sempre»[6]; e anche nella sua corrispondenza: «Avanti, dunque; soprattutto, nella presenza di Dio. Sarebbe molto bello che ti abituassi a riferire a Lui tutte le cose e a rendergli grazie per tutto»[7].
Insieme con la presenza di Dio, convinzione profonda che «Dio ci sta vicino continuamente»[8]; per compiere il nostro dovere nella vita ordinaria, abbiamo bisogno dell’umiltà di rimanere lì dove Dio ci ha messo. Rimanere nel posto in cui ci troviamo, magari senza farsi notare, essere noi stessi nell’attività che gli altri si aspettano da noi.
La continuità, la perseveranza, l’obbedienza debbono scolpire in noi un carattere forte e maturo. In base all’esperienza della chiamata divina a fondare l’Opera suo malgrado, san Josemaría insisteva sull’umiltà, che consiste nel voler servire, senz’altra ambizione che di assecondare la grazia divina. E invece descriveva un aspetto pittoresco dell’ansia di cambiare continuamente di posto che si poteva notare in certi ambienti ecclesiali, ben diversa dall’autentica donazione della vita religiosa, che è tanto necessaria nella vita della Chiesa:
«Tale è il mio orrore per tutto ciò che supponga ambizione umana, seppure irreprensibile, che se Dio nella sua misericordia si è voluto servire di me, che sono un peccatore, per la fondazione dell’Opera, è stato mio malgrado. Voi sapete che avversione ho sempre avuto verso l’impegno di alcuni – ma ciò si può basare su ragioni molto soprannaturali, che in ogni caso è la Chiesa a dover giudicare – per fare nuove fondazioni. Mi sembrava – e mi sembra tuttora – che ci fosse una pletora di fondazioni e di fondatori: vedevo il pericolo di una specie di psicosi fondazionale, che conduceva a creare cose non indispensabili, per motivi che consideravo ridicoli. Pensavo, forse con scarsa carità, che in qualche occasione il motivo non fosse neppure importante: l’essenziale era creare qualcosa di nuovo e chiamarsi fondatore»[9].
Coerenza nella vita di ogni giorno
La vocazione offre un panorama e, allo stesso tempo, segna un cammino sicuro, che si costruisce durante la vita, giorno dopo giorno. All’inizio non sappiamo ciò che il Signore ci chiederà, ma noi desideriamo dire sempre di sì, rendendo attuale la donazione del primo giorno, quando abbiamo dato ogni cosa per amore e per sempre, perché «i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili» (Rm 11, 29). La vocazione, quel seme che Dio ha posto nei nostri cuori, deve crescere per dare luce e calore a molte anime e diventare un albero frondoso; è questa una realtà che coinvolge tutto il nostro essere e tutta la nostra vita, unificandola: dà senso, sicurezza, armonia.
L’unità di vita si gusta nel luogo in cui Dio ci ha collocato, con le persone che ci stanno attorno, senza sognare attività che probabilmente ci porterebbero lontano da ciò che siamo e dobbiamo essere. San Paolo invita i Tessalonicesi a lavorare e a guadagnarsi di che vivere, aiutandosi l’un l’altro a comportarsi in tal modo (cfr. 2 Ts 3, 6-15). Questa coerenza di vita fa sì che, proprio perché prega e perché osserva fino in fondo gli insegnamenti della Chiesa, ciascuno adempia i propri impegni: dal recarsi a un appuntamento anche se poi si è presentato un programma apparentemente migliore, fino a pagare il biglietto del trasporto pubblico anche in assenza del controllore, senza contare gli adempimenti degli obblighi fiscali.
