La figura storica di Gesù
Chi è Gesù? Che cosa sappiamo di Lui?
Autore: Autori Cristiani
In questi anni che segnano l’inizio del terzo millennio sembra che si sia risvegliato un particolare interesse per Gesù di Nazaret. Per la verità, i libri scritti negli ultimi anni sulla sua figura e la sua persona, anche se non tutti positivi, mettono in rilievo l’attualità e la trascendenza del Figlio di Dio fatto uomo, nonché l’attrattiva della sua vita. Nella sua comunione con il Padre, Gesù si fa presente oggi dinanzi a noi. Che cosa porta Gesù, che cosa dà al mondo? La risposta è semplice: Dio. Ravviva la tua fede. Cristo non è una figura del passato. Non è un ricordo che si perde nella storia. È vivo! “Iesus Christus heri et hodie, ipse et in saecula” – dice san Paolo – Gesù Cristo ieri, oggi e sempre!
La predicazione della Chiesa primitiva presenta sempre Gesù quale Figlio di Dio e unico Salvatore. La proclamazione del Mistero Pasquale porta con sé un paradossale annuncio di umiliazione e di esaltazione, di turbamento e di vittoria: Noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio. Non fu facile per i primi cristiani superare lo scandalo della croce, la realtà della crocifissione e della morte del Figlio di Dio. Da qui il tentativo dei docetisti e degli gnostici di negare che Gesù avesse un corpo reale e passibile, o quello di Nestorio, due secoli dopo, di affermare l’esistenza in Gesù Cristo di due persone, una umana e l’altra divina.
A nessuno studioso serio, tuttavia, sfugge il fatto storico di Gesù di Nazaret. Anche se non esiste una grande quantità di dati extra-biblici sulla sua persona e sulla sua missione, essi sono sufficienti per affermare, senza ombra di dubbio, il suo passaggio sulla terra. È sostanzialmente accettata, per esempio, la testimonianza di Giuseppe Flavio. In uno dei suoi libri, questo storico giudeo del primo secolo si riferisce a Gesù come “uomo saggio […]; egli ha compiuto opere straordinarie, essendo un maestro di uomini che accolgono la verità”. Più tardi, scrivono su Gesù, durante l’impero di Traiano, Plinio il giovane e Tacito; poi lo farà Svetonio, il segretario di Adriano.
Insieme a queste narrazioni, i vangeli sono “la principale testimonianza relativa alla vita e alla dottrina del Verbo incarnato, nostro Salvatore”; sono le fonti che danno una visione dettagliata della sua personalità. La Tradizione della Chiesa, sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, ha riconosciuto in questi scritti la descrizione autentica e sicura della figura storica che ha un carattere divino.
Il valore dei vangeli come fonti primarie per conoscere Gesù non fu messo in dubbio dai cristiani sino alla fine del XVIII secolo. A quel punto alcuni autori pretesero di analizzarli con criteri razionalisti, eliminando le narrazioni – che consideravano inaccettabili per l’uomo moderno – dei miracoli e delle profezie, spiegabili soltanto in base al carattere straordinario dell’intervento divino nella storia. Si trattava del primo tentativo di studiare i vangeli soltanto come libri di storia, senza prenderne in considerazione il contenuto soprannaturale: un progetto che esaminava i testi escludendo la fede nella divinità di Cristo.
Da quel momento abbondarono i libri sulla “Vita di Gesù”, nei quali Cristo appariva come uno dei tanti candidati a messia; un fallito, condannato a morte dalle autorità romane, che, loro sì, possedevano una indubbia autorità morale. Si comprende come queste presunte biografie storiche ritraessero maggiormente il carattere e le convinzioni di chi le scriveva piuttosto che la vera figura di Gesù.
In seguito, i progressi degli studi esegetici portarono a una forte reazione contro tale impostazione: i vangeli furono considerati come testi scritti con fede sincera, anche se indifferenti alle coordinate della storia e dunque non fu superato lo scetticismo sulla divinità della figura storica di Cristo. Negli ultimi decenni i nuovi criteri metodologici hanno permesso una lettura teologica della Bibbia in pieno accordo con la fede.
