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Essere e diventare fratelli nella convivenza sociopolitica

La santità nella vita ordinaria contempla tutto l’agire del cristiano

Autore: Maria Aparecida Ferrari

La santità nella vita ordinaria contempla tutto l’agire del cristiano: «Pensate, per esempio, alla vostra azione di cittadini nella vita civile. Un uomo, consapevole che il mondo – e non solo il tempio – è il luogo del suo incontro con Cristo, ama questo mondo, si sforza di raggiungere una buona preparazione intellettuale e professionale, e va formando – in piena libertà – il proprio criterio sui problemi dell’ambiente in cui opera; e di conseguenza prende le sue decisioni che, essendo decisioni di un cristiano, sono anche frutto di una riflessione personale, umilmente intesa a cogliere la Volontà di Dio in questi particolari piccoli e grandi della vita»[1].

Alla luce degli insegnamenti dell’enciclica Fratelli tutti[2], iniziamo con queste parole di san Josemaría la nostra riflessione su ciò che significa essere fratelli nella convivenza sociopolitica. Nella prima parte di questo studio esamineremo il bene comune politico nella prospettiva relazionale, con il proposito di dimostrare che tutti i cittadini sono chiamati a realizzarlo, ognuno a seconda del posto che occupa nella società. I prossimi paragrafi, seguendo il filo del documento pontificio, mostreranno in che senso è pertinente identificare la fraternità, nell’ambito sociale e civile, come uno dei principi etici essenziali dai quali deriva il bene comune politico.

Non è usuale presentare la fraternità come un elemento strutturale della convivenza politica. Sia la dottrina sociale della Chiesa che il pensiero filosofico-politico mettono piuttosto altri principi a fondamento del bene comune: la dignità inalienabile della persona, la giustizia, la solidarietà, la sussidiarietà, la libertà di associazione, ecc. La fraternità compare piuttosto in altri ambiti, come quello familiare, quello religioso e quello delle relazioni di amicizia. Ebbene, una delle novità più importanti dell’enciclica Fratelli tutti è il vincolo che postula tra la fraternità e il bene comune politico.

Sono, infatti, dimensioni interdipendenti, in quanto, «per rendere possibile lo sviluppo di una comunità mondiale, capace di realizzare la fraternità a partire da popoli e nazioni che vivano l’amicizia sociale, è necessaria la migliore politica posta al servizio del vero bene comune» (Ft, n. 154).

1. La natura relazionale del bene comune politico

Definire “relazionale” il bene comune politico costituisce una novità rispetto alla concezione più diffusa nella filosofia e nelle scienze sociali. Mentre in queste il bene comune si suole concepire in termini di “proprietà” dei cittadini o dello Stato, la comprensione relazionale lo identifica essenzialmente come la forma di convivenza che permette ai soggetti sociali di perseguire i propri fini con autonomia e responsabilità. Da questo punto di vista il bene comune politico si configura come «l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono ai gruppi come ai singoli membri di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più speditamente» e comprende «diritti e doveri, che riguardano l’intero genere umano»[3].

Relazioni umane di qualità per il bene

Partendo da questa concezione, il fine comune, la vita buona nella convivenza politica, è costituito fondamentalmente da relazioni umane di qualità e, pertanto, realizzare il bene comune consiste nel generare, preservare e consolidare le relazioni che permettono agli individui e ai gruppi di procedere liberamente verso quel bene di tutti che arricchisce anche il proprio bene particolare. I beni necessari alla pienezza dei soggetti sociali derivano dalle relazioni umane, nelle quali il bene personale e il bene comune sono generati e posseduti congiuntamente, sono relazionali.

Nel pensiero moderno si è sviluppata una concezione differente del bene comune politico, inteso come un bene collettivo, materiale e utile, che lo Stato deve rendere disponibile a tutti gli individui. Lo si intende essenzialmente come somma di beni individuali o insieme di elementi fisici, di vantaggi, di utilità, di tecniche o di leggi che favoriscono il progresso materiale.