Vivere così significa lottare per mettere in pratica l’esortazione del Signore: «Sia il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno» (Mt 5, 37). Cristo indica un modo di parlare: uno stile di vita cristiano che si attua alla presenza di Dio, una «attenzione rispettosa per la sua presenza, testimoniata o schernita, in ogni nostra affermazione»[10], che si concretizza nel non mentire mai, anche nel caso in cui questo ci potesse trarre d’impiccio; nel comportarci con dignità, anche quando nessuno ci vede; nel mettere un freno all’ira quando ci mettiamo al volante o giochiamo una partita di calcio, invece di considerare normale comportarsi male in quelle circostanze. Infine, come insegna il Concilio Vaticano II, i battezzati debbono «compiere fedelmente i propri doveri terreni, facendosi guidare dallo Spirito del Vangelo. […] Proprio la fede li obbliga ancora di più a compierli, secondo la vocazione di ciascuno»[11].
Essere apostoli
Abbiamo appena finito di vivere un anno della misericordia, per iniziativa del Papa. Nella misericordia si manifesta non soltanto l’onnipotenza di Dio, ma anche la nostra fede in Lui. Soltanto grazie alla misericordia si costruisce la «comunione di fede e di vita»[12], come insegna san Giacomo nella sua lettera: «Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro “Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi”, ma non date loro il necessario per il corpo, che giova? Così anche la fede: se non ha le opere, è morta in se stessa» (Gc 2, 15-17).
«Ogni giornata, figli amatissimi, deve registrare il nostro zelo nel compiere la missione divina che, per sua misericordia, il Signore ci ha affidato. Il cuore del Signore è un cuore di misericordia, che ha compassione degli uomini e a loro si avvicina. La nostra donazione al servizio delle anime è una manifestazione di questa misericordia del Signore, non soltanto verso di noi, ma verso l’umanità intera. Ci ha chiamati, infatti, a santificarci nella vita ordinaria, quotidiana; e a insegnare agli altri – providentes, non coacte, sed spontanee secundum Deum (1 Pt 5, 2), prudentemente, senza coazione; spontaneamente, secondo la volontà di Dio – il cammino perché ciascuno si santifichi nel proprio stato, in mezzo al mondo»[13]. La misericordia aiuta a desiderare il meglio per gli altri, e dunque a rafforzare la formazione umana e cristiana di tutti, in modo che evitino, per quanto possibile, di addentrarsi per vie che devastano la vita delle persone, come la tossicodipendenza, il divorzio, l’aborto, l’eutanasia. D’altra parte, l’ottimismo soprannaturale ci permette di valorizzare il bene che c’è in ogni anima, più che a limitarci ai difetti. «A me non piace parlare di persone cattive e di persone buone: non divido gli uomini in buoni e cattivi»[14]. Questo modo di vedere nasce dall’amore che lo Spirito Santo mette nelle nostre anime. Nel commentare il Mandatum novum, nostro Padre ci diceva: «Voi, figli miei, mettetelo sempre in pratica, sopportando con gioia i difetti delle persone che vi stanno accanto. Non fate come lo scarabeo stercorario che, dopo avere fatto con le zampe una palla di sporcizia, se la mette addosso. Fate invece come l’ape, che va di fiore in fiore in cerca del nettare che vi è racchiuso, per trasformarlo in miele dolce, in cibo saporito, che nei vostri fratelli sarà il buon profumo della santità. In poche parole, vogliatevi bene, vogliatevi molto bene!»[15].
Noi cristiani siamo consapevoli di avere una missione: trasformare il mondo per la gloria di Dio. «È il momento di dare spazio alla fantasia della misericordia per dare vita a tante nuove opere, frutto della grazia. La Chiesa ha bisogno di raccontare oggi quei “molti altri segni” che Gesù ha compiuto e che “non sono stati scritti” (Gv 20,30), affinché siano una espressione eloquente della fecondità dell’amore di Cristo e della comunità che vive di Lui»[16]. Questo panorama apostolico che ci unisce non ci è estrinseco: nostro Padre «di solito non parlava tanto di fare apostolato, quanto di essere apostoli»[17], e aggiungeva che l’apostolato è «un orientamento permanente dell’anima […], una disposizione dello spirito che tende, per sua stessa natura, a impregnare tutta la vita»[18]. Il vero apostolato non si riduce a una serie di determinati compiti, né riduce le persone a obiettivi: è l’Amore di Dio che si espande attraverso la nostra vita, con la consapevolezza che ognuno dovrà portare avanti la propria vocazione e mostrarne le potenzialità con la propria donazione libera e gioiosa.