La verità proclamata dalla Chiesa sul Figlio di Dio, che dopo venti secoli continua a essere pietra di scandalo per la ragione, è quella di una Persona davanti alla quale ognuno deve impegnare la propria vita attraverso un atto di fede; e non una fede puramente fiduciale o credulona, ma una fede che poggia sul fatto che Dio stesso ha parlato e operato nella storia; una fede che crede nella vita e nelle opere reali del Figlio di Dio fatto uomo, e che trova in Lui la ragione della propria speranza. L’importanza della realtà storica del messaggio evangelico è stata evidente sin dai primi istanti del cristianesimo; dice san Paolo: Se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede.
I miracoli e l’autorità di Gesù
Nei vangeli si racconta che Gesù faceva miracoli. Nell’Antico Testamento si narravano già i prodigi compiuti da profeti come Elia ed Eliseo, per non parlare di quelli di cui furono protagonisti Mosè o Giosuè. Anche nella letteratura antica, sia giudaica che ellenista, si raccontano i portenti di alcuni personaggi. Coloro che cercano di negare la veracità dei miracoli di Cristo e, in generale, di tutti quelli che appaiono nella Scrittura, sono soliti appoggiarsi su questi ultimi portenti per affermare che i racconti di fatti miracolosi implicano un genere letterario basato sull’invenzione, magari con l’obiettivo di esaltare un personaggio storico.
Ma le somiglianze lasciano ben presto spazio a profonde differenze, che costituiscono i segni della credibilità e dell’autenticità dei vangeli. Prima di tutto, i miracoli di Gesù sorprendono per la loro verosimiglianza. I vangeli parlano, è vero, di portenti; ma non c’è nulla di esagerato nel modo di descriverli. Un cieco riacquista la vista; un paralitico riprende a camminare… Si capisce, dalla semplicità del racconto, che si è ben lontani dal voler esaltare una figura: sono racconti che rifuggono da ogni spettacolarità, e nei quali si riflette la vita quotidiana dei protagonisti.
Sorprende anche l’autorità che Gesù esercita quando li compie. I prodigi narrati nella letteratura rabbinica si verificano dopo lunghe preghiere. Egli, invece, li compie con un potere che gli è proprio, con una parola o con un gesto, e l’effetto ne segue quasi sempre immediatamente. Un’altra caratteristica unica è la discrezione di Gesù: assai raramente prende l’iniziativa, invece si mostra reticente, ordina che non se ne parli… Anzi, alcune volte, afferma il testo sacro, non poté fare miracoli[8], perché non trovò negli interessati le disposizioni spirituali adeguate. Infine è importante notare che i miracoli di Cristo hanno sempre un significato che supera il semplice effetto fisico.
Il Signore non cede al gusto degli uomini per tutto ciò che è meraviglioso o per la curiosità: cerca la conversione dell’anima, vuole testimoniare la propria missione. Gesù fa vedere che non si tratta di semplici prodigi; per compierli esige la fede nella propria Persona, nella missione che il Padre gli ha affidato.
Da tutto ciò si conclude che gli evangelisti fecero il proposito di mettere a disposizione di tutti alcuni fatti storici, affinché potessero essere completati dalla fede; testimoniano che “tutto nella vita di Gesù è segno del suo mistero. Attraverso i suoi gesti, i suoi miracoli, le sue parole, è stato rivelato che ‘in lui abita corporalmente tutta la pienezza della Divinità’”. Da qui deriva l’importanza, nella vita del cristiano, del consiglio di san Josemaría: Assaporate le scene commoventi in cui il Maestro opera con gesti divini e umani, o riferisce con espressioni divine e umane la storia sublime del perdono, il suo Amore ininterrotto per i suoi figli. Questa replica del Cielo si rinnova anche ora, nella perenne attualità del Vangelo: si avverte, si nota, si tocca con le mani la protezione divina.