Nella prospettiva della dottrina sociale cristiana, invece, il bene comune politico non può essere ridotto all’ambito dei beni utili, perché è anzitutto un bene umano, vale a dire una risposta alle esigenze primarie della dignità della persona, che sono il fondamento risolutivo, ma anche la prospettiva o la finalità ultima della convivenza. Pertanto il bene comune politico va oltre ciò che è strettamente politico, ossia il governo della città, il che implica, per un verso, che nessuna realtà associativa, neppure la società politica come tale, può conseguire da sola la totalità dei beni umani, e, per l’altro, che nessuna può essere autonoma rispetto alle altre in relazione al bene dell’uomo come tale.

Inoltre, se il bene comune è anzitutto il vincolo sociale dal quale dipendono tanto i fini materiali come quelli razionali o spirituali, si dovrà concludere che il cittadino non trova la sua realizzazione in sé stesso, ma nell’interazione “con” gli altri e “per” gli altri[4].

Il bene comune per i cristiani

La concezione cristiana del bene comune sostiene, infatti, che le persone, individualmente o associate con altre, così come la stessa società politica, sono chiamate a mettere in pratica quella «fraternità aperta, che permette di riconoscere, apprezzare e amare ogni persona al di là della vicinanza fisica, al di là del luogo del mondo dove è nata o dove abita» (Ft, n. 1).

Non potrebbe essere altrimenti, poiché non è dalle fabbriche o dall’imposizione di una legge che possono provenire certi beni essenziali della convivenza come la pace, la giustizia, l’amore del prossimo, la gratuità, il perdono, la protezione dell’ambiente, l’amore del bene altrui, l’esercizio della libertà orientato al bene collettivo, la gratitudine, la laboriosità, ecc.

Vita privata e ordine pubblico

Questi sono beni comuni ed eminentemente politici, in quanto sono personali e relazionali, e il ruolo dell’autorità politica consiste nell’appoggiarli e, per quanto possibile, nel promuovere il tessuto di relazioni nel quale nascono e crescono. Come? Garantendo e promuovendo la libertà degli individui e dei gruppi. In ciò consiste il prezioso servizio peculiare che lo Stato è chiamato a prestare alla dignità di ogni persona e alla vita sociale politicamente organizzata. Fratelli tutti lo mette acutamente in rilievo citando Ricoeur: «Non c’è di fatto vita privata se non è protetta da un ordine pubblico; un caldo focolare domestico non ha intimità se non sta sotto la tutela della legalità, di uno stato di tranquillità fondato sulla legge e sulla forza e con la condizione di un minimo di benessere assicurato dalla divisione del lavoro, dagli scambi commerciali, dalla giustizia sociale e dalla cittadinanza politica» (Ft, n. 164)[5].

È chiaro quindi che, nella prospettiva dell’enciclica, gli agenti del bene comune politico non sono solo gli organismi statali o solo la società civile. Il bene comune politico è un compito congiunto delle istituzioni politiche e degli attori sociali, vale a dire, dei cittadini e delle società intermedie.

Tuttavia, nella cultura contemporanea è ricorrente una concezione del bene comune politico e della funzione dei governanti e dei governati ben diversa, che rende difficile mettere in pratica e salvaguardare la fraternità nell’ambito sociopolitico. Si tende a ridurre la tutela del bene comune alla funzione dello Stato di stabilire la giustizia mediante leggi che garantiscano la difesa del pubblico interesse e di reprimere i comportamenti antisociali con sanzioni penali e amministrative. Questa impostazione fa perdere di vista che le leggi civili non sono sufficienti a garantire la giustizia nelle relazioni sociali e politiche, e che la ricerca del bene comune attraverso il progressivo incremento dell’attività normativa genera passività nella società civile, perché induce i cittadini a credere che ciò che va male sia dovuto a qualche difetto nelle leggi o alla carenza di norme.

Inoltre, ne distoglie l’attenzione dalla questione principale, cioè il dovere che hanno di preoccuparsi del bene comune sia individualmente che in unione con altri. In definitiva, invece di stimolare nei soggetti sociali la solidarietà, la cooperazione fraterna e lo spirito di iniziativa, fomenta la mentalità del minimo sforzo, la negligenza, l’indifferenza e il rifiuto, cosicché finisce per prevalere l’insensibilità ai problemi della vita sociale: “Io mi occupo dei fatti miei, obbedisco alle leggi, pago le tasse, non faccio del male a nessuno; tutto il resto, cioè le necessità degli altri, tocca a chi governa”.