La formazione pienamente cristiana
Nell’Opera si dà formazione secondo una visione unitaria del messaggio cristiano; in questo modo si ottiene più facilmente l’autentica unità di vita in Cristo, accogliendo con gioia la grazia di Dio. Il Catechismo della Chiesa Cattolica è un buon punto di riferimento di tale visione unitaria: in esso «le quattro parti sono legate le une alle altre: il mistero cristiano è l’oggetto della fede (prima parte); è celebrato e comunicato nelle azioni liturgiche (seconda parte); è presente per illuminare e sostenere i figli di Dio nel loro agire (terza parte); fonda la nostra preghiera, la cui espressione privilegiata è il “Padre Nostro”, che costituisce l’oggetto della nostra supplica, della nostra lode, della nostra intercessione (quarta parte)»[19]. Dottrina, vita liturgica, vita spirituale e vita morale sono inseparabili. Gesù Cristo è «via, verità e vita» (Gv 14, 6); per questo la verità non soltanto illumina ma stimola, guida e potenzia: è alimento (cfr. Sal 23) ed è dottrina di salvezza.
Dio scelse san Josemaría perché fondasse l’Opus Dei in seno alla Chiesa[20], e lì lo incarnò con la sua vita. Lo spirito dell’Opera, che è di Dio, cresce ora nel suo Popolo attraverso le sue figlie e i suoi figli. Per questo la formazione si svolge in questa cornice unitaria: Sacra Scrittura, Tradizione apostolica (i Padri), Magistero ecclesiastico (specialmente il Catechismo della Chiesa Cattolica e il magistero del Papa), liturgia (i sacramenti), preghiera; vita dei santi. Con la conoscenza meditata della vita e degli insegnamenti di san Josemaría e con la formazione che ricevono, le persone dell’Opera vengono aiutate a mettere in rapporto le diverse dimensioni della loro fede e della loro vocazione, a comprendere e a presentare ad altri lo spirito dell’Opus Dei a partire dalla Scrittura, dalla Tradizione, dal Magistero. Si trasmette così un messaggio incisivo in un modo equilibrato, che si sviluppa in questo stesso humus, la stessa terra feconda nella quale san Josemaría vide e comprese l’Opera.
La formazione è aperta perché nasce dalla preghiera e dalla vita reale, che è composta di lotte, accompagnate dalla grazia di Dio, in una grande varietà di vicende e di situazioni. Il Decalogo «unifica la vita teologale e la vita sociale dell’uomo»[21], e così, per esempio, «la persona casta conserva l’integrità delle forze di vita e di amore che sono in lei. Tale integrità assicura l’unità della persona e si oppone a ogni comportamento che la ferirebbe. Non tollera né doppiezza di vita, né doppiezza di linguaggio (cfr. Mt 5, 37)»[22]. Lo stesso vale per le altre virtù che configurano l’esistenza umana. Tutta la vita della Madonna, nostra Madre, è stata caratterizzata dall’unità di vita; per questo, ai piedi della Croce, ripete il fiat dell’annunciazione.
L’Opera è nata e si va estendendo per servire la Chiesa e per contribuire alla sua edificazione: vogliamo far presente Cristo tra gli uomini. Tutto si riconduce a Gesù: nel nostro compito di evangelizzazione «è di Cristo che dobbiamo parlare, non di noi stessi»[23]. Così portiamo le persone a Cristo, sostenuti dal nostro piano di vita, presenza amorosa del Dio Uno e Trino. «Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla» (Gv 15, 5).
Link alla fonte »