L’autorità di Gesù, tuttavia, non si manifesta soltanto nel suo modo di fare i miracoli. Appare ancora più limpidamente nel suo modo di disporre della Legge e della Tradizione: la interpreta, la approfondisce e la corregge. Questa è un’altra caratteristica che lo differenzia e che non si riscontra in nessun’altra testimonianza dell’epoca. L’originalità di questo atteggiamento, evidente negli insegnamenti raccolti nei vangeli, si spiega soltanto con il carattere unico del Maestro, con la sua forte personalità e con la sua dottrina.
Ci si rende conto del suo potere sulla Legge, nell’accorgersi come Egli si preoccupa di adempierla. Nel compierla, Cristo indica esigenze che raggiungono le profondità del cuore, oltre ogni ombra di formalismo. È vero che Gesù mantiene la Legge, però la interpreta con uno spirito innovativo che, pur portandola a compimento, la supera: porta un vino nuovo che non ammette compromessi con gli otri vecchi. E lo fa come un legislatore che parla a nome proprio, superando Mosè. Quello che Dio aveva detto per mezzo di Mosè, il suo Figlio Unigenito lo perfeziona.
Gesù inaugura una nuova era, quella del Regno annunciato molto tempo prima dai profeti: distrugge il regno di Satana scacciando i demoni con il dito di Dio. Il messianismo di Gesù non può essere una invenzione dei suoi discepoli, ideata dopo la Pasqua: la tradizione evangelica contiene tanti ricordi solidi e armonici della sua vita pubblica che non è possibile respingere affermando semplicemente che si tratta di una creazione postuma, frutto di una presunta ideologizzazione apologetica. Gli insegnamenti di Cristo sono inseparabili dall’autorità con cui li proclama.
La divinità di Gesù nei Vangeli
In modo analogo alla negazione della storicità dei miracoli, taluni affermano che il titolo di “figlio di Dio” designa nei vangeli soltanto una vicinanza speciale di Gesù a Dio. In genere lo si argomenta dicendo che questo titolo ha diversi usi nei testi dell’epoca: si applica a personaggi che si distinguono per essere giusti, al popolo d’Israele, agli angeli, alla nobiltà o a persone dotate di facoltà particolari. Ma quando esaminiamo i racconti evangelici, compaiono di nuovo alcune differenze spiegabili soltanto se si riconosce la natura divina di Cristo.
Così, nel vangelo secondo Marco, si attesta che la personalità di Gesù è soprannaturale. È vero che certe volte Gesù è proclamato figlio di Dio da coloro che forse lo fanno intendendo il significato consueto dell’epoca, senza conoscerne a fondo le implicazioni: è il caso, per esempio, dei demoni. Però anche la voce di Dio Padre nel Battesimo e nella Trasfigurazione testimonia che Gesù è Figlio di Dio: e alla luce di questa dichiarazione si può apprezzare in molti altri passi il carattere reale e unico della filiazione divina di Cristo. Per esempio, Gesù stesso si presenta come il “figlio amato” nella parabola dei vignaioli omicidi, radicalmente diverso da tutti i precedenti inviati; manifesta anche un rapporto personale unico di filiazione e di confidenza con il Padre quando lo chiama – e questo è l’unico vangelo che lo riferisce – Abba, Papà. In un tale contesto, è interessante rimarcare che la fede dell’evangelista nella divinità di Gesù la si legge fin dal versetto programmatico vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio, fino alla confessione del centurione, alla fine del testo: Veramente quest’uomo era Figlio di Dio!
In san Matteo la filiazione divina di Gesù viene presentata con maggiore abbondanza che in san Marco. Il titolo viene pronunciato dagli indemoniati, dal centurione, da quelli che passano sotto la Croce sul Calvario, dai sacerdoti, da Pietro e dai discepoli, specialmente dopo un miracolo. Ancora più chiaramente che in san Marco si nota che non tutti quelli che lo chiamano figlio di Dio lo riconoscono come tale, e tuttavia questo atteggiamento serve all’evangelista come contrasto con quelli che invece lo riconoscono.