In tal modo, la convivenza sociopolitica segue un doppio binario: “i cittadini pensano al bene privato” mentre “lo Stato si occupa del bene pubblico”. In molti Paesi questa combinazione ha avuto come conseguenza che lo Stato si è appropriato di attività che sono di competenza dei cittadini, come l’inizio e il fine vita, l’educazione e la scuola, la sanità e la lotta contro la povertà. Si è costituito così lo Stato del benessere, denunciato nell’enciclica Centesimus annus. La grande espansione della sfera di intervento dello Stato, sottolineava san Giovanni Paolo II, «ha portato a costituire, in qualche modo, uno Stato di tipo nuovo: lo “Stato del benessere”». Nello sforzo per combattere forme di povertà e di privazione indegne della persona umana, prosegue il documento, «non sono, però, mancati eccessi e abusi che hanno provocato, specialmente negli anni più recenti, dure critiche allo Stato del benessere, qualificato come “Stato assistenziale”. Le disfunzioni e i difetti nello Stato assistenziale sono dovuti a un’inadeguata comprensione dei compiti specifici dello Stato. Anche in questo ambito deve essere rispettato il principio di sussidiarietà»[6].

In opposizione a questo processo e in linea con Fratelli tutti, si deve osservare che il bene comune al quale si ordina la vita nella società è invece essenzialmente manifestazione ed esercizio della fraternità, promozione del bene altrui che configura il bene personale: una prospettiva di fraternità nella quale, procurando quello dell’altro, si ottiene il proprio bene.

Il volto civile e politico della fraternità risplende, pertanto, nelle azioni individuali e sociali che generano il bene comune, cioè promuovono le condizioni esistenziali e le relazioni che permettono a tutti di realizzare i propri fini con libertà e responsabilità. In questa prospettiva, ogni cosa diventa una opportunità per essere fratello o sorella.

2. La fraternità sociale, volto della cittadinanza politica

Se il bene comune politico si genera a partire dall’azione congiunta dello Stato e della società civile, è d’obbligo riconoscere che una parte essenziale di questo bene comune politico è l’idoneità (competenza e propensione) dei cittadini a realizzare il bene personale e sociale. In assenza di questo patrimonio etico, diventa difficile resistere, dire “no”, per esempio, a benefici ingiusti quando è facile ottenerli, soprattutto se, come si afferma più o meno sinceramente, “lo fanno tutti”, o se l’illegalità riesce a evadere le procedure di controllo regolamentari. Detto altrimenti, essere un agente generatore del bene richiede al cittadino di andare oltre la stretta obbedienza all’ordinamento giuridico stabilito: comporta un esercizio della libertà che oltrepassa i limiti legali, perché richiede laboriosità, onestà, solidarietà, prudenza, sussidiarietà, fiducia, temperanza, ecc.

Nell’esercizio della cittadinanza così intesa, prende forma la fraternità sociale, in modo tale che, quando un cittadino instaura con gli altri un rapporto connotato dal rispetto e dalla reciprocità, svolge con competenza la sua professione o le sue mansioni, si occupa degli interessi generali…, sta mostrando il volto della fraternità nell’ambito sociopolitico, e così configura il bene comune politico nel suo significato più autentico. Fratelli tutti lo illustra chiaramente ricorrendo alla parabola del buon samaritano.

Rivolgendosi agli uomini di buona volontà, a tutti e a ognuno, l’enciclica invita a lasciarsi interpellare dalla parabola al di là delle proprie convinzioni religiose (cfr. Ft, n. 56). Ricorda loro che il racconto evangelico li invita a far rivivere la «vocazione di cittadini del nostro Paese e del mondo intero, costruttori di un nuovo legame sociale», e spiega che è «un richiamo sempre nuovo, benché sia scritto come legge fondamentale del nostro essere: che la società si incammini verso il perseguimento del bene comune e, a partire da questa finalità, ricostruisca sempre nuovamente il suo ordine politico e sociale, il suo tessuto di relazioni, il suo progetto umano» (Ft, n. 66).

Nel corso della sua vita, ogni individuo umano incarna in qualche modo l’uno o l’altro personaggio della parabola, ma agli effetti di questa riflessione è opportuno soffermarsi su quello che apparentemente è il meno centrale, l’albergatore. Questo personaggio, che nell’esegesi abituale quasi scompare, dimostra forse meglio degli altri che ogni persona, con la sua vita semplice e normale, può vivere la fraternità sociale nell’ambito della cittadinanza politica in modo stabile e senza stravolgere l’ordinarietà della propria esistenza.

Infatti, come osserva l’enciclica, «anche il buon samaritano ha avuto bisogno che ci fosse una locanda che gli permettesse di risolvere quello che lui da solo in quel momento non era in condizioni di assicurare» (Ft, n. 165). Allo stesso modo, nella società politica, tutti, compreso lo Stato, hanno bisogno che i cittadini e le società intermedie facciano ogni giorno la loro parte nei diversi ambiti della convivenza e del lavoro professionale. È necessario che tutti, nelle loro relazioni, siano continuamente albergatori, e quindi fratelli, non solo nell’accogliere e prendersi cura dell’altro in famiglia e nelle diverse comunità basate sull’amicizia e sulla fiducia, ma anche negli altri ambiti relazionali.

Di conseguenza, l’impegno civile e politico è esercizio di fraternità, se finalizzato al bene delle persone, e ogni atto fraterno di amore, di attenzione reciproca, è anche civile e politico, poiché costruisce realmente una società migliore[7] (cfr. Ft, n. 181). Indubbiamente, nella società politica, di solito le relazioni sono vaste e anonime, ma ciò non esclude la dimensione fraterna. Chi, per esempio, dipendente comunale o utente di quello spazio, tiene pulita una piazza, sta rispettando tutti gli altri cittadini e se ne sta prendendo cura, pur non conoscendo i loro volti e senza avere una relazione diretta con essi; esercita l’amicizia civica, l’amore sociale o la fraternità sociale, cioè una relazione di benevolenza (volere il bene dell’altro) basata sulla compartecipazione e sulla corresponsabilità del bene pubblico. Pratica così una fraternità che può evolvere verso una virtù sociale, il proposito stabile e abituale di rispettare e promuovere sempre il bene degli altri; una virtù che può generare a sua volta innumerevoli forme di solidarietà. Man mano che si diffonde nel contesto sociale, questo comportamento solidale aiuterà anche a costruire la cultura di tutto il popolo.

La figura dell’albergatore è pertanto emblematica della fraternità sociale esercitata nella vita quotidiana, nei diversi ambiti relazionali: rispettare le norme del traffico quando si guida, pagare le imposte, lavorare in modo responsabile ed efficace, non acconsentire a pratiche illecite (“bustarelle”, corruzione, ecc.) a beneficio proprio o altrui, dare importanza alle norme di buona educazione, comportarsi onestamente in ogni situazione, utilizzare l’intelligenza creativa per soddisfare le necessità proprie e altrui.

3. Fecondità per tutta la società

Se tutti possono e debbono essere albergatori nei rapporti sociali, sembra opportuno, oltre a metterne a fuoco i protagonisti, riproporre la domanda dalla quale è nata la parabola del samaritano, sostituendo “chi è mio fratello?” con “chi è mio fratello nella convivenza sociopolitica?”. Naturalmente, si può rispondere: “Chi ha fame, chi ha sete, chi è nudo, chi è in carcere o è malato”. Però, pur essendo corretta, questa risposta è incompleta, poiché l’altro non è mio fratello solo perché è bisognoso o derelitto. La fraternità sociale consiste nella disponibilità di ognuno verso il prossimo in qualunque situazione; significa la capacità di coltivare sempre la sensibilità verso il suo bene e le sue necessità e di trasformarla in un aiuto efficace[8]. Si tratta, pertanto, di mettere in primo piano la persona dell’altro piuttosto che i suoi bisogni, riconoscendo in lui un fratello, una persona comunque meritevole della disponibilità da parte di tutti a dare e a darsi liberamente.