Da parte sua, il terzo vangelo mette in rilievo la relazione tra Gesù e il Padre, inquadrandola in un ambito di preghiera, di intimità e di confidenza, di donazione e di sottomissione, che sfocia nelle ultime parole pronunciate sulla Croce: Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito. Nello stesso tempo, è facile avvertire che la sua vita e la sua missione sono continuamente guidate dallo Spirito Santo, già fin dal momento dell’Annunciazione dove viene proclamata la sua filiazione divina. Insieme a questi episodi particolarmente evidenziati in san Luca, ritroviamo altre testimonianze comuni con gli altri evangelisti: anche i demoni chiamano “Figlio di Dio” Gesù, nelle tentazioni e nelle guarigioni degli indemoniati a Cafarnao e a Gerasa.
In san Giovanni la filiazione divina di Cristo è presentata nel suo significato più profondo e trascendente: Egli è il Verbo, che sta nel seno di Dio e si fa carne; è preesistente perché è precedente ad Abramo; è stato inviato dal Padre, è disceso dal cielo… Sono caratteristiche che mettono in evidenza la realtà divina di Gesù. La confessione della divinità da parte di Tommaso si può considerare il culmine del vangelo, che è stato scritto perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome. In san Giovanni è evidente, forse più che in ogni altro evangelista, che l’affermazione della divinità reale di Gesù fa parte del nucleo stesso della predicazione apostolica. Una affermazione, del resto, che affonda le sue radici nella coscienza che Cristo aveva di essa nel suo passaggio sulla terra. In questo senso, è di particolare interesse ricordare – ed è un elemento comune a tutti gli evangelisti – il fatto che Gesù distingue la sua relazione con il Padre da quella che hanno le persone: Chi mi glorifica è il Padre mio, del quale voi dite: È nostro Dio; Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro; l’espressione “Padre nostro” sulle labbra di Gesù appare soltanto una volta, quando insegna ai discepoli il modo in cui debbono pregare. Cristo non mette mai sullo stesso livello la sua speciale filiazione e quella dei discepoli: una dimostrazione della coscienza che Egli stesso aveva della sua divinità.
La predicazione della comunità cristiana primitiva presenta le modalità di un annuncio, di una catechesi, di una esortazione o di una argomentazione a favore della fede, e tutte quante vengono riunite nella narrazione evangelica. Questo ha un’influenza maggiore nelle sue caratteristiche letterarie che nei contenuti di ciò che avvenne. È utile scoprire che le necessità della predicazione hanno costretto a scegliere soltanto alcuni episodi fra i tanti e hanno spinto gli evangelisti a presentare la vita di Cristo in un modo più teologico che biografico, più sistematico che cronologico. Però non c’è motivo per pensare che questo interesse e queste necessità possano indurre a falsificare i ricordi, a crearli o a inventarli.
Non solo, ma le espressioni e gli avvenimenti sconcertanti sono una prova ulteriore della credibilità dei vangeli; perché il battesimo, se Cristo non aveva alcun peccato? perché affermare l’apparente ignoranza di Gesù per ciò che riguarda la Parusia, o che non poteva fare miracoli o che era stanco? E pure lo sono la modalità semitica delle parole o l’uso di espressioni arcaiche o non accettate dalla teologia successiva, come “figlio dell’Uomo”.
I vangeli sono pieni di episodi di grande candore e naturalezza: ognuno di essi è una dimostrazione di veracità e del desiderio di raccontare la vita di Gesù nell’alveo della tradizione della Chiesa. Chi ascolta e riceve questa Parola può arrivare ad essere discepolo. Nel messaggio cristiano s’intrecciano fede e storia, teologia e ragione, e i testimoni apostolici manifestano la preoccupazione di poggiare la loro fede e il loro messaggio sui fatti, raccontati con sincerità. In quelle pagine Cristo stesso si fa conoscere agli uomini di tutti i tempi nella realtà della sua storia, del suo annuncio. Leggendole non abbiamo accesso a un ideale morale; meditare il vangelo non vuol dire riflettere su una dottrina: È meditare la storia di Cristo, dalla nascita nel presepio fino alla morte e alla risurrezione, perché quando si ama una persona si desidera sapere anche i minimi particolari della sua esistenza, del suo carattere, per avvicinarsi il più possibile a lei.
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