In questo ampio esercizio di fraternità, la maggior parte dei cittadini impersonano l’albergatore rimanendo nell’anonimato. Svolgono le loro attività quotidiane, come albergatori di professione, senza far rumore e, in tal modo, realizzano il bene comune politico. In questa moltitudine di albergatori, ciascuno, anche senza mettere la sua firma su quello che fa, è, diventa effettivamente, fratello/sorella di tutti. Il titolo della parabola che stiamo commentando è “parabola del buon samaritano”, ma sarebbe ugualmente corretto intitolarla “parabola dell’albergatore”. Come nel racconto di Gesù, gli albergatori di tutti i tempi e di tutte le società politiche passano quasi inosservati, benché prestino un servizio indispensabile per tutti: per quelli che incarnano il buon samaritano, per quelli che incarnano il ferito e anche, più in generale, per il buon funzionamento della società nel suo complesso.

Ecco perché riflettere sulla figura dell’albergatore ci permette di comprendere meglio l’avvertenza di Papa Francesco: «Non dobbiamo aspettare tutto da coloro che ci governano […]. Godiamo di uno spazio di corresponsabilità capace di avviare e generare nuovi processi e trasformazioni. Dobbiamo essere parte attiva nella riabilitazione e nel sostegno delle società ferite. Oggi siamo di fronte alla grande occasione di esprimere il nostro essere fratelli» (Ft, n. 77).

“Spazio di corresponsabilità” e “grande occasione”, perché la maggior parte di ciò che configura il bene comune politico è opera di cittadini che agiscono come albergatori, anche se talvolta debbono anche fare il buon samaritano. La lettura più consueta della parabola si concentra nell’ammirevole atto di quest’ultimo, e solo raramente si mette in luce che la guarigione del ferito è anche opera dell’albergatore. Fu costui, in realtà, a svolgere la maggior parte del lavoro, e lo fece compiendo semplicemente il suo dovere professionale, senza la pretesa di apparire sui mediao sulle reti sociali, come diremmo in termini attuali. L’albergatore fu fratello del buon samaritano e del ferito nell’esercizio del suo lavoro.

Ricordiamoci, d’altra parte, che gli albergatori di solito non agiscono da soli, ma sono inseriti in una loro dinamica relazionale e si preoccupano del bene di tutti. Consapevolmente o inconsapevolmente, nella loro attività colgono occasioni più o meno dirette, più o meno evidenti, di prestare un servizio, di esercitare la fraternità, coinvolgendo anche altri, come suggerisce Papa Francesco – «non facciamolo da soli, individualmente» – osservando che «il samaritano cercò un affittacamere che potesse prendersi cura di quell’uomo» (Ft, n. 78). In effetti, senza il lavoro ben fatto dell’albergatore, non avrebbe potuto offrire tutta l’assistenza necessaria all’uomo che soffriva[9], e neppure l’albergatore avrebbe potuto espletare l’impegno che si era assunto senza il lavoro di coloro che con lui gestivano l’albergo.

In sostanza, la professione, il mestiere e, in generale, qualunque servizio egli presti, è per ogni cittadino una via privilegiata di fraternità sociale e civile, poiché è un’occasione permanente di agire con rettitudine, promuovendo effettivamente la giustizia, la solidarietà e il bene degli altri. Come il samaritano prestò un servizio e «se ne andò senza aspettare riconoscimenti o gratitudine», gli albergatori del mondo esercitano, nella routine quotidiana della loro vita e nel loro lavoro, la responsabilità verso quel «ferito che è il popolo stesso e tutti i popoli della terra». Dal loro posto nella società, nel loro ruolo di albergatori, danno una risposta personale e concreta alle necessità degli altri, rispondono alla chiamata di Papa Francesco: «Prendiamoci cura della fragilità di ogni uomo, di ogni donna, di ogni bambino e di ogni anziano, con un atteggiamento solidale e attento, l’atteggiamento di prossimità del buon samaritano» (Ft, n. 79)[10].

Una larga diffusione di questo atteggiamento può trasformare tutta la città terrena, come il lievito mescolato nella farina (cfr. Mt 13, 33), poiché, come dice Papa Francesco rifacendosi al Compendio della dottrina sociale della Chiesa, l’amore sociale è una «forza capace di suscitare nuove vie per affrontare i problemi del mondo d’oggi e per rinnovare profondamente dall’interno strutture, organizzazioni sociali e ordinamenti giuridici»[11] (Ft, n. 183).

4. Fraternità sociale e carità politica

Il lievito della fraternità sociale che impregna le azioni di ogni cittadino, sia egli albergatore o samaritano, ha una specifica efficacia nel terreno politico, dove si elaborano le leggi che determinano come si può servire il bene comune, sia da cittadino-buon samaritano, sia da cittadino-lavoratore. Basta pensare all’importanza capitale che hanno per il nostro agire quotidiano le leggi sulla famiglia, sul matrimonio, sull’educazione, sul lavoro, sulle prestazioni sociali, sulla libertà di associazione, sulla libertà di espressione, ecc.

È fuor di dubbio che non tutti i cittadini sono chiamati a svolgere funzioni di governo. Tuttavia, nessuno è dispensato dall’obbligo di formarsi bene e di seguire la propria coscienza in tutto ciò che concerne le dimensioni fondamentali dell’esistenza umana e il bene comune della società. Per essere fratello o sorella nel dibattito politico bisogna impegnarsi ad approfondire diverse tematiche e contribuire alla soluzione dei problemi sociali. Questo comportamento è un requisito dell’amore sociale, la carità, ma prima ancora della virtù cardinale della giustizia. Ecco perché mettere in pratica queste esigenze di fraternità sociale è un dovere anche per ciò che concerne questioni che forse non riguardano direttamente o immediatamente la vita o gli interessi personali e sulle quali sarebbe più comodo chiudere gli occhi, non parlarne nemmeno.

È vero che la partecipazione attiva, libera e responsabile alla vita politica dipende dal grado di educazione e di cultura di ciascuno e dalla compatibilità con gli altri impegni familiari, professionali e sociali. Tutti, però, e in maggior misura coloro che posseggono le competenze e le capacità necessarie, sono chiamati a essere fratelli degli altri, compiendo con libertà e lealtà i doveri civici e politici e tenendosi opportunamente aggiornati sulle questioni riguardanti la pubblica amministrazione e il governo, per poter offrire personalmente una critica sociale serena e costruttiva.

I più preparati hanno inoltre una particolare responsabilità in materia di solidarietà e di sussidiarietà. Come ricorda Fratelli tutti, «la politica non può rinunciare all’obiettivo di ottenere che l’organizzazione di una società assicuri a ogni persona un modo di contribuire [al bene comune] con le proprie capacità e con il proprio impegno» (Ft, n. 162). Allo stesso modo, in un altro brano precisa che la dimensione locale «possiede qualcosa che il globale [lo Stato o le organizzazioni internazionali] non ha: essere lievito, arricchire, avviare dispositivi di sussidiarietà» (Ft, n. 142). I cittadini e le associazioni locali, infatti, essendo più vicini alle necessità concrete, si trovano in una posizione migliore per occuparsi delle persone e prendersi cura delle loro ferite.

Si tratta, in sostanza, di coniugare anche nell’ambito pubblico “il noi” al posto “dell’ io”, come proponeva Papa Francesco in una recente intervista, per attingere la “carità politica” o “carità sociale”, intesa come superamento della mentalità individualista e maturazione di quel senso del “noi” che fa amare il bene collettivo e cercare veramente il bene di tutte le persone (cfr. Ft, n. 182)[12].

Nell’iter tracciato dalla Fratelli tutti, la carità politica non avanza alla cieca, né dipende da sentimenti più o meno benevoli. Ha bisogno della luce della verità, che proviene sia dalla ragione che dalla fede: di conseguenza «implica anche lo sviluppo delle scienze e il loro apporto insostituibile al fine di trovare i percorsi concreti e più sicuri per raggiungere i risultati sperati. Infatti, quando è in gioco il bene degli altri, non bastano le buone intenzioni, ma si tratta di ottenere effettivamente ciò di cui essi e le loro nazioni hanno bisogno per realizzarsi» (Ft, n. 185). Papa Francesco non esita a prendere in considerazione le vere ferite dell’umanità, non per far soffrire la gente ma per incoraggiare tutti a impegnarsi a guarirle; per esempio, quando osserva: «Tante volte, mentre ci immergiamo in discussioni semantiche o ideologiche, lasciamo che ancora oggi ci siano fratelli e sorelle che muoiono di fame e di sete, senza un tetto o senza accesso alle cure per la loro salute. Insieme a questi bisogni elementari non soddisfatti, la tratta di persone è un’altra vergogna per l’umanità che la politica internazionale non dovrebbe continuare a tollerare, al di là dei discorsi e delle buone intenzioni. È il minimo indispensabile» (Ft, n. 189). O anche quando afferma che «le maggiori preoccupazioni di un politico non dovrebbero essere quelle causate da una caduta nelle inchieste, bensì dal non trovare un’effettiva soluzione al “fenomeno dell’esclusione sociale ed economica, con le sue tristi conseguenze di tratta degli esseri umani, commercio di organi e tessuti umani, sfruttamento sessuale di bambini e bambine, lavoro schiavizzato, compresa la prostituzione, il traffico di droghe e di armi, il terrorismo e il crimine internazionale organizzato”[13]» (Ft, n. 188).

L’enciclica, dunque, richiama tutti alla propria responsabilità: cittadini comuni, istituzioni pubbliche e private, Stati e organismi internazionali. Occorre evitare la polarizzazione che divide e allontana, senza eludere le eventuali discussioni necessarie. La meta comune è irrinunciabile: arrivare a «una globalizzazione dei diritti umani più essenziali» (Ft, n. 189). Se questo traguardo è ancora lontano, non è perché sia irraggiungibile, ma per altre ragioni.

La pandemia è stata un importante incubatore per la maturazione delle riflessioni contenute nella Fratelli tutti e ha messo in evidenza, con la tremenda sfida che ha lanciato alla maggior parte del mondo, l’incapacità dell’umanità iperconnessa di agire in modo unitario (cfr. Ft, n. 7). Di conseguenza, abbiamo colto l’urgenza di riscoprire la fraternità, di riconoscere che uomini e donne, “fratelli tutti”, come ci ricorda Papa Francesco, «siamo chiamati a invitare e incontrarci in un “noi” che sia più forte della somma di piccole individualità» poiché «il tutto [il bene comune] è più delle parti, ed è anche più della loro semplice somma» (Ft, n. 78)[14].

Le circostanze ordinarie o straordinarie della convivenza, siano esse positive o negative, sono occasioni speciali non solo per dare agli altri qualcosa di ciò che si possiede, ma anche per dare completamente sé stessi, nel senso di fare tutto quello che possiamo. Proprio per questo abbiamo voluto iniziare queste riflessioni con le parole del “santo dell’ordinario”, san Josemaría, «scelto dal Signore per annunciare la chiamata universale alla santità e per indicare che la vita di tutti i giorni, le attività comuni, sono cammino di santificazione»[15]. La vocazione del cristiano consiste nel cercare la santità nella vita quotidiana, amare Dio facendosi fratello/sorella in ogni circostanza dell’esistenza, scoprendo di poterlo fare con frutto svolgendo qualsiasi lavoro onesto e nel compimento delle attività quotidiane. «Quando uno cerca di vivere così mentre svolge il suo lavoro quotidiano, la sua condotta cristiana diventa buon esempio, testimonianza, aiuto concreto ed efficace; si impara a seguire le orme di Cristo, il quale coepit facere et docere (At 1, 1), cominciò a fare e a insegnare, unendo l’esempio alla parola»[16].


[1] San Josemaría, Colloqui, n. 116.

[2] Papa Francesco, Lett. enc. Fratelli tutti, sulla fraternità e l’amicizia sociale, 3-X-2020. Più avanti indicata con Ft.

[3] Concilio Vaticano II, Cost. past. Gaudium et spes, n. 26.

[4] Cfr. P. Donati, I fondamenti socio-antropologici della sussidiarietà: una prospettiva relazionale, in Id. (a cura di), Verso una società sussidiaria, Bologna University Press, Bologna 2011, pp. 25-52.

[5] P. Ricoeur, Histoire et vérité, Le Seuil, Paris 1967, p. 122.

[6] Cfr. San Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus (1-V-1991), n. 48. L’esperienza dimostra che nel tentativo di arrivare a un sistema giuridico che imponga in modo massimalista la buona condotta nella sfera pubblica si ottiene in realtà la progressiva diminuzione delle libertà reali (Cfr. E.-W. Böckenförde, Die Entstehung des Staates als Vorgang der Säkularisation, in Id., Recht, Staat, Freiheit. Studien zur Rechtsphilosophie, Staatstheorie und Verfassungsgeschichte, Suhrkamp, Frankfurt 1991, pp. 92-114).

[7] Cfr. Papa Francesco, Lett. enc. Laudato si’ (24-V-2015), n. 231.

[8] Cfr. San Giovanni Paolo II, Lett. enc. Salvifici doloris (11-II-1984), n. 28.

[9] Lo spiega bene il beato Álvaro del Portillo in una lettera del 1993: «Per occuparsi del ferito il samaritano ricorse anche al locandiere. Come avrebbe potuto cavarsela senza di lui? Nostro Padre [san Josemaría] ammirava la figura di quest’uomo, il padrone dell’albergo, che rimase nell’ombra, fece la maggior parte del lavoro e operò professionalmente. Se considerate il suo comportamento, capite, da una parte, che tutti voi, nell’esercizio del vostro lavoro, potete fare come lui, perché qualunque attività professionale offre l’occasione, più o meno diretta, di aiutare i bisognosi. Sicuramente lo permette l’attività di un medico, di un avvocato o di un imprenditore che non chiuda gli occhi davanti alle necessità materiali che la legge non l’obbliga a prendere in considerazione, perché sa di essere obbligato dalla giustizia e dall’amore; ma anche quella di un impiegato, di un lavoratore manuale o di un agricoltore che trova il modo di servire gli altri, pur in mezzo a difficoltà personali, a volte pesanti. Senza dimenticare – vi ripeto – che il fedele compimento dei propri doveri professionali è già attuazione dell’amore verso i singoli e verso la società» (Lettera del 9-I-1993, in occasione del 50° anniversario della fondazione della Società Sacerdotale della Santa Croce, n. 21).

[10] L’animazione cristiana del mondo si consegue non solo intervenendo direttamente a favore dei poveri e dei bisognosi (gli “uomini gravemente feriti” che popolano le strade della vita), ma anche infondendo in tutte le realtà umane lo spirito evangelico mediante l’adempimento dei doveri professionali e la testimonianza di una vita familiare, sociale e civica esemplare o, almeno, dell’impegno per essere esemplari (cfr. San Giovanni Paolo II,Alzatevi, andiamo! Mondadori, Milano 2004, p. 91).

[11] Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, n. 207.

[12] Purtroppo, invece, «oggi in molti Paesi si utilizza il meccanismo politico di esasperare, esacerbare e polarizzare. Con varie modalità si nega ad altri il diritto di esistere e di pensare, e a tale scopo si ricorre alla strategia di ridicolizzarli, di insinuare sospetti su di loro, di accerchiarli. Non si accoglie la loro parte di verità, i loro valori, e in questo modo la società si impoverisce e si riduce alla prepotenza del più forte. La politica così non è più una sana discussione su progetti a lungo termine per lo sviluppo di tutti e del bene comune, bensì solo ricette effimere di marketing che trovano nella distruzione dell’altro la risorsa più efficace. In questo gioco meschino delle squalificazioni, il dibattito viene manipolato per mantenerlo allo stato di controversia e contrapposizione permanente» (Ft, n. 15).

[13] Papa Francesco, Discorso alla Organizzazione delle Nazioni Unite, New York (25-IX-2015).

[14] Id., Esort. ap. Evangelii gaudium, (24-XI-2013), n. 235.

[15] San Giovanni Paolo II, Discorso ai pellegrini riuniti per la canonizzazione di san Josemaría Escrivá (7-X-2002).

[16] San Josemaría, Colloqui, n. 62.

Maria Aparecida Ferrari, Associata di Etica Applicata nella Facoltà di Filosofia della Pontificia Università della Santa Croce (Roma)

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